Aristotele

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Testo

Aristotele
Con Aristotele la filosofia greca del IV sec a.c. raggiunge la sua pienezza e mostra anche di sapersi proporre come un sapere globale, capace di affrontare con successo ogni ambito di ricerca.
Aristotele non era ateniese di nascita: era nato a Stagira una cittadina situata nel nord della Grecia, non distante dalla Macedonia ( a motivo del suo luogo di nascita viene detto talvolta lo “stagirita””).
Aristotele giunse ad Atene, come molti altri giovani del suo tempo, per frequentare l’accademia platonica che già al tempo di Aristotele godeva di grande fama; dopo gli anni trascorsi in quell’ambiente, Aristotele si trasferì ad Asso, nell’Asia minore dove, con altri ex allievi dell’accademia platonica (Erasto e Corisco), fondò una sorta di sede succursale dell’accademia per i cittadini dell’Asia minore e, dati gli ottimi rapporti di amicizia con gli altri due fondatori, ebbe la possibilità di insegnare presso l’istituzione.
Nel 343 si offrì ad Aristotele la possibilità di diventare precettore personale di Alessandro, il futuro Alessandro Magno, figlio del re di Macedonia Filippo ( i contatti con la corte furono favoriti dal fatto che il padre era medico in anni precedenti preso la corte).
Conclusa la propria esperienza come precettore, Aristotele si trasferì ad Atene, dove nel 335 fondò una propria scuola filosofica: il Liceo. Fu così chiamato perché nelle vicinanze si trovava un’aula dedicata ad Apollo liceo ( “liceo” era quindi un epiteto, cioè un appellativo, dato ad Apollo che veniva spiegato in 3 diversi modi dagli studiosi: 1. da Lyké= luce, apollo lo splendente 2. da Lykos= lupo,apollo sterminatore di lupi 3.da Lykeia= la Licia, apollo era divinizzato in questa regione).
Il Liceo di Aristotele comprendeva un ampio edificio, un giardino ed un porticato: sembrava che fosse abitudine di Aristotele e dei suoi collaboratori tenere lezione passeggiando lungo il porticato. Proprio a causa di questa tradizione i seguaci di Aristotele furono chiamati “Peripatetici”.
L’aggettivo peripatetico è perciò sinonimo di aristotelico (l’aggettivo è soprattutto usato nell’espressione “filosofia peripatetica”).
Il liceo, come del resto già l’accademia, prevedeva non solo corsi di carattere filosofico, ma anche scientifico: Aristotele, a questo riguardo, ampliò il numero delle discipline scientifiche trattate (l’Accademia si limitava a trattare di matematica e geometria).
Aristotele, infatti, s dedicò a studi di fisica, astronomia, zoologia, botanica. In sintesi si dedicò a tutte le diverse discipline naturalistiche praticabili. Oltre a questo altro merito di Aristotele è quello di aver fondato una nuova disciplina: la logica. Aristotele rimase alla guida del liceo fino al 323 a.c., fino alla morte di Alessandro il grande. Dopo l’evento, temendo di essere attaccato da più parti come Filomacedone, preferì lasciare Atene e ritirarsi nella propria città d’origine, dove morì l’anno seguente.
LA DIVISIONE DEL SAPERE FILOSOFICO SECONDO ARISTOTELE
Come abbiamo detto, la filosofia, secondo Aristotele, è un sapere in grado di contenere in sé tutti i diversi settori della ricerca e della conoscenza umana.
Si possono tracciare secondo Aristotele tre aree, tre settori distinti della filosofia che sono da lui chiamati filosofia teoretica, pratica e poietica.
1. TEORETICA: da theoreo (osservare, guardare, contemplare riferito alle verità necessarie e immutabili). E’ il settore che si dedica alla ricerca del sapere ed ha tre opzioni 1. metafisica 2. matematica 3. fisica ( comprende studi biologici)
2. PRATICA: dal verbo greco patto: agire, verbo che indica tutte le azioni consapevoli umane cioè le scelte è il settore che si dedica alle questioni di carattere etico e politico e si articola in:
a. etica(scelte personali)
b. politica( scelte pubbliche)
c. economia (scelte attraverso i beni).
3. POIETICA: dal verbo “poico” (realizzare un prodotto, un opera). Si occupa di generare arte, ma in modo particolare , dell’arte letteraria. Tale settore è rimasto incompiuto ed ha prodotto riflessioni, in particolare sulla commedia e la tragedia.
