Carlo Levi

Materie:Appunti
Categoria:Italiano

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Testo

Carlo Levi
Scrittore e pittore italiano. Nato a Torino nel 1902. Lo zio, I'onorevole Claudio Treves, è una figura di rilievo nel Partito socialista. Intorno al 1922 il giovane Carlo si lega d'amicizia a Piero Gobetti, che lo invita a collaborare alla sua rivista "La Rivoluzione Liberale" e nel 1923 scrive il primo articolo sulla sua pittura per "L’Ordine Nuovo". Gobetti lo introduce nella scuola di Casorati, intorno cui gravita la giovane avanguardia pittorica torinese. In questi anni Levi appare inserito nell'ambiente culturale di Torino: frequenta Cesare Pavese, Giacomo Noventa, Antonio Gramsci, Luigi Einaudi e più tardi Edoardo Persico, Lionello Venturi, Luigi Spazzapan. Nel 1923 soggiorna per la prima volta a Parigi e dal 1924, anno in cui si laurea in medicina, al 1927 vi mantiene uno studio. Intorno al 1927 la sua pittura subisce il primo di diversi cambiamenti stilistici, influenzata all'inizio dai fauves e dalla scuola di Parigi, poi, tra il 1929 e il 1930, da Modigliani.
Alla fine del 1928 forma con Gigi Chessa, Nicola Galante, Francesco Menzio, Enrico Paulucci e Jessie Boswell il gruppo dei "Sei di Torino", che con l’appoggio di Lionello Venturi ed Edoardo Persico, espone in una serie di mostre che si susseguono fino al 1931 ( Genova, Milano, Roma, Londra, Parigi). Nel 1930 porta a maturazione un drammatico stile espressionista, che caratterizzerà i ritratti e i paesaggi di questa decade. Nello stesso anno compie un viaggio attraverso la Gran Bretagna con Nello Rosselli. Nel 1931 si unisce al movimento antifascista di "Giustizia e libertà", fondato tre anni prima da Carlo Rosselli. Lo stesso anno espone a Parigi presso la Galerie-Librarie Jeune Europe di Antonio Aniante. Nel marzo 1934 è arrestato per sospetta attività antifascista. Alcuni artisti residenti a Parigi (Signac, Derain, Léger, Chagall ecc. ) firmano un appello per la sua liberazione. Tra il 1935 e il 1936 è inviato al confino politico in Basilicata, esperienza che gli ispirerà il romanzo "Cristo si è fermato a Eboli" (1945), la sua opera letteraria più famosa. Molti quadri dipinti al confino vengono esposti nelle personali alla Galleria del Milione (Milano 1936) e Galleria della Cometa (Roma 1937). Nel 1937 è a New York e dal 1939 al 1941 soggiorna a Parigi. Nel 1943 rientra in Italia e viene nuovamente arrestato. Dopo l'8 settembre, prende parte attiva alla resistenza come membro del Comitato di Liberazione della Toscana. E' direttore del quotidiano toscano "La Nazione del Popolo" e, nel 1945, a Roma de "L'Italia libera".
Nel 1947 si stabilisce a Roma e si schiera a favore della pittura realista, intesa però in senso strettamente esistenziale. Molti soggetti pittorici riflettono la sua partecipazione ai problemi socioeconomici del Mezzogiorno. A un caustico spirito polemico, alimentato dalla delusione per la crisi politica del dopoguerra, si ispira invece l'altro suo celebre libro, L'orologio (1950), in cui l'ironia si fa graffiante nei confronti della nostra classe politica. I libri successivi sono di viaggio e nascono da esperienze compiute nei luoghi visitati: Le parole sono pietre (1955) sulla Sicilia; Tutto il miele è finito (1964) sulla Sardegna. Negli anni Sessanta imprime una svolta stilistica alla sua pittura e amplia i valori espressivi in senso più poetico e universale, suscitando un rinnovato interesse da parte del pubblico e della critica, anche internazionale, che gli decreta il successo. Nel 1963 è eletto senatore, carica che gli viene riconfermata nel 1968. Muore a Roma nel 1975.
In viaggio con Carlo Levi
“Tutto il miele è finito”, pubblicato nel 1964, fu dapprima soltanto una serie di appunti intorno ad un viaggio che, nel 1952, Carlo Levi fece in Sardegna. Ritornato in seguito negli stessi luoghi, quegli appunti diventavano quello che l’autore stesso definì “né un saggio, né un’inchiesta, né un romanzo”, ma “il ritratto di una persona conosciuta nel tempo, il cui viso racconta e comprende, oggi, i diversi momenti della sua storia”. Il libro è dunque, il ritratto di una terra, dei suoi miti, dei suoi archetipi immutabili, ma nel contempo della sua storia, del suo mutare, del suo divenire nel tempo. Il miele che una volta c’era ed ora è finito, come indica il titolo, sta a significare che la Sardegna non è una terra senza tempo, immobile, ma una realtà nella quale si avverte, nel ritornare, il moto della storia. “Qui nell’isola dei sardi, ogni andare è un ritornare”, ma nel ritornare alle cose di un tempo si avverte, pur nella fissità delle sue immagini primitive e originarie, la trasformazione, la diversità, il cambiamento.
