Il mito, dalle origini al V sec.

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Categoria:Filosofia

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Testo

PARTE 1^
MITO, DISCORSO RAZIONALE E INDAGINE SULLA NATURA NELLE POLEIS GRECHE DALLE ORIGINI AL V SECOLO
Introduzione: la nascita della filosofia occidentale nel mondo greco
[Come per tutti i testi di carattere generale e sintetico, è consigliabile rileggere questa Introduz. anche DOPO aver letto la Parte 1^. Solo così si potrà arrivare a una buona comprensione]
1. NASCITA DELLA FILOSOFIA IN ASSOLUTO O DELLA FILOSOFIAOCCIDENTALE?
Ci accingiamo ora a studiare la nascita della filosofia occidentale e non la nascita della filosofia in assoluto. In effetti sono proprio i Greci, gli antenati diretti della nostra cultura, che ci hanno lasciato il nome stesso di filosofia, oggi correntemente usato nelle lingue occidentali. E' anche incontestabile il fatto che essi abbiano dato un contributo importantissimo alla separazione di questa attività umana dalle altre e alla sua definizione odierna. Tuttavia, se con filosofia si vuole indicare la riflessione critica che gli uomini compiono su se stessi e sul senso del mondo naturale che li circonda e del mondo sociale artificiale che le diverse generazioni sono venute creando, è evidente che essa è presente in tutte le civiltà. Cambierà naturalmente il suo nome, avrà forse diversi rapporti con la religione o con le scienze naturali, ma essa esisterà necessariamente in qualche forma.
In effetti, il pensatore indiano Buddha (565-486 a. C. circa) fu contemporaneo del greco Pitagora (570-486 circa), che introdusse per primo, a quanto ci è stato tramandato, l'uso di questo termine nel mondo greco; è significativo che in entrambi la filosofia fu per molti versi collegata con la religione, al punto che il primo - indipentemente dalle sue intenzioni - è stato considerato il fondatore di una delle grandi religioni storiche, e il secondo fu anche il fondatore di una setta religiosa. Quanto al cinese Confucio (551 - 479 circa), esso è di poco posteriore a Pitagora, e comunque precede l'ateniese Socrate (470\469 - 399), che diede impulso all'uso del nostro termine in un senso abbastanza vicino a quello da noi impiegato nell'Invito alla filosofia. Si noti che Confucio è ritenuto il fondatore della cosiddetta religione confuciana (ma il confucianesimo è, piuttosto che una religione in senso stretto, una concezione del mondo e della società e uno stile di vita); quanto a Socrate, egli considerava il suo filosofare una specie di missione divina.
E' indubbiamente nella cultura greca che la filosofia ad un certo punto (all'incirca nel IV sec. a. C., dopo la morte di Socrate) venne distinguendosi chiaramente e in modo definitivo dalle altre attività umane, grazie all'opera straordinaria di Platone ed Aristotele. Ma è pure vero che anche qui essa aveva avuto un lungo periodo di gestazione e che essa venne alla luce nell'ambito di altre forme di pensiero, con le quali si era per lungo tempo accompagnata. I miti greci primitivi e le prime opere letterarie della civiltà greca davano a modo loro - nell'ambito del loro tipo di discorso, che non è quello critico e razionale - delle risposte al problema del senso del mondo, della vita e dell'azione umana. I filosofi hanno poi abbandonato queste originari modi di pensiero non razionali e non critici (le forme letterarie della narrazione mitica, della tradizione tribale religiosa, degli oracoli e dei proverbi, ecc., che utilizzano sempre un linguaggio concreto, basato sull’immagine e sulla similitudine). Hanno però anche per molti versi ripreso nel contenuto alcune risposte, modificandole, ampliandole e soprattutto traducendole in un nuovo linguaggio astratto all'interno di nuovi contesti letterari (essi impiegarono soprattutto le forme letterarie del dialogo, dell'orazione, del trattato).
Quindi, anche in Grecia, filosofia, mito, religione e poesia sono state lungamente fuse o intrecciate. E non solo il mito greco, ma anche le grandi religioni ed il sapere prescientifico o protoscientifico delle grandi civiltà antiche del Vicino Oriente verosimilmente hanno fornito ricchi materiali alla riflessione filosofica greca: l'astronomia caldea ed assira, la geometria egiziana, le conoscenze geografiche e etnologiche dei fenici, l'astronomia e la teologia dei magi (la casta sacerdotale persiana). Proprio in Persia era stato inoltre elaborato lo zoroastrismo, forse la prima religione monoteistica; essa è probabilmente anche una delle fonti da cui sono arrivate al pensiero greco le concezioni dell'unicità di Dio, dell'immortalità dell'anima, della provvidenza e della giustizia divine. Certo, i primi filosofi greci non disponevano di traduzioni degli scritti del Vicino Oriente, ma di Talete, Erodoto e Platone c'è attestata una certa conoscenza, per quanto indiretta e imprecisa, della cultura orientale.
Per concludere, in questo testo noi ci accontenteremo di studiare le origini della filosofia nel mondo greco, senza pretendere che questa sia la sua origine unica ed assoluta, e cercando di non dimenticare i debiti che essa aveva con le culture orientali precedenti e con la stessa tradizione culturale greca prefilosofica, cioè con la cultura del mito.
2.L'AMBIENTE STORICO DELLA NASCITA DELLA FILOSOFIA GRECA
E' importante, per comprendere il senso della filosofia in rapporto alle altre attività umane, tenere presente l'ambiente in cui essa nacque e si sviluppò: le città-stato ioniche sulle coste dell'Asia Minore (odierna Turchia), le città-stato della Magna Grecia e, da ultimo, Atene. Esse erano sedi di una civiltà cittadina marinara e commerciale in cui all'antico potere monarchico ed aristocratico si erano sostituiti nuovi regimi, tirannici o democratici, in cui forte era l'influenza delle classi degli imprenditori agricoli, commerciali e manifatturieri, ed in cui abitava una popolazione differenziata, dedita a molteplici attività artigianali.
Questo ambiente è caratterizzato da un ampliamento dello spazio concesso all'individuo (s'intende, purché libero di nascita e maschio) rispetto ai vincoli tribali che lo legavano fortemente al suo clan (ghénos in greco) nelle monarchie della Grecia arcaica. In effetti, in precedenza in tali monarchie il potere dei re (soprattutto di tipo religioso) era stato fortemente limitato da quello delle famiglie aristocratiche che erano a capo di ciascun ghénos, mentre nei nuovi regimi l’aristocrazia entra in una fase di decadenza.
Altra caratteristica importante è l'apertura del mondo cittadino nei confronti del Vicino Oriente e di tutto il mondo mediterraneo, grazie alla fitta rete di scambi commerciali, in concomitanza con la diffusione della moneta, sconosciuta nella Grecia arcaica, e con l'impiego di nuove rotte e di nuove tecniche di navigazione.