In posizione autonoma si trova la logica, disciplina che si occupa di verificare la correttezza di ragionamenti e delle diverse operazioni logiche come deduzione o induzione.
“Logica” non è un termine aristotelico, risale agli stoici: Aristotele per indicare la logica si serviva del termine “analitica”.
La Metafisica
Con il titolo “Metafisica” è giunta a noi un ampia opera aristotelica in 14 libri: il titolo dell’opera non è, però, dello stesso Aristotele, che aveva lasciato quei libri senza un titolo specifico, ma si deve al filosofo peripatetico (aristotelico) Andronico di Rodi (I a.C.), che diresse il Liceo dal 78 al 47 a.C. e curò per primo l’edizione critica delle opere di A. . Egli, nell’edizione che realizzò, decise di collocare quei 14 libri dopo gli scritti di fisica e, per questo, li indicò col titolo “metà ta physikà”, cioè “gli scritti che stanno dopo (metà) la fisica”. Dunque, il termine “metafisica” si deve a Andronico da Rodi e non compare in A. : egli, invece, per indicare le indagini affrontate in quei 14 libri, preferiva l’espressione “filosofia prima” (pròte philosophìa), cioè la parte principale e più significativa della filosofia, quella che ha diritto alla proprietà, la precedenza su ogni altra indagine poiché tratta dei concetti-base, dei temi fondamentali. La filosofia prima (o metafisica) è la scienza filosofica di riferimento ed è chiamata da A. “scienza dell’essere in quanto essere”, cioè studio dell’essere nelle sue caratteristiche più generali e fondamentali. Tutto ciò che esiste, infatti, possiede alcune caratteristiche di fondo, sempre riscontrabili, chiamate da A. categorie (dal verbo “kategoreo”= mostrare, indicare, porre in evidenza qualcosa, predicare, attribuire una qualità ad una cosa). Le dieci categorie dell’essere evidenziate da Aristotele sono:
1. Sostanza (ad es. “uomo” o “cavallo”)
2. Quantità (“due cubiti”= misura)
3. Qualità (“bianco”)
4. Relazione (“maggiore”)
5. Luogo (”nel Liceo”)
6. Tempo (“ieri”)
7. Trovarsi(“siede” o “giace”: indica l’assetto, la disposizione che l’oggetto ha)
8. Avere (“porta il mantello”: è l’equivalente del complemento d’unione)
9. Agire (“taglia”)
10. Patire (“è tagliato”)
Queste sono, secondo A., le dieci caratteristiche o proprietà strutturali dell’essere , cioè quelle determinazioni che l’essere non può fare a meno di possedere. Ma fra queste dieci proprietà generali o fondamentali possiamo, comunque, individuarne una che ha un ruolo determinante: la categoria di sostanza. Questa categoria è, in assoluto, la più importante perché, tolta questa, le rimanenti nove non potrebbero manifestarsi. Aristotele per indicare la sostanza usava alternativamente due termini greci. Il primo era “ousìa”, che significa “essenza”, mentre l’altro era “hypokèimenon”, ovvero “sostrato”. La sostanza è, nel linguaggio Aristotelico, tutto ciò che esiste in modo stabile, ciò che possiede una precisa struttura che rimane sempre identica, inalterata. Ogni sostanza obbedisce, perciò, al cosiddetto “principio di identità” formulabile come “ogni cosa rimane identica a se stessa nel tempo”. Ogni sostanza, poi, obbedisce anche ad un altro principio chiamato da A. “ principio di non contraddizione” formulabile come “ è impossibile che una certa caratteristica appartenga e non appartenga ad una stessa cosa”: ad esempio, fra le due affermazioni “l’uomo è animale ragionevole” e l’uomo non è animale ragionevole” una è necessariamente vera e l’altra necessariamente falsa. Il principio di non contraddizione intende sottolineare il fatto che le proprietà essenziali di una cosa non si possono ora affermare ora negare, ma devono rimanere stabili, permanenti. Perciò, la sostanza è ciò che permane identico a sé nel tempo per le sue caratteristiche essenziali ( principio di identità) ed è anche ciò che o possiede o non possiede certe caratteristiche ( principio di non contraddizione).