Le rocce, le greggi, i monti verdi e azzurri, la torre di pietra, gli asfodeli, la secolare staticità della vita pastorale sono l’immagine di una Sardegna ferma nel tempo. Ma essa non “è più soltanto questo selvatico spazio vuoto di storia”. Per il naturale svolgersi delle cose umane, qui come altrove, il tempo è passato; qui come altrove operano volontà, intelligenze, energie umane sempre nuove. Una civiltà di pastori si è trasformata in una civiltà contadina ed anche questa, nel suo lento dissolversi, ha lasciato il posto, seppure con contraddizioni talvolta drammatiche, ad una società industriale. “Pastori, contadini, operai, intellettuali, borghesi, clero, funzionari”, convivono e si contrappongono nel faticoso permanere e insieme nel mutare delle cose. I tempi in Sardegna sono compresenti e le epoche passate pulsano nell’oggi. Ma è questo nuovo oggi che testimonia la dialettica dell’inevitabile mutare di una terra viva.
Cristo si è fermato ad Eboli
(1944)
Nota
Questo è un testo basilare per capire la situazione non solo del Mezzogiorno ma di tutta l'Italia.
Una pagina troppo poco conosciuta e meditata di un racconto mirabile.
In queste righe sono condensati i problemi e sono delineate le soluzioni.
Di una preveggenza e saggezza straordinarie.
Già il treno ci riportava, oltre la capitale, verso il sud. Era notte, e non mi riusciva di dormire. Seduto sulla dura panca, andavo ripensando ai giorni passati, a quel senso di estraneità, e alla totale incomprensione dei politici per la vita di quei paesi verso cui mi affrettavo. Tutti mi avevano chiesto notizie del mezzogiorno; a tutti avevo raccontato quello che avevo visto: e, se tutti mi avevano ascoltato con interesse, ben pochi mi era parso volessero realmente capire quello che dicevo. Erano uomini di varie opinioni e temperamenti: dagli estremisti più accesi ai più rigidi conservatori. Molti erano uomini di vero ingegno e tutti dicevano di aver meditato sul « problema meridionale » e avevano pronte le loro formule e i loro schemi. Ma così come queste loro formule e schemi, e perfino il linguaggio e le parole usate per esprimerli sarebbero stati incomprensibili all'orecchio dei contadini, così la vita e i bisogni dei contadini erano per essi un mondo chiuso, che neppure si curavano di penetrare. Erano, in fondo, tutti (mi pareva ora di vederlo chiaramente) degli adoratori, più o meno inconsapevoli, dello Stato; degli idolatri che si ignoravano.
Non importava se il loro Stato fosse quello attuale, o quello che vagheggiavano nel futuro: nell'uno e nell'altro caso era lo Stato, inteso come qualcosa di trascendente alle persone e alla vita del popolo; tirannico o paternamente provvidente, dittatoriale o democratico, ma sempre unitario, centralizzato e lontano. Di qui la impossibilità, fra i politici e i miei contadini, di intendere e di essere intesi. Di qui il semplicismo, spesso ammantato di espressioni filosofeggianti, dei politici, e l'astrattezza delle loro soluzioni, non mai aderenti a una realtà viva, ma schematiche, parziali, e così presto invecchiate. Quindici anni di fascismo avevano fatto dimenticare a tutti il problema meridionale; e, se ora dovevano riproporselo, non sapevano vederlo che in funzione a qualcosa d'altro, alle generiche finzioni mediatrici del partito o della classe, o magari della razza.
Alcuni vedevano in esso un puro problema economico e tecnico, parlavano di opere pubbliche, di bonifiche, di necessaria industrializzazione, di colonizzazione interna, o si riferivano ai vecchi programmi socialisti «rifare l'Italia». Altri non vi vedevano che una triste eredità storica, una tradizione di borbonica servitù, che una democrazia liberale avrebbe un po' per volta eliminato. Altri sentenziavano non essere altro, il problema meridionale, che un caso particolare della oppressione capitalistica, che la dittatura del proletariato avrebbe senz'altro risolto. Altri ancora pensavano a una vera inferiorità di razza, e parlavano del sud come di un peso morto per l'Italia del nord, e studiavano le provvidenze per ovviare, dall'alto, a questo doloroso stato di fatto. Per tutti, lo Stato avrebbe potuto fare qualcosa, qualcosa di molto utile, benefico, e provvidenziale: e mi avevano guardato con stupore quando io avevo detto che lo Stato, come essi lo intendevano, era invece l'ostacolo fondamentale a che si facesse qualunque cosa.