Tradizionalmente gli aristocratici si distinguevano come gruppo sociale omogeneo e stabile per la loro pretesa discendenza dai mitici fondatori dei clan e per l'esercizio delle attività guerriere e sacerdotali, come pure per il possesso ereditario di grandi proprietà terriere. Viceversa, come dice il proverbio, "il denaro non ha padrone" e il nuovo tipo di ricchezza monetaria e commerciale dava luogo ad un nuovo ceto di ricchi, dai confini meno netti, e ad una mobilità sociale per i singoli individui fino ad allora sconosciuta. Perfino la schiavitù, nelle città della Ionia, assumeva una forma più "razionale" (beninteso per i proprietari di schiavi): lo schiavo era oggetto di compra-vendita, e una nuova imprenditoria agricola, capace di organizzare e sfruttare razionalmente il lavoro servile, nasceva nelle valli dell'Asia Minore vicine a tali città. In Atene, poi, e in genere nelle città democratiche, ci sarà uno sviluppo altrove inconcepibile della discussione libera nelle piazze, nei tribunali, nelle assemblee e nei banchetti. Qui si sviluppa, da parte dei cittadini liberi, l'"uso pubblico della ragione" (come lo ha chiamato il filosofo Kant ai tempi della rivoluzione francese). Esso era diventato una necessità - per conciliare le opposte opinioni - ma anche un bisogno spirituale ed un piacere: nella discussione, non meno che nelle competizioni sportive e nelle competizioni artistiche, i greci esercitavano il loro innato spirito agonistico; in esse davano prova del loro estro creativo e sfogavano la loro curiosità e la loro ansia di conoscenza.
Questo ambiente, dunque, era assai diverso da quello molto più statico della Grecia arcaica, ma anche da quello dei grandi imperi teocratici del Vicino Oriente, in cui un monarca che era lui stesso un dio, o che rappresentava la divinità, esercitava un potere di vita o di morte anche sull'aristocrazia e sui ceti sacerdotali. In queste condizioni, dunque, di apertura su diverse civiltà, costumi ed esperienze di vita, di liberazione progressiva dell'individuo da molti vincoli tradizionali e di relativa mobilità sociale si inizia la differenziazione del sapere profano dal sapere mitico ed infine la critica razionale del mito.
3. LA COPPIA CAOS-COSMO NEL PENSIERO GRECO DEL MITO E DELLA FILOSOFIA
Come vedremo, è proprio dal mito che ha origine uno dei temi dominanti della riflessione filosofica greca. Si tratta della contrapposizione tra caos e cosmos (che significa ordine, ma anche armonia e ornamento: il termine include sia l'idea di organizzazione razionale che quella di bellezza). Nei miti del poeta Esiodo (fine dell'VIII secolo) il cosmo è il frutto dell'azione ordinatrice delle divinità del cielo, che sono l'ultima generazione degli dei, discendenti da una divinità originaria, Gea, la Terra, massa informe, oscura e feconda, coeterna al Caos stesso. Il Caos e la Terra sono così la lontana origine, il sostrato, la materia prima su cui l'azione formatrice dei celesti ordinatori del cosmo deve esercitarsi. Il mondo celeste degli astri luminosi, animato da un movimento circolare e regolarissimo, appare al pensiero antico (non solo greco) come la sede naturale dell'intelligenza divina e del comando, tipicamente maschili, che danno ordine e forma a una materia eterna concepita come qualcosa di materno e femminile, di oscuro, "viscerale" e fecondo.
Questa coppia antagonistica Cosmos-Caos rappresenta dunque un modo di concepire il mondo che va ben al di là del periodo della cultura mitica e che costituirà per la cultura greca tutto un patrimonio di idee, di categorie mentali e di metafore, che si ripresenterà nella filosofia delle origini, e poi in quella classica, in molteplici variazioni: limite-illimitato, forma-materia, intelletto-sensazione, essere-divenire, verità-opinione, anima-corpo.
Il primo termine delle coppie indica un tipo di realtà che può essere afferrata saldamente con la ragione, che può essere espressa in proposizioni sensate e collegate ordinatamente tra loro, mentre il secondo indica ciò che per sua natura è oscuro e confuso, indefinito, informe, ma che necessariamente costituisce il punto di partenza, il materiale da elaborare, perché si possa pervenire all'ordine.
Evidentemente il senso di queste coppie concettuali potrà essere realmente chiaro al lettore dopo lo studio della filosofia greca classica. Tuttavia questa anticipazione ci aiuta a percepire fin di subito le differenze tra la cultura greca e la nostra. Nella cultura greca la terra e la materia sono viste in genere come coeterne con la divinità, e in qualche modo divine esse stesse; nella nostra invece la divinità (almeno secondo le concezioni religiose dominanti) crea il mondo dal nulla ed esso non può opporre alcuna resistenza all'azione formatrice e ordinatrice della divinità onnipotente.
Ma non solo, per i greci, la materia resiste all'ordine divino, bensì quest'ultimo, nel pensiero mitico, è addirittura soggetto a una potenza superiore: il Fato, ineluttabile e incomprensibile. Molti filosofi cercheranno di dimostrare che il cosmo è regolato dalla giustizia divina o comunque da forze razionali, in parte sulla scia di Esiodo, in parte sotto lo stimolo delle culture e delle religioni del vicino oriente; tuttavia l'idea del Fato continuerà ad aleggiare nella filosofia greca classica. A eliminarla completamente non furono, crediamo, le argomentazioni filosofiche (che hanno una limitata influenza sulla cultura e sulla società), ma piuttosto l'affermazione storica di una nuova religione, quella cristiana.
CAP.1. IL MITO NELLA LETTERATURA GRECA DELLE ORIGINI
Letture introduttive:
1. LA MORTE E’ PER TUTTI UN ORRENDO DESTINO
Dall’Odissea, canto XI, versi 462-491. Colloquio tra Ulisse e Achille, nel regno dei morti.
“(...) Ma di te, Achille,
nessun eroe, né prima, né poi più felice:
prima da vivo t’onoravamo come gli dei
noi Argivi, e adesso tu signoreggi tra i morti
quaggiù; perciò d’esser morto non t’affliggere, Achille”.
Io dicevo così, e subito rispondendomi disse:
“Non lodarmi la morte, splendido Odisseo.
Vorrei esser bifolco, servire un padrone,
un diseredato, che non avesse ricchezza,
piuttosto che dominare su tutte l’ombre consunte.”
2. IL CORAGGIO COME VIRTU’
Dall’Iliade, canto XXII, versi 99-110. Ettore decide di smettere di fuggire e di affrontare Achille.
“Ohimè, se mi ritiro dentro la porta e il muro, Polidamante
per primo mi coprirà d’infamia(---)
non abbia a dire qualcuno più vile di me:
‘Ettore ha rovinato l’esercito fidando nelle sue forze’.
Ah sì, così diranno. E allora per me è molto meglio
o non tornare prima d’aver ucciso Achille,
o perire davanti alla rocca, di sua mano, con gloria”
3. IL LAVORO COME VIRTU’
Da Le Opere e i Giorni, versi 303-313. Esiodo fa l’elogio del lavoro al fratello Perse.
Gli dei e gli uomini hanno in odio quello che vive inoperoso, simile per inclinazione ai fuchi senza pungiglione, i quali, stando inoperosi, consumano mangiando la fatica delle api. A te invece sia concesso compiere ordinatamente le opere tue, affinché i granai si riempiano del frutto raccolto nella buona stagione. (...) Il lavoro non è affatto vergogna, mentre l’ozio è vergogna. Se tu lavorerai, ben presto ti porterà invidia l’ozioso, quando avrai ricchezza; alla ricchezza sta appresso il prestigio [aaaaaa= la virtù, l’eccellenza] e la fama.
IL MITO E' LA FORMA E-SPRESSIVA DELLE CUL-TURE PRIMI-TIVE
IL MITO, COL- LEGATO CON IL RITO, E' UN TENTATIVO ELEMENTA-RE DI DOMI-NARE L'AM-BIENTE
NELLA VISIO- NE FETICI-STICA PRI -MITIVA, DIVI-NITA', NATU-RA E SOCIE-TA' PATRIAR-CALE NON SONO DI-STINTE
IL MITO NEL-LO STESSO TEMPO EDU-CA, ISTRUI -SCE, SOCIA-LIZZA, DIVER-TE ECC.
IL MITO E' SOLO L'AN-TENATO ROZZO E PRI-MITIVO DEL PENSIERO RAZIONALE E SCIENTIFICO MODERNO?
IL MITO RI-SPONDE A BISOGNI E-SPRESSIVI PROPRI AN-CHE DEGLI UOMINI "CIVILI"