A. intende per sostanza qualunque cosa esistente, cioè ogni cosa che ha una propria natura, una propria identità ( come, ad es., quest’uomo, quest’albero, quest’animale). È sostanza ogni cosa concreta, individuale, autonoma, cioè tutto ciò di cui su può dire “tode ti”, “questa cosa che è qui” davanti a noi, dotata di una sua precisa natura e struttura). Ogni sostanza forma, secondo A., un sinolo, cioè un’unione strettissima, inscindibile di due elementi, che sono la materia, ciò di cui la cosa è costituita, e la forma, da intendere non come la figura esterna di una cosa, il suo aspetto, ma la sua vera natura, la sua propria struttura interna. Il termine “sinolo” deriva dalle parole greche “syn” (= con, insieme) e “holon” (= tutto). Significa, perciò, “tutto insieme” e indica una totalità formata da due elementi che stanno uniti strettamente fra loro, cioè la materia e la forma. La materia, nel sinolo, rappresenta l’elemento passivo, inerte, mentre la forma è l’elemento attivo, strutturale, cioè quello che conferisce ad una cosa quella particolare natura e identità. In una sostanza la forma è ciò che rimane sempre stabile e invariabile: quelle caratteristiche che, invece, non sono essenziali, ma sono transitorie e variabili vengono dette da A. accidenti (in greco “symbebekòs”), nel senso letterale di ciò che accade, che si verifica, anche se non in modo necessario ( ad es. il fatto che un individuo appaia pallido, allegro o malinconico rappresenta un insieme di qualità accidentali, cioè non essenziali, transitorie, variabili).
A. fa poi notare che una sostanza si può conoscere e indagare da diversi punti di vista: o chiedendoci da quale materia è formata o verificando quale sia la sua forma (=la sua natura) o ancora ricercando da cosa è stata prodotta, portata all’esistenza o infine indagando quale sia il suo fine, cioè verso che cosa è orientata. Ogni sostanza possiede, dunque, secondo il linguaggio di A., una causa materiale (= la materia da cui è formata), una causa formale (=la sua natura propria), una causa efficiente (= ciò da cui una sostanza è prodotta o generata), una causa finale (= uno scopo a cui tende in modo essenziale). Per chiarire questa dottrina delle quattro cause A. propone un esempio, cioè quello di una statua prodotta da un artista: questa particolare sostanza possiede una sua causa materiale (il bronzo nel quale è stata fusa), una sua causa formale (ha l’essenza di una statua che consiste nel riprodurre in modo tridimensionale e col supporto di vari materiali un certo oggetto), una causa efficiente ( l’artista che l’ ha realizzata) , una causa finale ( portare gloria e prestigio all’artista).
Esaminiamo un ulteriore esempio e indaghiamo le quattro cause di un una diversa sostanza: una pianta. La causa materiale saranno rappresentati dalla fibra legnosa e dagli altri tessuti vegetali specifici, la causa formale è data dall’essenza della pianta, consistente nell’avere una particolare struttura, la causa efficiente è il seme che ha dato origine alla pianta, mentre la causa finale è il raggiungimento della piena crescita e maturazione.
Il platonismo ha colto unicamente la causa formale, cioè l’essenza necessaria di ciascuna cosa, la sua idea. Ma la filosofia di Platone ha comunque sbagliato, secondo A., nel considerare le idee separate dalle cose e relegate in una zona remota e inaccessibile quale è l’Iperuranio. Se davvero le idee sono sperate, distinte dalle cose non so comprende, osserva A., come possano esserne la causa, l’origine. Perciò, al posto delle idee concepite come paradigmi, modelli trascendenti ed eterni delle cose A. pone le “forme”, intese come le strutture immanenti, concrete delle cose. Così, ad esempio, non ha senso per A., parlare dell’idea di umanità: ciò che realmente esiste è, al contrario, la specie biologica umana, caratterizzata da vita animata cosciente. In tal modo, A. respinge le idee platoniche considerandole come degli inutili “doppioni” delle cose, dei duplicati della cui esistenza non siamo affatto certi.