Non può essere lo Stato, avevo detto, a risolvere la questione meridionale, per la ragione che quello che noi chiamiamo problema meridionale non è altro che il problema dello Stato. Fra lo statalismo fascista, lo statalismo liberale, lo statalismo socialistico, e tutte quelle altre future forme di statalismo che in un paese piccolo-borghese come il nostro cercheranno di sorgere, e l'antistatalismo dei contadini, c'è, e ci sarà sempre, un abisso; e si potrà cercare di colmarlo soltanto quando riusciremo a creare una forma di Stato di cui anche i contadini si sentano parte. Le opere pubbliche, le bonifiche, sono ottime cose, ma non risolvono il problema. La colonizzazione interna potrà avere dei discreti frutti materiali, ma tutta l'Italia, non solo il mezzogiorno, diventerebbe una colonia. I piani centralizzati possono portare grandi risultati pratici, ma sotto qualunque segno resterebbero due Italie ostili. Il problema di cui parliamo è molto più complesso di quanto pensiate. Ha tre diversi aspetti, che sono le tre facce di una sola realtà, e che non possono essere intese né risolte separatamente.
Siamo anzitutto di fronte al coesistere di due civiltà diversissime; nessuna delle quali è in grado di assimilare l’altra. Campagna e città, civiltà precristiana e civiltà non più cristiana, stanno di fronte; e finché la seconda continuerà ad imporre alla prima la sua teocrazia statale, il dissidio continuerà. La guerra attuale, e quelle che verranno, sono in gran parte il risultato di questo dissidio secolare, giunto ora alla sua più intensa acutezza, e non soltanto in Italia. La civiltà contadina sarà sempre vinta, ma non si lascerà mai schiacciare del tutto, si conserverà sotto i veli della pazienza, per esplodere di tratto in tratto; e la crisi mortale si perpetuerà. Il brigantaggio, guerra contadina, ne è la prova: e quello del secolo scorso non sarà l'ultimo. Finché Roma governerà Matera, Matera sarà anarchica e disperata, e Roma disperata e tirannica.
Il secondo aspetto del problema è quello economico: è il problema della miseria. Quelle terre si sono andate progressivamente impoverendo; le foreste sono state tagliate, i fiumi si sono fatti torrenti, gli animali si sono diradati, invece degli alberi, dei prati e dei boschi, ci si è ostinati a coltivare il grano in terre inadatte. Non ci sono capitali, non c’è industria, non c’è risparmio, non ci sono scuole, l'emigrazione è diventata impossibile, le tasse sono insopportabili e sproporzionate: e dappertutto regna la malaria. Tutto ciò è in buona parte il risultato delle buone intenzioni e degli sforzi dello Stato, di uno Stato che non sarà mai quello dei contadini, e che per essi ha creato soltanto miseria e deserto.
Infine c'è il lato sociale del problema. Si usa dire che il grande nemico è il latifondo, il grande proprietario; e certamente, là dove il latifondo esiste, esso è tutt'altro che una istituzione benefica. Ma se il grande proprietario, che sta a Napoli, a Roma, o a Palermo, è un nemico dei contadini, non è tuttavia il maggiore né il più gravoso. Egli almeno è lontano, e non pesa quotidianamente sulla vita di tutti. Il vero nemico, quello che impedisce ogni libertà e ogni possibilità di esistenza civile è la piccola borghesia dei paesi. È una classe degenerata, fisicamente e moralmente: incapace di adempiere la sua funzione, e che solo vive di piccole rapine e della tradizione imbastardita di un diritto feudale. Finché questa classe non sarà soppressa e sostituita non si potrà pensare di risolvere il problema meridionale.
Questo problema, nel suo triplice aspetto, preesisteva al fascismo; ma il fascismo, pure non parlandone più, e negandolo, l'ha portato alla sua massima acutezza, perché con lui lo statalismo piccolo-borghese è arrivato alla più completa affermazione. Noi non possiamo oggi prevedere quali forme politiche si preparino per il futuro: ma in un paese di piccola borghesia come l'Italia, e nel quale le ideologie piccolo-borghesi sono andate contagiando anche le classi popolari cittadine, purtroppo è probabile che le nuove istituzioni che seguiranno al fascismo, per evoluzione lenta o per opera di violenza, e anche le più estreme e apparentemente rivoluzionarie fra esse, saranno riportate a riaffermare, in modi diversi, quelle ideologie; ricreeranno uno Stato altrettanto, e forse più lontano dalla vita, idolatrico e astratto, perpetueranno e peggioreranno, sotto nuovi nomi e nuove bandiere, l'eterno fascismo italiano, Senza una rivoluzione contadina, non avremo mai una vera rivoluzione italiana, e viceversa. Le due cose si identificano. Il problema meridionale non si risolve dentro lo Stato attuale, né dentro quelli che, senza contraddirlo radicalmente, lo seguiranno. Si risolverà soltanto fuori di essi, se sapremo creare una nuova idea politica e una nuova forma di Stato, che sia anche lo Stato dei contadini; che li liberi dalla loro forzata anarchia e dalla loro necessaria indifferenza. Né si può risolvere con le sole forze del mezzogiorno: ché in questo caso avremmo una guerra civile, un nuovo atroce brigantaggio, che finirebbe, al solito, con la sconfitta contadina, e il disastro generale; ma soltanto con l'opera di tutta l'Italia, e il suo radicale rinnovamento.