I MITI GRECI SCRITTI NON SONO PIU' PURA TRADIZIONE ANONIMA, MA CREAZIONE INDIVIDUALE

I MITI GRECI, ESPRESSIO-NE DELLA TRADIZIONE GUERRIERA ARISTOCRATICA, PERMAN-GONO COME BASE DELLA CULTURA PO POLARE DEL-LA POLIS

LE VIRTU' TRADIZIONA-LI ARISTO-CRATICHE: FORZA, CORAGGIO, SAGGEZZA
LA VIRTU' EROICA (DIFESA DELL'ONORE E DEL PRE-STIGIO) E' ALL'ORIGINE DEL CON-FLITTO E DELLA VIOLENZA
(HYBRIS)
MANCA L'IN-TROSPEZIO-NE. LE DECI-SIONI UMA-NE SONO I-SPIRATE DA-GLI DEI
DOPO LA MORTE L'ANI-MA E' DE-STINATA AL-L'OSCURITA' E ALL'OBLIO

ANCHE L'EROE VITTORIOSO SARA' SCONFITTO DALLA MORTE

ARMONIA, SENSO DELLA MISURA, AMORE PER LA FORMA
IL DESTINO UMANO E' REGOLATO DA UN FATO INCOMPREN-SIBILE
ESIODO, POETA "TEOLOGO", E' IL PRIMO AUTO-RE CHE PAR-LA DI SE'

GIUSTIZIA DI ZEUS E IMPERFEZIONE DEL MONDO

PROMETEO RUBA IL FUO-CO A ZEUS. L'UOMO E' CONDANNA-TO A LAVO-RARE

LA DONNA PER LA SUA IRRAZIONALI-TA' E' CAUSA DI SVENTURE

IL COSMO, A-DESSO RETTO DAGLI DEI DELLA LUCE, E' NATO DALL'OSCURITA' DEL CAOS ORIGINARIO
ALL’INIZIO ERA IL CAOS
IL CIELO E LA TERRA SI SE-PARANO
ZEUS PONE I CONFINI DELLE DIVERSE PARTI DEL COSMO
DOPO LA FE-LICE ETA' DELL'ORO, IL NOSTRO MONDO E' IN PROGRES-
SIVO DECA-DIMENTO
§ 1. Il mito in generale e il mito greco

1.1. Il mito in generale - orale o scritto
Alla lettera il termine mythos significa "racconto", e solitamente narra l'origine del mondo (cosmogonia) o di una stirpe, le gesta degli dei immortali e dei semidei o eroi, figli di un dio e di un mortale, ecc. Il mito è una forma espressiva tipica delle cosiddette culture primitive, profondamente diverse dalla nostra. Esso, in effetti, in tali culture, risponde a bisogni di tipo emotivo, affettivo, comunicativo e affabulativo, mentre noi abbiamo a disposizione molte forme espressive differenziate per rispondere a questi bisogni (dalla fiaba alla poesia, dalla canzone al melodramma, dalla telenovela al film d’autore).
Molti miti narrano in modo favoloso le origini dei nomi delle cose. Non solo questa spiegazione mitica, ma anche il semplice fatto di dare un nome alle cose per il pensiero arcaico significa già in parte dominarle. Questo è collegato con un atteggiamento magico nei confronti del mondo, e nei popoli primitivi il mito è narrato e cantato spesso proprio in occasione di pratiche magiche.
Del resto anche il far risalire dalle gesta degli dei e degli eroi le istituzioni e le usanze sociali e i fenomeni naturali vuol dire assicurare loro una funzione nell'ordine divino, per cui la ripetizione del racconto mitico è anche un rito, ed ha un significato di rassicurazione e di esorcismo. Né deve meravigliare il fatto che esso mescoli in una stessa narrazione società e natura, perché nella visione *feticistica del mondo esse non sono affatto distinte. Ogni fenomeno naturale appare qui animato da misteriose potenze sacre (feticismo significa appunto considerare tutto quanto animato da forze divine, donde il culto delle piante, dei fiumi, dei boschi, ecc.), mentre la stessa società tribale patriarcale è vista come parte dell'ordine sacro della natura.
Naturalmente il mito non ha un significato solo simbolico e affabulativo, ma risponde contemporaneamente anche a bisogni di tipo sociale e pratico, legati alla produzione e alla riproduzione della comunità : si accompagna, cantato, ai riti e alle feste della comunità, è cantato anche nelle cerimonie dell'iniziazione alla vita adulta, del matrimonio, dell'inizio della caccia e dei lavori agricoli, della guerra, dell'insediamento di un nuovo capo ecc.
Quindi le sue narrazioni favolose sull'origine del mondo, della stirpe, e delle potenze divine presenti nelle cose non sono semplicemente favole rassicuranti, ma contengono anche elementari informazioni tecniche, geografiche, astronomiche, sugli esseri viventi, ecc., così come prescrizioni sociali, mediche, rituali, ecc. Essendo in forma di narrazione, l'esposizione del mito (spesso cantato e accompagnato da riti e danze) naturalmente è anche opera di poesia, è spettacolo ed intrattenimento.
In ogni caso il modo di rappresentare il mondo e la società non è quello astratto della filosofia e delle scienze moderne (individuazione di leggi e concetti generali, da cui si possono dedurre i casi particolari). E' invece, come si è ormai compreso, piuttosto quello concreto della narrazione dell'origine di un certo ordinamento naturale (per es. dell'origine del cielo, della terra e del mare o di un fiume, di un animale, ecc.) e delle gesta esemplari di eroi o popoli – per descrivere e legittimare l'ordinamento sociale.
Il raffronto tra la cultura mitica e la cultura filosofica e scientifica esclusivamente in termini di contenuti conoscitivi ha portato talora a svalutare il mito, legato al feticismo e alla magia. Da tale punto di vista esso è visto unilateralmente solo come la lontana origine del pensiero razionale ed è considerato esclusivamente come una tappa, a suo tempo inevitabile, del cammino verso la modernità, tappa da superare totalmente, da lasciarsi dietro le spalle. Ma non è dal punto di vista dei soli contenuti conoscitivi che il confronto deve essere effettuato. Si tenga conto che il modo di pensare mitico non è del tutto cancellato in nessuna delle grandi civiltà successive, nemmeno nella nostra (che pure è tecnico-scientifico-burocratica): tuttora permangono idee, metafore, valori, sentimenti, desideri inconsci, comportamenti rituali, ecc., che a vario titolo sono di tipo mitico. Per fare degli esempi significativi, nel linguaggio del calcio ricorre spesso la parola “mito”, così come i comportamenti di massa negli stadi hanno qualcosa di rituale; paradossalmente, lo stesso concetto di "progresso" (il mito dell'avvento dell'età della ragione che dissolverebbe tutti i miti) può anche essere interpretato come un mito tipicamente moderno.
In effetti il mito risponde a bisogni espressivi propri anche degli uomini cosiddetti civili, che non possono fare a meno di dare un senso alla propria vita collettiva e individuale, di cogliere il significato del mondo naturale e sociale, di esprimere le proprie aspirazioni e tensioni, ecc. attraverso immagini e simboli. E da più parti si afferma che il senso di disagio culturale e morale proprio del mondo moderno deriva anche dalla sua difficoltà di creare nuovi miti, adeguati a rispondere alle sue esigenze comunicative e affabulative, o di convivere con quelli già esistenti.
Anche il nostro rapporto con le culture mitiche è per sua natura difficile e problematico. Quando i miti sono ancora direttamente accessibili in forma orale, nei popoli primitivi contemporanei o in certe comunità marginali all'interno delle grandi civiltà, gli stessi nostri contatti con loro rischiano di modificarli. Infatti, col contatto con gli antropologi raccoglitori di miti, si modifica anche il tessuto sociale e culturale delle comunità che ne sono portatrici. Inoltre abbiamo enormi difficoltà di traduzione e interpretazione per le radicali differenze di linguaggio e di modo di vita. Quando i miti ci sono stati tramandati in forma scritta (come nel caso greco) è evidente che sono stati manipolati e in qualche misura reinterpretati all'atto della loro trascrizione, che avviene necessariamente in una fase di transizione verso una società diversa e post-mitica. Queste difficoltà tuttavia ora non sono prese in considerazione, e noi ci occuperemo solo del mito greco così com'è stato fissato in forma letteraria e come è stato letto dai primi filosofi.