Chiarito il concetto di sostanza e formulata la propria critica alla dottrina platonica delle idee, Aristotele passa ad analizzare un’altra grande questione sulla quale la filosofia greca si era misurata: il problema del divenire. Le risposte date a tale questione, quella di Eraclito e quella opposta di Parmenide. Secondo Eraclito il divenire travolge tutto e produce un incessante cambiamento in ogni cosa, che mai rimane identico a sé in due momenti successivi (panta rei); secondo Parmenide, al contrario, il divenire e il cambiamento sono impensabili poiché l’essere vero è immobile e immutabile. Secondo A. il divenire è pensabile e non implica, come riteneva Parmenide, un passaggio dal non essere all’essere (che sarebbe logicamente impossibile), ma solo un passaggio da un certo modo di essere ad un altro modo di essere. Detto in modo tecnico il divenire implica il passaggio dalla potenza all’atto, cioè da una potenzialità, da una possibilità che ha una cosa all’attuazione, alla realizzazione di quella possibilità. Ad esempio, il seme è pianta in potenza (katà dynamin), mentre la pianta è il seme in atto (kath’ enègheian). Attraverso questa nuova impostazione si superava la rigidità parmenidea e il suo assoluto rifiuto del divenire e si andava oltre l’eccesso opposto eracliteo che vedeva ovunque cambiamento e trasformazione. L’atto viene chiamato anche “entelechia”, che in greco significa realizzazione, perfezione raggiunta.
L’ultimo grande tema di cui si occupa la metafisica è la questione dell’esistenza di un principio divino che governa il cosmo, cioè la questione teologica. Pertanto la metafisica di A. può essere descritta come un trattato di ontologia, nella sua prima parte e un trattato di teologia nella sua parte conclusiva. Nella metafisica A. fornisce una prova dell’esistenza di Dio che diverrà celebre e sarà a lungo ripresa nei secoli successivi e che sarà chiamata dai medievali argomento “ex motu”, cioè a “partire dal movimento”. Aristotele parte dall’affermazione secondo cui tutto ciò che è in moto ha ricevuto il movimento da altro: questo altro, a sua volta, avrà ricevuto il moto da qualcosa di anteriore e così ancora potremmo risalire a ritroso alle diverse cose che hanno impresso il moto ad altre cose. Ma questo processo mediante il quale si risale all’indietro alla ricerca delle varie cause del moto non può proseguire all’infinito e deve esserci un punto finale al quale giungere e al quale fermare la propria ricerca. Dovrà esserci, dunque, un principio primo del movimento che conferisce il moto alle cose, ma che non è a sua volta in movimento (altrimenti si dovrebbe trovare, di nuovo, la causa di tale moto): questo principio assolutamente primo e immobile del movimento è detto da A. to pròton kinoum akìneton, cioè il primo principio del moto non mosso da altro ( o, più comunemente, il “motore immobile”). Questo principio primo del moto o “motore immobile” assumerà alcune caratteristiche ricavate attraverso un procedimento puramente logico: ad esempio tale principio primo è atto puro, cioè atto senza potenza, atto pienamente realizzato perché se vi fossero ancora aspetti potenziali questo implicherebbe cambiamento e movimento, che invece è stato escluso. Questo principio non potrà poi contenere materia, poiché la materia è in con continuo mutamento e cambiamento, per tanto sarà forma pura o sostanza incorporea ( o anche sostanza separata, che significa “separata dalla materia”, “priva di materia”).
Essendo il principio primo di tutto il motore immobile sarà un essere eterno e dovrà possedere il tipo di esistenza migliore, più elevato, cioè una vita di pura intelligenza, di puro pensiero: ma non essendovi perfezione più grande di questo principio, esso non potrà che pensare se stesso e la stessa perfezione configurandosi come pensiero di pensiero (= nòsis noèseos ).
La Fisica
La fisica appartiene ancora all’ambito della filosofia teoretica e indica, letteralmente, lo studio della natura (dal greco “physis”= natura, da cui “physikè epistème” = scienza della natura ) o, secondo le parole di A. , lo studio dell’essere in movimento o anche, potremmo dire, tutto ciò che è dotato di movimento. La fisica è dunque scienza del movimento, cioè scienza che analizza le tipologie e le caratteristiche del movimento. Secondo la fisica aristotelica esistono quattro tipi fondamentali di movimento:
1. il movimento sostanziale: generazione e corruzione
2. il movimento qualitativo: l’alterazione
3. il movimento quantitativo: accrescimento e diminuzione
4. il movimento locale: traslazione e spostamento.