Bisogna che noi ci rendiamo capaci di pensare e di creare un nuovo Stato, che non può più essere né quello fascista, né quello liberale, né quello comunista, forme tutte diverse e sostanzialmente identiche della stessa religione statale. Dobbiamo ripensare ai fondamenti stessi dell’idea di Stato: al concetto di individuo che ne è alla base; e, al tradizionale concetto giuridico e astratto di individuo, dobbiamo sostituire un nuovo concetto, che esprima la realtà vivente, che abolisca la invalicabile trascendenza di individuo e di Stato. L'individuo non è una entità chiusa, ma un rapporto, il luogo di tutti i rapporti. Questo concetto di relazione, fuori della quale l'individuo non esiste, è lo stesso che definisce lo Stato. Individuo e Stato coincidono nella loro essenza, e devono arrivare a coincidere nella pratica quotidiana, per esistere entrambi. Questo capovolgimento della politica, che va inconsapevolmente maturando, è implicito nella civiltà contadina, ed è l'unica strada che ci permetterà di uscire dal giro vizioso di fascismo e antifascismo. Questa strada si chiama autonomia. Lo Stato non può essere che l'insieme di infinite autonomie, una organica federazione. Per i contadini, la cellula dello Stato, quella sola per cui essi potranno partecipare alla molteplice vita collettiva, non può essere che il comune rurale autonomo. È questa la sola forma statale che possa avviare a soluzione contemporanea i tre aspetti interdipendenti del problema meridionale; che possa permettere la coesistenza di due diverse civiltà, senza che l'una opprima l'altra, né l'altra gravi sull’una; che consenta, nei limiti del possibile, le condizioni migliori per liberarsi dalla miseria; e che infine, attraverso l’abolizione di ogni potere e funzione sia dei grandi proprietari che della piccola borghesia locale, consenta al popolo contadino di vivere, per sé e per tutti. Ma l'autonomia del comune rurale non potrà esistere senza l'autonomia delle fabbriche, delle scuole, delle città; di tutte le forme della vita sociale. Questo è quello che ho appreso in un anno di vita sotterranea.
Così avevo detto ai miei amici, e andavo ora rimeditando mentre il treno, nella notte, entrava nelle terre di Lucania. Erano i primi accenni di quelle idee che dovevo poi sviluppare negli anni seguenti, attraverso le esperienze dell'esilio e della guerra. E in questi pensieri mi addormentai.
Carlo Levi nasce a Torino il 29 novembre 1902, abbandonata la professione di medico e si dedica con successo alla pittura e alla letteratura. Per avere svolto attività antifascista nelle file di Giustizia e Libertà, nel 1935 è confinato in Lucania, prima a Grassano, poi a Gagliano, dove rimane per un anno.
Levi, sia come pittore sia come scrittore, narra i suoi casi e l'incontro con questa «gente mite, rassegnata e passiva, impenetrabile alle ragioni della politica e alle teorie dei partiti», usando la prima persona. Lo fa con il distacco scientifico di un competente etnologo che descriva esaurientemente gli usi e costumi di una popolazione ignota e le necessarie partecipazioni e simpatia emotive del narratore e dell'uomo di cultura.
La Lucania raccontata da Levi è abitata da signori, la cui vita quotidiana è un «polveroso nodo senza mistero, d’interessi, di passioni miserabili, di noia, d’avida impotenza e di miseria», e da contadini pazienti, caratterizzati da un disperato fatalismo, che vivono in miseri tuguri dalle condizioni igieniche precarie, assediati dalla malaria, costretti a lavorare una terra sterile e siccitosa. E’ come vivere di paganesimo mitologizzante e di superstiziosa religiosità, ha una sfiducia atavica, un'estraneità totale verso lo Stato, che trova la sua origine nelle varie dominazioni che si sono succedute, da Enea in poi, su questi territori «per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte».
«Il fascismo non è che l'ultimo volto dell'oppressione, violento, inerte e irrazionale, che nega, ai contadini, un'efficace lotta contro la malaria, un'assistenza sanitaria decente, la prospettiva di un futuro migliore» e a lui medico che potrebbe aiutarli in qualche modo viene impedito di esercitare la professione, malgrado la fiducia della gente. Ma anche per i signori, per i più colti, lo Stato è un'entità astratta, la lotta politica e ideologica è soltanto uno strumento per alimentare la loro brama di potere. Più importanti sono gli odi, le inimicizie, i rancori contingenti.
Lo scrittore torinese racconta tutto ciò in un libro che è per metà diario e per metà romanzo, facendo ricorso ad una prosa nitida, emotivamente partecipata, con numerose e interessanti digressioni storiche, sociologiche, antropologiche Indimenticabili le notazioni sulla civiltà contadina, il brigantaggio, i riti magici delle plebi meridionali. Notevole è l'abilità, che gli deriva probabilmente dal suo mestiere principale, quello di pittore, con cui sa tratteggiare personaggi, animali, cose, con pochi sapienti, eleganti e precisi tocchi.
Efficace la rappresentazione della natura, del paesaggio lucano, brullo, selvaggio e inospitale eppure suggestivo e solare, esplorato durante le passeggiate con il fido cane Barone.