1.2. Il mito greco antico
Come sappiamo, esso ci è giunto solo per iscritto, in particolari forme letterarie, quali il poema epico (proprio dell'Iliade e dell'Odissea) e il poema didascalico (proprio de Le opere e i giorni di Esiodo).
Il mito era all'origine una creazione collettiva anonima, tradizionale e spontanea; al contrario l'Iliade e l'Odissea, le opere di Esiodo e quelle degli altri autori arcaici contengono già sia una concezione del mondo relativamente sistematica, frutto anche della rielaborazione individuale dell'autore, sia elementi di critica alla tradizione mitica precedente. Sono quindi accentuati in essi gli aspetti che preludono allo sviluppo del pensiero razionale.
Il mito greco nel IX, VIII e VII secolo è l'espressione letteraria di una civiltà formata da piccole città dominate da clan guerrieri aristocratici (da essi provengono i re, i capi guerrieri ed i sacerdoti), il cui potere, già ai tempi in cui furono scritti l'Iliade e l'Odissea, è entrato in una fase di decadenza, mentre ai valori guerrieri cominciano ad affiancarsi valori di altro tipo (per esempio, nell'Odissea, la curiosità del marinaio e del viaggiatore e in Esiodo la laboriosità e l'onestà del contadino piccolo proprietario). Ben presto (sec. VII e VI) nella Ionia si svilupperà una civiltà cittadina e commerciale con caratteristiche più moderne (cfr. Introduzione, punto 2).
Ma la stessa civiltà guerriera arcaica non era una società "ingenua" e del tutto priva di storia. Come è noto, era succeduta alla civiltà micenea, più evoluta. Quest'ultima ci ha lasciato le città megalitiche del Peloponneso, con i loro maestosi palazzi reali e le vestigia di un sistema relativamente complesso di amministrazione dei patrimoni regi; tra l'altro conosceva la scrittura (la cosiddetta "lineare B"). Quindi la fase di elaborazione orale del mito era avvenuta in un ambiente in cui si conosceva in precedenza la scrittura, della quale si era poi perso l'uso. Così il mito arcaico, sviluppatosi nelle epoche successive al declino della civiltà micenea, epoche più povere e più arretrate (il cosiddetto "medioevo ellenico"), racconta le origini dei clan guerrieri del tempo da antichissimi eroi, che corrispondono ai re e ai guerrieri Micenei (o Achei). La saga della guerra di Troia probabilmente rispecchia in modo fantastico una guerra o una serie di guerre dei Micenei contro tale città.
In tal modo essa racconta al tempo stesso le origini dei clan aristocratici, di intere comunità cittadine e delle genti di lingua greca: è insieme cultura aristocratica e cultura popolare. In quanto cultura popolare, cultura cittadina e cultura nazionale greca, servirà nelle epoche successive come base del sistema educativo e morale di tutte le città elleniche. I greci imparano a memoria lunghi passi di Omero, e chi impara a leggere e a scrivere usa l'Iliade e l'Odissea come primi libri di testo; inoltre i racconti della tradizione sono ripetuti o anche rielaborati dalle nutrici e dai precettori privati, dai rapsodi e dagli aedi che cantano nelle corti o nelle piazze, dai poeti, dai tragediografi, dagli oratori nei discorsi ufficiali, ecc. Fino all'avvento del cristianesimo i valori del mondo omerico saranno presenti nella mente e nel cuore dei greci e saranno quindi necessariamente anche un punto di partenza inevitabile della riflessione filosofica.