Il movimento sostanziale è quel moto mediante il quale una cosa “entra” nell’esistenza (= è generata, nasce, è prodotta) oppure “esce” dall’esistenza (= è dissolta, muore, si disgrega); il movimento qualitativo è il mutamento , il cambiamento in una certa qualità, come ad. es., il colore dei capelli che è interpretabile, di nuovo, come un moto in quanto esprime il “passaggio” da una colorazione ad un’altra; il movimento quantitativo esprime invece il “passaggio” (per questo è un moto) da una data quantità ad una maggiore o ad una minore come nel caso in cui si ha un aumento o una diminuzione del peso, della massa; il movimento locale è, infine, il moto propriamente detto, cioè il cambiamento di luogo, lo spostamento da un luogo ad un altro.
Nella prima teoria fisica Aristotele suddivide l’universo in due parti ben distinte:
1. il mondo celeste: mondo comprendente tutti i vari corpi celesti.
2. il mondo sublunare: il mondo abitato dall’uomo.
Questi due mondi differiscono tra loro per varie ragioni: in primo luogo, sono formati da due elementi fisici diversi (terra, aria, acqua e fuoco per il mondo sublunare, etere (o quinto elemento) per il mondo celeste); inoltre, mentre il mondo sublunare possiede diversi generi di movimento locale ( cioè moto rettilineo, ascendente, discendente), il mondo celeste possiede un unico tipo di moto, cioè il movimento circolare, l’unico che si rivela adeguato alla perfezione dei corpi celesti concepiti come incorruttibili e privi di alterazioni; infine, mentre il mondo sublunare è soggetto a continue vicissitudini con il succedersi di cose che hanno un loto inizio, trasformazioni successive ed una fine necessaria, il mondo celeste risulta eterno e immutabile.
L’opinione secondo cui i corpi celesti non sono soggetti a mutamento è durata a lungo nella cultura occidentale e fu abbandonata solo nel XV secolo da Nicolò Cusano. L’origine dell’idea di perfezione e immutabilità dei corpi celesti, invece, è da ricercare nei pitagorici che, per primi, sostennero la perfetta sfericità di tali corpi e la natura circolare delle loro orbite sulla base di considerazioni estetico - geometriche.
L’Etica
Come si è già visto l’etica fa parte, secondo A. , della filosofia pratica, cioè di quella parte della filosofia che studia l’agire umano, i comportamenti e comprende non soltanto l’etica, ma anche la politica e l’economia.
Gli scritti etici di Aristotele sono tre ed hanno per titolo “etica niconomachea” (per Nicomaco); “etica eudemia” (per Eudemio); e l’ultimo “la grande etica”. Fra questi scritti il più importante e completo è il primo. Seguiremo perciò la sua articolazione per evidenziare le tesi etiche di Aristotele.
L’etica niconomachea si apre con un interrogativo: che cos’è la felicità? quando uno può ritenersi felice? A. intende in questo caso una felicità non transitoria o legata al possesso di beni, ma anche una felicità interiore, dell’anima.
A. parte da questa domanda perché ritiene che il vero scopo dell’etica sia mostrare come si ottiene la felicità in un senso interiore e pieno Proprio in quanto pone al centro di tutto l’idea di felicità, l’etica di Aristotele viene detta etica endemistica (dal greco “endaimonia” = felicità).
Nel rispondere alla domanda iniziale Aristotele osserva che è felice colui che compie bene, cioè nel modo migliore possibile, la sua attività specifica: ad esempio un costruttore è felice quando realizza con perizia e competenza un edificio e un musico è felice quando sa eseguire con abilità un brano musicale.
Dunque, in senso generale, la felicità dipende dal compiere bene l’attività o la funzione propria, quella che identifica un particolare individuo.
Se la felicità dipende dallo svolgere con abilità un particolare compito, allora vi saranno tante felicità quanti saranno i compiti che ci sono.
Deve esserci un tipo di felicità che accomuna tutti gli uomini prescindendo dalle diverse capacità, abitudini o professioni, cioè una felicità che riguardi l’uomo in quanto uomo.
Questa felicità “comune” a tutti, gli individui, esiste, secondo Aristotele, e consiste nel seguire la ragione e la saggezza.
Perciò si è felici quando si assecondano le indicazioni, i consigli, i suggerimenti della ragione.