Si avverte che il Meridione raffigurato da Carlo Levi probabilmente non esiste più nei termini descritti, ma nello stesso tempo un nucleo consistente agisce ancora, in profondità, sotto la sottile scorza della modernità e dell'industrializzazione, oltre il rumore del traffico e il proliferare dei consumi. Nel 1922 il giovane Levi si lega d'amicizia a Piero Gobetti, che lo invita a collaborare alla sua rivista «La Rivoluzione Liberale» e nel 1923 scrive il primo articolo sulla sua pittura per «L’Ordine Nuovo». Gobetti lo introduce nella scuola di Casorati, in cui gravita la giovane avanguardia torinese. Nascono le opere Autoritratto, Arcadia, Il fratello e la sorella, che risentono della lezione stilistica del maestro, ma che dimostrano anche l'apertura di Levi agli artisti della «nuova oggettività» quali Kanoldt, Schad, Beckmann. In questi anni appare inserito nell'ambiente culturale di Torino: frequenta Cesare Pavese, Giacomo Noventa, Antonio Gramsci, Luigi Einaudi e più tardi Edoardo Persico, Lionello Venturi, Luigi Spazzapan. Nel 1923 soggiorna per la prima volta a Parigi e dal 1924, anno in cui si laurea in medicina, al 1927 vi mantiene uno studio. Intorno al 1927 la sua pittura subisce il primo di diversi cambiamenti stilistici, influenzata all'inizio dai fauves e dalla scuola di Parigi, poi, tra il 1929 e il 1930, da Modigliani.
Abbiamo accennato che il libro «Cristo si è fermato a Eboli» è scaturito dall’esperienza di quell’anno di confino a Grassano.
Nel 1945, appena uscita, l'opera ha subito un immenso successo ed è considerata un testo esemplare del neorealismo: bilanciata tra arte e documento, tra prosa di memoria e reportage politico-sociale, è caratterizzata da una coralità da epos primitivo e da un vivo senso del colore. Dopo il saggio Paura della libertà del 1946, appare nel 1950 L'orologio, in cui l'estetismo di Levi, implicito nell'opera precedente, si manifesta pienamente, insieme con la componente anarchica della sua ispirazione. Dopo le due maggiori opere letterarie, ha scritto una serie di reportages, in cui ha riferito le impressioni dei suoi viaggi in Sicilia Le parole sono pietre, in Russia Il futuro ha un cuore antico, in Germania La doppia notte dei tigli, in Sardegna Tutto il miele è finito. Nel 1976, sono apparse postume sia la raccolta di articoli e saggi Coraggio dei miti sia l'opera Contadini e Luigini con testi e disegni di Levi sulla lotta di classe in Lucania. Levi è stato senatore per la Quarta e la Quinta legislatura, come indipendente nella lista del P.C.I.
L’OPERA
CRISTO SI E’ FERMATO A EBOLI
Scritto tra il Natale del 1943 ed il luglio del 1944, «Cristo si è fermato ad Eboli» prende spunto, come abbiamo accennato, da una vicenda autobiografica dell’autore, confinato in Lucania per le sue coraggiose idee antifasciste.
Il libro dunque è il risultato di quell’esperienza di vita che ha cambiato radicalmente il modo di vedere e sentire le cose, soprattutto alla luce del difficile momento storico che l’Italia si vede costretta a vivere. I valori umani con cui l’Autore è entrato in contatto nei paesi di Grassano e Gagliano (in realtà il paese si chiama Aliano), situati nel cuore del Sud, in provincia di Potenza, «gli aprono gli occhi su un mondo tanto diverso dal suo quanto più vero e più legato all’essenza stessa della vita».
Questa zona, storicamente, è sempre rimasta un po’ isolata dal resto del Sud (ancora oggi): i suoi paesaggi impervi costituiscono un deterrente per le popolazioni che nel corso dei secoli si sono avvicendate nella provincia di Matera, in Puglia ed in Campania. Anche il percorso ferroviario, costeggiando il bel mare fino ad Eboli si fa più disagevole.
Levi comprende da vicino la miseria materiale in cui i contadini lucani degli anni Trenta sono costretti a vivere, abbandonati da uno Stato in cui non possono riconoscersi, da uno Stato che impone, pretende e vessa, senza intervenire neanche per risolvere i problemi primari e che, con l’avvento del fascismo, ha finito per isolarli ancora di più. Ma i giorni trascorsi a Gagliano, sempre uguali a se stessi, lo rendono partecipe di un mondo nuovo che trae la sua linfa vitale dalla grande forza interiore dei contadini, dalla loro rassegnazione, dalla loro pazienza, dalla grande saggezza che guida gli atti di ognuno di loro. Levi rimane stupito dagli insegnamenti che questa gente, con il suo grande senso dell’ospitalità e con il suo attaccamento a valori concreti, giorno dopo giorno gli impartisce. Si commuove dinanzi all’affetto che i suoi nuovi amici dimostrano per lui, dinanzi alla loro dignità anche nella povertà, dinanzi all’entusiasmo dei bambini desiderosi di apprendere.