§. 2. I miti omerici

I miti omerici, redatti per iscritto all’incirca nell'VIII secolo nell'ambiente relativamente più moderno della Ionia, sono comunque legati ad una cultura guerriera ed aristocratica, già, come si è detto, in decadenza.
Essi celebrano in particolare le areté (doti, virtù) guerriere degli aristocratici ellenici (forza fisica, coraggio, generosità, saggezza, astuzia, ecc.). Qui il culto del coraggio e dell'eroismo ha un forte sapore agonistico ed "individualistico". Tale "individualismo" è però ben diverso da quello moderno: ogni capo guerriero vuol dimostrarsi superiore agli altri, ma rimane sempre all'interno del ruolo assegnatogli dalla comunità e accetta la concezione delle virtù tramandata dalla tradizione e il significato delle gesta belliche condiviso da tutti gli altri. La concezione codificata delle virtù e dei ruoli sociali, dunque, non è sottoposta alla critica individuale.
Mario Vegetti (che ha scritto un'interessante opera sull'Etica degli antichi, ed. Laterza) osserva che il mondo omerico degli eroi è percorso da una fortissima tensione interna. Il guerriero deve sempre dar prova della sua virtù (cioè della sua capacità di affrontare il nemico) per potere aspirare all'onore, che consiste nell'essere rispettato e temuto dai sudditi e dagli altri eroi. Non è attestata nel mondo omerico una chiara legittimità dell'autorità dei capi guerrieri sui loro seguaci e sudditi, né un chiaro diritto dei loro figli di ereditare il comando dal padre: un eroe deve continuamente dimostrare in guerra di possedere le virtù del capo e i suoi figli devono dimostrare con le armi di possedere le virtù già possedute dal padre (questo è anche il caso di Telemaco nell'Odissea).
Da ciò una potenziale lotta di ogni clan guerriero contro tutti gli altri, e di ogni eroe contro chiunque attenti al suo onore. L'Iliade stessa del resto è dedicata all'"ira di Achille", cioè allo scontro inevitabile tra gli achei Achille ed Agamennone, che, agendo entrambi per difendere il proprio onore e prestigio, non possono che arrivare all'eccesso, allo scontro violento, alla tracotanza (in greco: hybris). Il mondo omerico non conosce un principio etico superiore, né un'autorità personale capaci di dirimere il conflitto e tenere a freno la hybris. L'eccesso, la difesa violenta del proprio prestigio, che conduce inevitabilmente al conflitto, sono, per Vegetti, essenziali nel mondo omerico, e scaturiscono proprio dalla virtù stessa dell'eroe, che richiede la difesa del suo onore.
Del resto il comportamento degli eroi ha qualcosa di ineluttabile, di predeterminato, senza possibilità di libera scelta. Questo anche perché la stessa nozione di carattere, di personalità, di spirito individuale, propriamente parlando, mancava nel mondo omerico. Le facoltà psichiche, secondo quanto dice Bruno Snell, autorevole filologo e storico della cultura greca, non sono qui distinte da quelle fisiche, e l'autore (o gli autori) dell'Iliade e dell'Odissea non ha neppure i termini adeguati per descrivere nell’intimo i suoi eroi, manca cioè della terminologia dell'introspezione. La sua descrizione dei sentimenti è perciò tutta fatta dal punto di vista dell'osservatore esterno, attraverso una potente gestualità. Inoltre, le passioni, le virtù e le decisioni stesse degli uomini e degli eroi sono viste come dono degli dei: non come frutto di un'attività mentale, di un'iniziativa personale, ma come frutto di un'ispirazione o di un aiuto divino. Nell'Iliade per esempio non si dice: Achille si concentrò in se stesso e, vinta l'ira che Agamennone gli aveva provocato, parlò all'assemblea degli Achei, ma piuttosto: Atena infuse calma e saggezza ad Achille e gli suggerì di parlare all'assemblea.
Collegata all'assenza di una distinzione tra anima e corpo (Snell) è anche la concezione del destino umano dopo la morte. L'aldilà (il mondo sotterraneo) per gli esseri umani è visto come sopravvivenza allo stato di larve, di fantasmi, che riacquistano un barlume di vita solo grazie al ricordo e ai sacrifici dei vivi; la morte è dunque il peggiore dei mali, e il male estremo è la morte senza sepoltura: il fantasma, anziché spegnersi lentamente nella quiete e nell'oblio, si aggira tra i vivi a reclamare i riti che devono placarlo - il rogo funebre e gli onori del suo clan. Omero (o meglio: l'autore o gli autori dell'Iliade e dell'Odissea) è tristemente consapevole del fatto che ogni esistenza umana è votata dal Destino alla morte: anche l'eroe vittorioso sarà da essa sconfitto. Tale consapevolezza convive però con l'esaltazione delle bellezze della vita nei suoi aspetti fisici più immediati (forza, salute, bellezza, piaceri del banchetto, del matrimonio, delle gare atletiche, ecc.).
Quanto agli dei omerici, su di essi e sulle loro passioni così tipicamente umane si è appuntata l'ironia prima di alcuni filosofi greci, poi dei lettori cristiani e moderni. In effetti, nel mondo omerico degli dei come in quello degli eroi e degli uomini, vigono valori ben diversi da quelli della successiva polis greca, degli stati alessandrini, dell'impero romano e del cristianesimo. Tra gli dei vige infatti lo stesso comportamento agonistico che vige tra gli eroi achei, e che sarà invece progressivamente messo da parte dalla civiltà antica a partire dalla polis.
*Paradossalmente, si potrebbe osservare che sia nel cristianesimo sia nella religione olimpica gli dei sono relativamente vicini all’uomo, anche se per ragioni diametralmente opposte. Per la religione cristiana Dio si fa uomo, e questo, almeno rispetto alla concezione ebraica dell'Antico Testamento, avvicina l'umano e il divino, ma nemmeno nella religione olimpica dei Greci la distanza tra umano e divino è molto grande, seppure per ragioni molto diverse. Nella religione olimpica infatti gli dei hanno caratteristiche apertamente, ingenuamente, umane, anche se notevolmente potenziate rispetto alle nostre. Essi dunque sono un modello elevato, ma realmente imitabile. L'espressione "simile ad un dio", riferita ad un uomo per lodarne il comportamento o l'aspetto o il carattere, ricorre in Omero, in Saffo, in Pindaro e in Platone. Gli dei sono, per così dire, a misura d'uomo: la loro felicità e la loro immortalità ci sono precluse, ma le nostre virtù non sono infinitamente lontane dalle loro.
Nella descrizione omerica di questi dei, così come nella loro rappresentazione scultorea dall'età arcaica all'età classica (che è egualmente una fonte importante della mentalità greca) gli dei sono rappresentati in forme armoniose e proporzionate. Armonia, senso della misura, amore per la bellezza corporea intesa come proporzione, sono ideali tipici del mondo omerico e al tempo stesso dell'intera civiltà greca, almeno secondo l'interpretazione di tutto il classicismo moderno, dal grande studioso di storia dell'arte Winckelmann (1717-1768) allo storico della cultura e della filosofia Werner Jaeger (1888-1961). Ci importa qui sottolineare che il senso della misura e l'amore per l'armonia e per la nitidezza della forma sono una caratteristica dell'arte e al tempo stesso del pensiero greco. Si tenga presente anche però che quella tendenza alla dismisura (che, come si è detto, è una caratteristica centrale dell'eroe omerico), resta celata dietro il culto della misura, sempre in agguato, pronta a far nascere passioni e conflitti.
Infine, al di sopra degli dei sta un Fato incomprensibile, che regola il destino degli uomini e degli stessi dei, che è già da sempre deciso, e non può essere evitato. Il Fato sta al posto della giustizia divina o della giustizia cosmica, che invece troviamo nelle grandi religioni monoteiste, e che si intravede anche nei miti esiodei (§ 3).
Finora abbiamo parlato dell'immagine omerica del mondo umano, che è di gran lunga l'aspetto più interessante dei poemi epici. Quanto all'immagine del cosmo, essa è molto semplice: nei poemi la Terra è immaginata come un grande scudo posto sopra l'Oceano. Inoltre relativamente scarso è in essi l'interesse per i dettagli della produzione e della riproduzione, e per i cicli della natura, che invece interessano gli agricoltori cui erano rivolti i miti esiodei, di cui ora parleremo.