Ciò che la ragione, in ambito etico, consiglia è di seguire le virtù ed a questo riguardo Aristotele precisa che in ogni cosa ci sono delle virtù etiche : ogni virtù è il punto intermedio tra due opposti estremi.
In questo senso, ad esempio, il coraggio è una virtù etica, in quanto è il punto intermedio tra la vigliaccheria e la temerarietà.
La generosità è il punto intermedio tra avarizia e prodigalità.
La virtù piu’ importante è la giustizia che sta nel mezzo tra scarsità ed eccesso.
Secondo Aristotele, ci sono 2 tipi fondamentali di giustizia, cioè la giustizia distributiva, consistente nel dare a ciascuno secondo i proprio meriti o secondo particolari necessità(nel diritto romano questo principio era enunciato nella frase “unicuique suum” a ciascuno il suo).
L’altro aspetto della giustizia è la giustizia commutativa o correttiva ed è quella che ha lo scopo di pareggiare vantaggi e svantaggi: concretamente è quella giustizia che, come dice Aristotele presiede, regola i contrasti che possono essere volontari o involontari.
Esempi di contrasti volontari sono azioni molto comuni come la compravendita, la locazione, la permuta etc..; in questi casi la giustizia commutativa impone che colui che cede un bene sia opportunamente risarcito, attraverso una equivalente somma in denaro o con la donazione di beni pari a quello di cui si è privato.
Sono invece esempi di contratti involontari particolari circostanze come i furti, le lesioni ed in generale tutti quei casi che si subisce un torto o un danno.
Anche in queste situazioni si determi9na un contratto tra due individui quello che procura e quello che subisce il danno anche se, ovviamente chi risulta leso non ha volto in alcun modo che si verificasse quella circostanza.
Anche riguardo ai contratti involontari, interviene la giustizia commutativa assegnando pene o riparazioni proporzionate per i diversi torti o danni causati.
Dopo avere trattato delle virtù etiche che hanno al loro vertice la giustizia, Aristotele passa a considerare un diverso genere di virtù, cioè l’insieme delle virtù cosiddette dianoetiche. ( dal greco dianoia, ragione, riflessione, la mente.)
Cioè virtù proprie della ragione.
Mentre le virtù etiche non avevano un numero definito, le virtù dianoetiche sono 5.
1. l’intelletto (noesis= proprie del nous dunque intellezione, atto compiuto dall’intelletto.) proprio del nous è intuire, cogliere, percepire i primi principi, quelli piu’ generali, (ad es. il principio d’identità e di non contraddizione) ved fine foglio 1 della metafisica.
2. episteme: scienza il sapere dimostrativo, che procede per passaggi successivi, logicamente, concatenati. Mentre l’intelletto intuisce in modo immediato, la scienza procede i modo mediato, per gradi.
3. sophia: sapienza: è il vertice del sapere umano, inteso da arditotele come la perfetta sintesi tra intuizione dei principi e il sapere scientifico, dimostrativo .
4. phronesis: saggezza: è la disposizione abituale a scegliere, preferire ciò che è virtuoso, quando si deve agire.
5. techne: arte: la capacità di produrre opere in modo razionale, adeguato.
Chi desidera una vita stabilante felice deve, secondo Aristotele, crescere progressivamente nella pratica delle virtù dedicandosi anche alle virtù dianoetiche.
E’ proprio la vita dedicata alla ricerca e alla conoscenza quella ritenuta da Aristotele come la migliore e la piu’ felice (vita dedicata alla conoscenza: bios theoretikos).
La Logica
Come già si è detto, il termine “logica” non è di origine aristotelica, ma fu coniato da un movimento filosofico dell’età ellenistica: gli Stoici. Aristotele impiega il termine “analitica”per indicare ciò che noi oggi chiamiamo “logica”. La logica (o analitica) è, per A. , lo strumento generale di verifica della correttezza del discorso e del ragionamento. Per questo un commentatore di Aristotele, Alessandro di Afrodisia (III sec. d.C.) propose di chiamare la logica “organon” ( = strumento): poi, a partire dal VI sec. d.C., si convenne di indicare come Organon l’insieme degli scritti logici di A. che sono: “Categorie”, “L’interpretazione” ( o anche “L’espressione”, in greco “perì hermeneias”), “Analistici primi”, “Analistici secondi”, “Topici” e “Confutazioni sofistiche”.