Anch’egli si adopera molto per il bene dei gaglianesi, seppure nei limiti che la sua condizione di confinato gli permetta, rispolverando anche i suoi studi in medicina, ma molto di più fanno per lui i gaglianesi stessi, curando il suo animo, amareggiato dalla situazione politica e sociale italiana.
NOTA STORICO LETTERARIA
All’indomani del conflitto mondiale e della caduta del fascismo, la letteratura si inserisce spontaneamente nel più vasto movimento della ricostruzione del Paese, che pone tra i suoi capisaldi l’impegno dell’intellettuale. Possono essere considerate testimoni sensibili di tali atteggiamenti le riviste, comparse sulla scena culturale nell’immediato dopoguerra e nel decennio successivo: Società del 1945, fondata da Ranuccio Bianchi Bandinelli, Romano Bilenchi e Cesare Luporini; La Fiera letteraria, rinata nel 1946 per merito di Enrico Falqui e Giovanni Battista Angioletti; Il Mondo di Mario Pannunzio; Nuovi Argomenti, diretta dal 1953 da Alberto Moravia e Alberto Carocci e poi, fino alle più recenti riprese, da Enzo Siciliano; Il caffè, fondato nel 1953 da Giambattista Vicari; Il Contemporaneo, attivo tra il 1954 e il 1958, con Romano Bilenchi, Carlo Salinari e Antonello Trombadori, politico, scrittore e poeta in romanesco; Il menabò, fondato da Vittorini e Calvino, attivo dal 1959 fino al 1967 e incentrato sul rapporto tra industria e letteratura; Officina, del 1955-1959, di Pier Paolo Pasolini, Roberto Roversi e Francesco Leonetti e Il Verri fondato da Luciano Anceschi.
Intanto gli scrittori scontano la crisi del Neorealismo, si dividono sulle grandi questioni mondiali: il pacifismo, la guerra fredda, l’angoscia nucleare, la crisi del socialismo reale in Ungheria e, più in generale, dello stalinismo in Unione Sovietica e nel movimento comunista internazionale. Significativi sono, da tale angolo visuale, i casi letterari, in sintonia con quello più clamoroso, proprio perché nato nel mondo editoriale italiano nel 1957, del Dottor Živago dello scrittore russo Boris Pasternak: quello di Riccardo Bacchelli e del suo fluente e poderoso romanzo Il mulino del Po, scritto alla fine degli anni Quaranta e, soprattutto, Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, opera di demistificazione dell’epopea risorgimentale e di certa retorica post-unitaria, ma sensibile alle problematiche politico-culturali contemporanee e stilisticamente rivolta alla grande tradizione europea, da Balzac e Stendhal alla letteratura inglese ottonovecentesca.
CRITICA
«Cristo si è fermato a Eboli» scritto in pochi mesi dal dicembre 1943 al luglio 1944, in piena guerra, tratta del periodo che lo scrittore, torinese, ha trascorso a Agliano in Basilicata, dove lo scrittore è stato spedito in soggiorno obbligato per la sua attività antifascista dal 1935 al 1936, ma resta lontano dai fatti e dall’atmosfera del conflitto; ma mette in risalto, invece,i suoi interessi umani e sociali, i suoi ideali di una società ispirata alla fraternità, alla solidarietà umana: sentimenti e ideali che emergono dalla miriade di personaggi che popolano il periodo del confino e dalla descrizione di paesaggi e ambienti poverissimi e lontanissimi dai livelli di vita del resto del Paese. Da qui, appunto, il titolo, come dire che la civiltà non è arrivata al Sud ma si fermata a Eboli appunto, dove inizia la piana del Sele.
Memorabile la descrizione dei «sassi» di Matera, le abitazione scavate nel tufo, dove le famiglie vivono nella miseria più totale, e dove i bambini circondano il visitatore gridando «dammi u chinì, dammi il chinino!» per combattere la febbre.
Si legge con facilità ed avvince il lettore con la sua poesia. È illuminante per comprendere le ragioni e le radici storiche di quella mentalità e di quello spirito, che paiono rinnegare ogni senso civico, che per molti anni ha caratterizzato le regioni del Sud. Come per Carlo Levi, anche per il lettore sarà piacevole «riandare con la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà, su un suolo arido, nella presenza della morte».
I luoghi hanno un’importanza particolare ed a volte svolgono quasi la funzione di delineare la psicologia dei personaggi, tanto sono caratterizzati e importanti. Come si può vedere a pagina 37 la descrizione della chiesetta
«… che era uno stanzone imbiancato a calce sporco e trasandato, con in fondo un altare disadorno su un palco di legno e un piccolo pulpito. Da qui si potevano notare i muri pieni di crepe che erano coperte da tele del ‘600».
Levi si serve della sua professione di pittore per cogliere con straordinaria abilità tutte le caratteristiche del paesaggio. A tal proposito propongo di rileggere la descrizione di una casa del paese (pagina 38).