§ 3. I miti esiodei

Il filosofo Aristotele (secolo IV) considerò Esiodo un "teologo". In effetti dai suoi poemi traspaiono una teologia e una cosmologia relativamente sistematiche, anche se sempre espresse nella forma della narrazione mitica. Esiodo visse probabilmente alla fine del secolo VIII in un paesino della Beozia e, diversamente dall'autore (o dagli autori) dell'Iliade e dell'Odissea, parla espressamente di sé nelle sue opere, ciò che ci testimonia un'evoluzione della psicologia in direzione di un più forte senso della soggettività e della personalità umane. Non è del tutto certo che "Omero" (l’autore dei poemi omerici) sia stato più antico di lui, come vorrebbe l’interpretazione tradizionale (cfr. L. Canfora, Storia della letteratura greca, p. 55-56); certo è che l'ambiente sociale che lo ha prodotto è diverso da quello omerico: si tratta di una società piuttosto povera e arretrata di piccoli proprietari contadini.
Alcuni dei temi da lui trattati sono fortemente connessi con la vita agricola: il poema didascalico Le opere e i giorni tratta appunto dei lavori agricoli e dei periodi dell'anno che ad essi devono essere destinati; ma anche nel poema cosmogonico giuntoci con il titolo di Teogonia ritorna il tema della riproduzione e della fecondità della terra. Anche il riferimento alle divinità ctonie (del suolo e del sottosuolo) ci permette di ipotizzare un legame con miti primitivi preellenici e forse non ellenici.
Tipicamente esiodea è anche l'esigenza di una giustizia cosmica, e l'insistenza sulla funzione di Zeus come ordinatore del mondo naturale e sociale e come giudice.
Questa è la legge di natura che agli uomini ha disposto il Cronide [Zeus], cioè ai pesci ed alle fiere ed agli uccelli alati di mangiarsi a vicenda, perché fra loro non esiste la giustizia; agli uomini invece ha dato la giustizia, che è di gran lunga la migliore (Le opere e i giorni, versi 276-280).
Chi agisce con moderazione, equità e giustizia fa prosperare se stesso e la sua città. Invece la violenza dell’ingiusto comporta sventure per lui, per i suoi discendenti e per la sua città. “Un uomo che apparecchia mali li apparecchia a se stesso, e il pensiero malvagio è pessimo per chi lo pensa”.
Al tempo stesso il poeta ha una visione assai pessimistica riguardo alla vita sulla Terra: se l'ordine di Zeus regna senza fallo nel Cielo, la Terra attraversa un periodo di inevitabile decadenza e la vita quaggiù è funestata dalle passioni, dalla miseria e dalla necessità di lavorare.
Consideriamo ora alcuni miti importanti. Il mito di Prometeo ci mostra il lavoro umano come espiazione della colpa di Prometeo - il furto a Zeus del fuoco, da lui poi donato agli uomini - quindi come atto di giustizia cosmica e insieme come atto di culto. Attraverso di esso dunque gli uomini possono riscattarsi, entrando in una benefica gara di emulazione.
In Esiodo, come si vede, la scala dei valori è molto diversa da quella omerica: la giustizia e l'operosità sono le virtù più importanti. *E' opportuno notare che, nonostante l'influenza di Esiodo come poeta teologo, viceversa l'operosità, virtù contadina e popolare, godrà sempre di poca considerazione nella moralità greca, perfino nelle città democratiche.
Nel mito di Pandora, collegato a quello precedente, viene narrata l'origine del sesso femminile. Pandora ("colei che ha tutti i doni"), la prima donna, mandata da Zeus sulla terra per punire gli uomini, riceve dalla divinità un vaso che non deve aprire. Spinta dalla curiosità, lo apre e tutti i mali (la malattia, la vecchiaia, la miseria, ecc.), che erano contenuti dentro di esso, si diffondono per tutta la terra. Anche dai consigli dati ai lettori sul modo di trattare con le donne, viste come fonte di desideri smodati, emerge la misoginia dell'ambiente sociale di Esiodo, che considera la donna un essere passionale, essenzialmente irrazionale.
Il mito della teogonia (o cosmogonia) ci mostra l'origine del cosmos (ordine) dal Caos iniziale: le divinità più antiche sono l'informe e asessuato Caos e Gea, la terra madre, feconda, oscura, inconscia, indeterminata: da esse si originano le divinità del cielo e della luce che simboleggiano la chiarezza, la definitezza, la forma e la ragione.
Il poema è un elenco sterminato di nomi: Esiodo narra la nascita e le lotte delle diverse generazioni di dei e in continuazione elenca divinità rappresentanti forze naturali (il Giorno e la Notte, Zeus, dio della folgore e delle tempeste, Posidone, dio dei Terremoti, i Fiumi, le Ninfe dei corsi d’acqua, ecc.), forze psicologiche (l’Amore, l’Inganno, la Contesa, il Sonno, ecc.), forze cosmiche (la Morte, la Fortuna, la Vittoria, ecc.), parti del mondo (Cielo, Terra, Oceano, Abisso, ecc.). Con questa evocazione, il cosmo acquisisce man mano un volto ordinato e comprensibile: Esiodo, dicendo i nomi delle diverse forze cosmiche e parti del mondo, avrà compiuto il rito poetico che permette idealmente di dominarle e di esorcizzarle.
Cerchiamo di *esporre sinteticamente e di interpretare questo processo di generazione. All’inizio di tutto ciò che esiste, dunque, c’era il Caos. La Terra nasce per seconda, distinguendosi dal Caos. Essa genera il Cielo (Uranos), che l’avvolge tutta intorno, e poi il Mare e i Monti, e altri ancora. Si unisce poi sessualmente con il figlio Urano, ma i figli nati da questa unione non possono uscire da lei perché Urano, che li odia, li ricaccia nel ventre della Terra. Cronos, uno di essi, prendendo la falce affilata datagli dalla madre, taglia i genitali di Urano e riesce così insieme ai fratelli ad uscire alla luce. Con la castrazione di Urano effettuata da Crono, *osserva Graziano Arrighetti, studioso del mito teogonico, si passa da uno stato di unione originaria di Terra e di Cielo ad una loro separazione e distinzione.
Questo processo di distinzione e delimitazione delle parti dell’universo continuerà con le generazioni successive. Da Cronos (figlio di Uranos, corrispondente al latino Saturno), discendono Zeus (dio della giustizia, corrispondente a Giove), Apollo (dio della bellezza), Atena (o Minerva, dea della sapienza), e tutti gli altri dei olimpici. Instauratosi infine nel cosmo il regno giusto e bene ordinato di Zeus, divinità celeste, questi dovrà combattere per sedare la ribellione dei Titani, i giganteschi figli della Terra, e più tardi quella dell'orrido Tifeo, drago dalle cento teste di serpente, figlio della Terra e del Tartaro (l’abisso che è sotto la Terra).
Zeus, per imprigionare questi mostri, porrà limiti e confini tra le varie parti dell’universo: essi vengono da lui seppelliti in fondo all’Abisso, ad una distanza dalla Terra pari a quella tra quest’ultima e il Cielo: per conto di Zeus il dio Poseidone (Nettuno) vi pone come barriera un muro e porte di bronzo.
La vittoria finale di Zeus sul mondo ctonio (sotterraneo) è variamente spiegata dagli *interpreti moderni: vittoria dell'ordine sul caos, della forma sulla materia, della ragione sull'istinto, delle divinità indoeuropee dei Greci sulle divinità ctonie delle popolazioni precedenti (tanta varietà di interpretazioni non deve far pensare ad un testo concettualmente complesso: la narrazione esiodea è estremamente scarna ed linguaggio arcaico; la sua forza suggestiva dipende semmai dall’essenzialità delle immagini).

Passiamo ora dalla formazione di uno spazio delimitato e definito, il cosmo appunto, alla delimitazione del tempo, cioè alla divisione della storia cosmica in ere. Il mito delle cinque stirpi o delle cinque età (dell'oro, dell'argento, del bronzo, degli eroi e del ferro) narra l'apparizione e la scomparsa sulla terra delle quattro stirpi di semidei ed eroi che hanno preceduto il genere umano (che è l'ultima stirpe, quella di ferro) secondo un ciclo di progressivo decadimento: il nostro mondo, caratterizzato dalla guerra e dalla necessità di lavorare è dunque il più lontano dalla divina età dell'oro.
Questo mito ha in seguito influenzato le filosofie che concepiscono la storia come decadenza, come progressivo allontanamento dall'originario ordine divino del mondo (cfr. Platone).