Nelle “Categorie”, oltre a trattare ovviamente delle dieci categorie dell’essere discusse nella Metafisica, A. analizza i termini – base di ogni possibile discorso che sono i concetti o termini universali. I concetti, come già ricordava Platone, nei dialoghi della vecchiaia, stanno tra loro in un rapporto di maggiore o minore universalità. Ogni concetto di un determinato livello è specie rispetto al concetto di livello più elevato e genere rispetto al concetto di livello inferiore. Ad esempio il concetto “uomo” è specie rispetto al concetto “animale” e quest’ultimo è genere rispetto al primo). [Secondo A. le definizioni delle cose seguono un criterio generale, sempre identico, cioè si basano sul cosiddetto genere prossimo e sulla differenza specifica. Come scrivevano i medievali commentando A. , “definitio fit genus proximum et specificam differentiam” (la definizione avviene per genere prossimo e differenza specifica). Ad esempio l’uomo si definisce come animale (il genere a lui più vicino) razionale (la differenza che identifica la specie uomo). Per ogni oggetto che si intenda definire si deve sempre ricercare il genere ad esso più vicino e la differenza tipica, caratterizzante, cioè tale da distinguere quell’oggetto da tutti gli altri appartenenti allo stesso genere.]
Per i concetti vale una regola generale: più aumenta il numero delle caratteristiche di un concetto, più piccolo e ristretto diviene il numero degli oggetti a cui esso si riferisce. Estensione e comprensione (= numero delle caratteristiche di un oggetto) di un concetto sono inversamente proporzionali. Nella scala dei concetti si va dalla specie infima, che è poi l’elemento singolo, fino ai generi più ampi e generali che sono le categorie.
Nello scritto “L’interpretazione”, A. passa ad analizzare i diversi tipi di proposizioni, di asserzioni, gli enunciati apofantici (che informano di qualcosa). Le varie proposizioni si possono suddividere in alcune tipologie fondamentali, che possiamo evidenziare ricorrendo ad uno schema ideato dai medievali e noto come “quadro aristotelico”.
Le voci A e I presenti nello schema sono le prime vocali di “affirmo”, mentre le vocali E ed O sono quelle della parola “nego”.
A = proposizione universale affermativa (tutti gli x sono y)
E = proposizione universale negativa (nessun x è y)
I = proposizione particolare affermativa (qualche x è y)
O = proposizione particolare negativa (qualche x non è y)
Negli “Analitici primi” A. studia i modi del ragionamento dimostrativo. La forma standard di ragionamento dimostrativo è secondo A. il sillogismo o ragionamento concatenato: A. definisce il sillogismo come un ragionamento in cui poste certe premesse segue necessariamente qualcos’altro per il semplice fatto che quelle premesse sono state poste. Ogni sillogismo consta di una premessa maggiore (detta poi dai medievali “maior”), una premessa minore (“minor”) e una conclusione (“conclusio” o “deductio”).
Esempio:
MAIOR→ tutti gli uomini sono mortali
MINOR→ tutti i Greci sono uomini
CONCLUSIO→ tutti i Greci sono mortali
Osservazioni:
1. Il termine medio (uomini nell’esempio) non compare nella Conclusio.
2. Il soggetto della Conclusio è la prima parte della Minor.
3. La seconda parte della Conclusio è la stessa della Maior.
Ogni sillogismo contiene in sé un termine detto “termine medio”, cioè quel termine che ricorre sia nella Maior che nella Minor. I sillogismo si dividono in modi e figure e quest’ultime dipendono dalla maniera in cui il termine medio è inserito nelle premesse:
1° figura: il medio è prima soggetto poi predicato.
2° figura: il medio è in entrambi i casi predicato
3° figura: il medio è in entrambi i casi al posto del soggetto.
4° figura: il medio è prima predicato poi soggetto.
(Tale sistema fu ideato dai medievali e non da Aristotele).
Il modo di un sillogismo dipende dal tipo di proposizioni che lo formano. Dipende cioè, dal fatto che siano A, E, I, O. Ad esempio il sillogismo esaminato contiene tre preposizioni di tipo A.
Per distinguere e anche per memorizzare i diversi modi dei sillogismi i Medievali inventarono alcune espressioni, in seguito riprese per la loro evidenza e cioè le seguenti:

Esempio