«Quasi tutte le case erano costituite da una sola stanza, senza finestre, che prendeva la luce dalla porta. Le porte erano sbarrate poiché i contadini erano nei campi: a qualche soglia, stavano sedute delle donne con i bambini in grembo».
Tra le tante descrizioni di luoghi e oggetti, Carlo Levi, per mettere in risalto la stupidità della borghesia del luogo e lo spreco di soldi, cita la costruzione di un «orinatoio» pubblico, inutile ai contadini di Gagliano (vedi pagina 40):
«In mezzo la piazza si ergeva uno strano monumento, alto quasi quanto le case, e, nell’angustia del luogo, solenne ed enorme. Era un pisciatoio: il più moderno, sontuoso, monumentale pisciatoio che si potesse immaginare;[…] Sulla sua parete spiccava come un’epigrafe un nome familiare al cuore dei cittadini: «Ditta Renzi – Torino»».
Lo scrittore stando a Gagliano non si sofferma solo descrivere cose e monumenti, ma descrive anche le località geografiche e i luoghi della Lucania (pagina 96):
«A sinistra del Timbone, (un monticciuolo di terra, tutto in cavi e sporgenze) per un tratto lunghissimo, fino a laggiù in fondo, verso l’Agri, dove il terreno si spianava in un luogo detto il Pantano era un seguirsi digradante di ponticelli, di buche, di coni di erosione rigati dall’acqua, di grotte naturali, di piagge, fossi e collinette d’argilla uniformemente bianca,…».
Il libro è pubblicato da Giulio Einaudi nel 1945 dopo la liberazione, in un’edizione dalla carta grigiastra. Da subito incontra il favore della critica e del pubblico, in Italia e all’estero, tanto da diventare un classico della letteratura italiana, grazie alla capacità di raccontare quel mondo chiuso, con la consapevolezza che sarebbe rimasto uguale a se stesso.
Afferma Rocco Scotellaro: «Cristo si è fermato a Eboli è il più appassionante e crudele memoriale dei nostri paesi», mentre Asor Rosa in Scrittori e popolo scrive «Levi giudica la realtà secondo gli schemi semi-mitici dell’Uomo e della Storia. Ma l’Uomo a cui guarda, e la Storia, secondo cui giudica, non restano opinioni generali, volontaristiche affermazione di verità. Egli non esce dal campo del Mito, anzi per lui la realtà descritta tende sempre a diventare anch’essa mito ma come accade talvolta, il Mito s'incarna in lui in una figura concreta».
«L’atteggiamento di Levi è quello di colui che per passione di vivere si trova bene in qualsiasi luogo, e cerca di tenere tutto insieme. Quel suo parlare di un paese ignoto, di linguaggi ignoti, problemi antichi non risolti, presente nell’individuo come luogo di tutti i rapporti e di un mondo immobile di chiuse possibilità. Ci si accorge, quando si prende il treno per Eboli, osservando la stazione martoriata, per incuria, inciviltà, percorrendo questo paese ancora lontano dal Tempo e dalla Storia, andando per i paesi da lui descritti, come Senise, che «quel» mondo è ancora lì: tutto racchiuso in un dolore che non può essere lenito».
IL LUOGO: LA CASA DI LEVI
I luoghi che oggi fanno parte del Parco Letterario Carlo Levi sono quelli che hanno ispirato lo scrittore: ciò che si legge e s’immagina corrisponde a posti tuttora esistenti. Immergendosi negli ambienti descritti, si ha come l'impressione che nulla sia cambiato. Tutti i luoghi proposti nel progetto sono citati in Cristo si è fermato a Eboli e il turista-viaggiatore nel Parco si trova talmente immerso nelle pagine del libro da sentirsene parte integrante.
E' proprio ciò che succede uscendo dalla casa di Carlo Levi per inoltrarsi nei vicoli e nelle piazzette del centro storico, scoprendo gli elementi che caratterizzano l'architettura popolare lucana. «Le case hanno una loro espressione curiosa e interrogativa che rivela un messaggio esoterico: una teoria di sguardi attenti, segue chi cammina in ogni angolo: sono le case con gli occhi».Il confinato Carlo Levi è autorizzato a passeggiare in una piccola porzione di paese, nel tratto che va dalla sua abitazione al cimitero, e lì incontra la gente del luogo, ne conquista la stima e la fiducia, cura i bambini malati, continua a dipingere e ad annotare sul taccuino i suoi pensieri.
Dal restauro della casa di Carlo Levi ad Aliano, che è mantenuta spoglia com'era, si parte per organizzare le attività del Parco Letterario. Spettacoli teatrali all'aperto, l'ex municipio recuperato per una mostra permanente, riallestito il set cinematografico del film Cristo di è fermato a Eboli di Francesco Rosi con Gian Maria Volonté.
E’ stato recuperato e riqualificato il Museo della Civiltà contadina, organizzati Centri culturali permanenti, una Mostra e un Premio di pittura e un Corso e un Premio di scrittura. I percorsi letterari proposti sono molti e diversificati: si inizia da Aliano, ricco di testimonianze della presenza di Levi, per muoversi verso la campagna: i calanchi gli insediamenti della Magna Grecia, il fiume Sauro e agli altri paesi limitrofi. In questi itinerari si potranno vivere incontri con la magia: le case «con gli occhi», gli incantatori di lupi, i monachicchi, gli intrugli magici; con l'artigianato: le casse armoniche, gli orci di pelle di capra, i bocchini di osso per sigari; con la gastronomia: la cucina nei caminetti, le grotte dei vini.