§ 4. Continuità tra Mythos e Logos e confronto tra cultura del mito e cultura dela Rivelazione
.§.4.1.Mythos e Logos.
Non solo i primi filosofi, precedenti a Socrate (presocratici), ma l'intera filosofia classica erediterà i contenuti dei miti della Grecia arcaica come sfondo e punto di partenza. A questo punto però l'espressione non sarà più mitica, concreta, narrativa, ma diventerà progressivamente astratta, razionale-dimostrativa, logica (logos = discorso; prenderà sempre più il senso di discorso razionale). Ciò che nel mito era creduto vero perché tramandato o perché affermato dall'autorità degli antichi Omero ed Esiodo, deve ora essere provato. Però, se alcune delle concezioni mitiche vengono semplicemente confutate e respinte, molto più spesso esse vengono rielaborate e reinterpretate.
Ricordiamone alcune più significative:
opposizione tra caos e cosmos, tra ciò che è terrestre (materia feconda, oscura, informe, inconscia e senza delimitazioni) e ciò che è celeste (luce che illumina, intelletto, forma, limite razionale);
percezione della natura come un insieme di forze animate, sensibili e quasi divine (*ilozoismo = concezione secondo cui la materia - hyle - è qualcosa di vivo e animato - zoòn);
divinità e perfezione del cielo, in contrapposizione con la terra;
carattere di necessità e ineluttabilità della forza che domina il mondo, sia esso il fato - secondo la tradizione omerica - o la giustizia cosmica - per altri;
ineluttabilità della morte; tragicità del destino umano;
ciclicità della storia (=essa si articola in età che si ripetono ciclicamente) e convinzione che l'attuale, prosaica, età del ferro, sia la degenerazione di un'originaria, divina, età dell'oro;
volontà prometeica di autonomia dell'uomo, che, attraverso le tecniche (il fuoco rubato da Prometeo), si ritaglia un suo spazio nell'ordine divino del cosmo.

L'UOMO MO-DERNO NON SI RASSEGNA AI SUOI LIMITI

IL NUCLEO RAZIONALE DELL'IDEA DI DESTINO E' LA LIMITATEZZA UMANA
IL MITO DEL PROGRESSO, MODERNA FUSIONE DEL MITO DI PRO-METEO E DELL'IDEA DI PROVVIDEN-ZA
IL PROGRESSO COME PROCESSO DI TRASFOR-MAZIONE SENZA LIMITI

§ 4.2.*APPROFONDIMENTO. Senso del limite umano e accettazione del destino: differenze tra la cultura antica e quella moderna.
[[NB: In questo paragrafo, come in quello successivo, non ci limiteremo ad esporre i dati della storia del pensiero passato, ma li confronteremo con le concezioni moderne corrispondenti. Questo confronto esplicito mira a rimuovere i preconcetti a favore della modernità, spesso impliciti nel lettore. Tale operazione, naturalmente, non è neutrale: nessuno , in un confronto del genere, può pretendere di guardare “dal di fuori”]]
Tra i concetti appena elencati ci sono anche l'ineluttabilità del destino e la tragicità dell'esistenza umana. Essi, alla mente del lettore contemporaneo possono apparire arcaici e come tali destinati a essere superati dallo sviluppo del discorso razionale. In effetti, la nostra civiltà considera il fatalismo un atteggiamento che porta alla passività, alla rassegnazione e all'accettazione della società in cui si vive e dell'ambiente naturale così come sono. L'atteggiamento moderno è invece attivo, dinamico, pratico e sperimentale: gli aspetti dolorosi della realtà non sono accettati come tali, ma investiti dalla volontà umana di cambiamento, nella positiva speranza che gli sforzi finora compiuti dalle generazioni precedenti per mutare le proprie condizioni di vita si saldino con i nostri, in un progresso illimitato, in una rincorsa infinita alla razionalizzazione dell'esistenza.
Si ritiene comunemente che l'aspettativa del progresso sia giustificata dai dati dell'esperienza (le tecniche non hanno fatto che progredire nel corso della storia) e dalla nostra stessa attività che, ponendosi nella prospettiva del progresso, positivamente lo produce. Tuttavia l'esperienza di questo secolo ci mette di fronte a due guerre mondiali, alla proliferazione delle armi nucleari, al sovrappopolamento del mondo, alla sottonutrizione di gran parte di esso, a rischi ambientali che possono provocare danni gravi e irreversibili. Quanto all'attività dell'uomo moderno occidentale, si potrebbe sostenere che forse esso si aspetta dall'iniziativa capitalistica, dallo Stato, dalla scienza e dalla tecnica lo stesso tipo di salvezza per il corpo che il cristiano si aspetta per l'anima dalla provvidenza e dalla grazia divina. Del resto esso non sembra capace di mutare, per cercare di risolvere i problemi ricordati, il suo stile di vita produttivistico - consumistico, che ne è evidentemente una delle cause. Ci si può chiedere quindi se proprio il progresso non sia un mito e se invece la concezione dell'ineluttabilità del dolore, della sconfitta umana davanti alla morte, dell'impossibilità fatale per l'uomo di valicare certi limiti non sia più di esso critica e razionale.
In conclusione, è certamente mitica dal punto di vista della forma letteraria l'immagine del Destino come corso del mondo scritto una volta per sempre in un libro segreto da una divinità onnipotente e arbitraria, o quella delle Parche che filano la trama della vita degli uomini. Ma il concetto, o la famiglia di concetti, collegati a tali immagini e metafore sono difficilmente contestabili con argomenti razionali, tanto è vero che c'è voluta l'affermazione storica di una nuova religione, quella cristiana, con la sua concezione della Provvidenza, per riuscire a scalzarlo. Il nucleo concettuale di questa visione tragica del destino è forse la semplice idea che sia il singolo, sia le società, sia l'umanità intera hanno certi limiti.
Certo, questi limiti non sono rigidi e sono soggetti a modifiche: la vita individuale media può essere prolungata di qualche anno, le società non sono necessariamente soggette a vincoli tradizionali e possono essere migliorate, l'umanità potrebbe in un lontano futuro spingersi oltre la terra, ecc. Ma questi limiti potrebbero anche essere ristretti da eventi naturali incontrollabili: malattie incurabili possono diminuire le aspettative di vita, una nuova glaciazione può porre limiti allo sviluppo futuro dell'umanità, ecc. Non solo, ma, secondo certi filosofi contemporanei, i pericoli derivano dalle stesse aspettative moderne di progresso indefinito, dalla stessa concezione moderna dell'illimitatezza e dell'onnipotenza dell'umanità, risultante -si direbbe- dalla fusione del mito di Prometeo con l'idea di Provvidenza.
Da un lato dunque, l'umanità moderna, sul modello di Prometeo, si impegna in una titanica lotta contro i suoi limiti. Ma per gli antichi l'idea di trasformare profondamente noi stessi, il nostro ambiente e l'ordine della natura si collegava abbastanza spesso a presagi catastrofici (si pensi alla punizione che gli dei infliggono a Prometeo, incatenato su di una roccia, destinato eternamente a fare da banchetto ad un'aquila); invece per i moderni, consciamente o inconsciamente influenzati dal cristianesimo, questa opera di trasformazione è -in qualche modo- voluta, promossa ed aiutata dall'intervento della Provvidenza divina nelle cose umane. La discesa dello Spirito nell'uomo, annunciata dai Vangeli e dall'apostolo Paolo, in qualche modo è stata reinterpretata in termini laici dai moderni come progresso mondano indefinito: una potenza divina - si chiami civiltà, scienza, tecnica, spirito d’iniziativa, creatività o altrimenti - è all’interno dell’uomo, e lo spinge verso sempre più alti traguardi.
Se il rifiuto della concezione classica del destino ci stimola da un lato alla trasformazione indefinita dell'ambiente naturale e sociale, dall'altro esso ci rende perennemente insoddisfatti dei risultati acquisiti e ci fa sovrastimare le nostre capacità di controllo di tale processo di trasformazione e delle reazioni a catena che ne conseguono.
SCHEDA: Tolleranza ideologica e intolleranza politica nel mondo greco-romano.
Riportiamo alcuni passaggi del saggio La fede negli dei olimpici di Bruno Snell (da La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Einaudi 1963).
Quasi tutte le persecuzioni giudiziarie per ateismo delle quali ci giunta un'eco cadono nel breve periodo di tempo che va dall'inizio della guerra peloponnesiaca alla fine del sec. V (... )
A prescindere dal fatto che i veri motivi di questi processi rientravano più nel campo politico che in quello religioso - che, p.es., con la condanna del filosofo Anassagora si prendeva di mira l'uomo politico Pericle (...) - anche le dispute religiose non erano dispute sulla "fede". Questi processi per empietà non riguardavano gli "eterodossi", cioè i seguaci di un'altra religione o di un'altra fede, ma i filosofi. Costoro non venivano accusati perché negassero un determinato dogma, giacché la religione greca non conosceva dogma e noi, per esempio, non troviamo mai che si sia cercato d'indurre un filosofo greco a ripudiare la propria dottrina erronea; i filosofi venivano piuttosto accusati di asébeia: di empietà verso gli dei, come questa parola si può approssimativamente tradurre. (...)
Altra volta, nell'antichità più tarda, sentiamo parlare d'intolleranza religiosa, al tempo cioè delle persecuzioni contro i cristiani. Ma in questo caso non la fede ha importanza per i pagani; i cristiani vengono piuttosto perseguitati perché rifiutano di prendere parte al culto ufficiale, soprattutto a quello dell'imperatore, e quindi alle cerimonie dello Stato. Mai fu chiesto ai cristiani di rinnegare la loro fede, ma soltanto di partecipare alle prescritte cerimonie di culto.

4.3. Il mondo del mito e quello delle "religioni del libro". Il mito non va confuso con le cosiddette "religioni del libro" (essenzialmente ebraismo, cristianesimo e islamismo, e, per certi versi, zoroastrismo e alcune altre ancora). In tali religioni sono apparsi (seppure attraverso una lunga serie di redazioni) dei libri che sono considerati "parola di Dio". Benché i più antichi miti greci venissero creduti, in senso generico, ispirati dalla divinità, permangono grosse differenze tra le due concezioni:
a) benché i libri di Omero ed Esiodo, sui quali è fondata l'educazione e la cultura greca, siano considerati ispirati, è lecito agli altri poeti imitarne e modificarne i miti (nelle "religioni del libro" è vietato);
b) contrariamente a ciò che avviene di solito in tali religioni, non esiste qui alcuna autorità speciale (un clero, scuole dove si interpretino i libri sacri, ecc.) incaricata di conservare la dottrina e di determinare l'ortodossia, e non esiste neppure una nozione precisa di ortodossia;
c) diversamente dalle "religioni del libro", qui non esiste un patto tra Dio e il suo popolo (o i suoi fedeli o l'umanità intera), ma c'è solo un coacervo di divinità tradizionali, gli dei comuni delle genti di lingua greca, che sono però anche ciascuno di volta in volta il protettore speciale di una singola città (Atena di Atene, ecc.), in cui ricevono un culto pubblico;
d) al posto del concetto di giustizia e provvidenza divine, tipico delle religioni del libro, qui troviamo solitamente l'idea di Fato;
e) il destino dell'individuo e dell'anima è appunto segnato dal Fato tragico della morte;
f) la materia originaria (concepita miticamente come Caos, Madre Terra, ecc.) per la religione classica è antica quanto la divinità stessa, mentre nella teologia cristiana, ebraica o islamica essa sarà considerata frutto di una creazione dal nulla da parte di Dio.

§ 5. La religiosità dei "misteri" e i culti dionisiaci

Hanno avuto influenza sulla prima filosofia greca anche alcuni culti di carattere privato, anomali rispetto alla religione olimpica (che era il culto pubblico). Uno di essi è l'orfismo, secondo il quale l'anima di ciascuno di noi è un essere divino ed eterno; essa è caduta nel nostro mondo a causa di una colpa originaria che viene espiata con una serie di incarnazioni in uomini e animali. Le colpe e i meriti acquisiti in un'esistenza verranno retribuiti nelle incarnazioni successive, fino all'eventuale liberazione completa dalla carne e al ritorno nel mondo superiore. Questa concezione è dualista: il cosmo orfico, diversamente da quello olimpico, è diviso in due molto nettamente: mondo terreno dell’infelicità e della colpa, e mondo ultraterreno della salvezza (in cui vivono divinità provvidenziali - esenti dai difetti umani degli dei di Omero). Analogamente, l'uomo risulta dalla commistione di due realtà di natura diversa: l'anima e il corpo.
Importante è anche il culto di Dioniso, il dio dell'ebbrezza, dell'amore panico e dello slancio mistico: i suoi adepti si identificano misticamente con il tutto cosmico. Nell'esaltazione panica essi fanno a brani e divorano cruda una vittima, che rappresenta misticamente il dio. In tal modo essi intenderebbero cibarsi del dio stesso, per partecipare della sua divinità.

§ 6. La saggezza tradizionale dei "sette sapienti"

La filosofia, almeno con Socrate, si presenta come un sapere riflesso, critico, conscio dei suoi limiti, mentre il sapere dei "Sette Sapienti" è piuttosto di tipo tradizionale, basato sull'autorità e sul carisma di un uomo illuminato e sapiente (sophos), considerato al di sopra degli altri e depositario di antichissime verità. Tuttavia la distinzione sophos - philosophos divenne chiara solo più tardi, dato che Pitagora e Talete, due dei sette sapienti, sono considerati dalla tradizione anche filosofi.
Ecco alcune massime tipiche attribuite ai sette sapienti: "nulla di troppo"; "la misura è la cosa migliore"; "conosci te stesso".
Troviamo qui i presupposti morali tipici del mondo greco, che ricompariranno anche in moltissimi filosofi:
il senso dell'autocontrollo, il dominio delle passioni, la consapevolezza delle proprie possibilità e dei propri limiti, il senso della giustizia intesa come equilibrio tra le parti, come "dare a ciascuno il suo". Queste virtù cittadine, tipiche di una convivenza tra eguali, si sono venute a sovrapporre ai valori eroici del mondo guerriero di Omero, diventando un luogo comune per le generazioni successive.

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