Queste novità, però, non hanno tolto nulla al fascino di una città antichissima; un luogo abitato da sempre, dove è facile ripercorrere la storia dell'Uomo dal paleolitico fino ad oggi, dai villaggi neolitici al vasto tessuto urbano della Civita e dei Sassi.
La Gravina, la Murgia e le oltre centoventi chiese rupestri con affreschi bizantini fanno di questo posto un habitat unico ed irripetibile, dove l'Uomo ha saputo utilizzare le scarse risorse del territorio senza distruggerlo, ma integrandosi con esso.
Alcuni grandi Maestri del cinema hanno ambientato i loro films in questo suggestivo ambiente, che per le sue peculiarità è stato dichiarato dall'UNESCO «paesaggio culturale».
La Fondazione che porta il suo nome custodisce tutta la copiosa raccolta di opere pittoriche dallo stile e dal tratto inconfondibile che l'artista ha voluto donare alla città di Matera. Sono esposte nel Palazzo Lanfranchi, insieme al grande murale «Italia 61», suggestivo ed inquietante, che riassume e trasmette al visitatore molte emozioni e lo mette in contatto con una realtà lontana e metafisica. Ha vissuto intensamente i momenti culturali della città, quando le difficili condizioni di vita degli ultimi abitanti dei Sassi sono state da lui denunciate al mondo come «vergogna nazionale» e quando la città stessa ha saputo ricercare una nuova dimensione umana e sociale, durante e dopo il trauma dello svuotamento degli antichi rioni, con la scelta consapevole di affondare le radici del suo futuro nei valori secolari della sua antica civiltà.
Carlo Levi nacque a Torino il 29 novembre 1902, vi trascorse l'adolescenza e la giovinezza. Intimo amico di Pietro Gobetti e dei giovani che attorno a "Rivoluzione Liberale" andavano scoprendo insieme se stessi ed i problemi fondamentali di libertà della vita italiana.
Si laureò in medicina a soli ventidue anni nello stesso anno in cui espose per la prima volta le sue opere pittoriche di tendenza espressionistica, alla Biennale di Venezia e partecipò ai primi gruppi di resistenza contro il fascismo.
Fu uno del gruppo dei sei pittori di Torino che, contro la retorica servile dell'arte ufficiale, la falsa modernità del futurismo e il conformismo del novecento, attribuirono alla pittura il valore di espressione della libertà.
Diede vita alle prime organizzazioni clandestine e fu il fondatore di "Giustizia e libertà". Nel maggio del 1935, alla vigilia della guerra contro l'Etiopia, vennero operati numerosi arresti nelle fila di "Giustizia e libertà", tra i torinesi, in particolare Vittorio Foa, Michele Giua e Massimo Mila.
Come fiancheggiatori vennero fermati lo stesso Carlo Levi, Franco Antonicelli e Cesare Pavese.
Il 15 luglio la Commissione provinciale per il confino di Roma, ricevuto il rapporto della Questura, decideva di assegnare Carlo Levi al confino di polizia per tre anni "Siccome pericoloso per l'ordine nazionale per aver svolto…attività politica tale da recare nocumento agli interessi nazionali".
Otto giorni dopo, ancora a Roma, Carlo Levi indirizzò una lunga ed appassionata difesa alla Commissione d'appello protestando la propria estraneità ai fatti che gli venivano contestati e ribadendo l'intenzione di dedicarsi esclusivamente alla sua attività di pittore.
La Commissione d'appello respingeva in via definitiva la sua domanda. Il 15 luglio la Regia Prefettura di Roma ne ordinò l'assegnazione al confino che avrebbe dovuto scontare a GRASSANO in Basilicata.
Non essendo considerata Grassano sufficientemente sicura per la vicinanza dello scalo ferroviario su proposta del Prefetto di Matera l'artista fu trasferito ad ALIANO, un piccolo paese quasi inaccessibile a quel tempo, a causa della mancanza di vie di comunicazione.
Il confino ad Aliano pose così Levi in contatto con la realtà meridionale a lui del tutto sconosciuta e dalla quale rimase profondamente colpito.
L'esperienza fatta in quel breve periodo determinò una svolta nella sua vita come lo stesso Carlo Levi scrisse nella lettera posta a prefazione della seconda edizione del suo romanzo più celebre: "CRISTO SI E' FERMATO AD EBOLI" Il libro ha avuto un successo straordinario, è stato tradotto in moltissime lingue dalla Cina alla Francia, dagli Stati Uniti all'Unione Sovietica, dall'Islanda alla Grecia, all'Inghilterra, dal Giappone all'America Latina, e ha ricoperto un ruolo di primo piano nella storia della Basilicata perché alla sua uscita, nel 1945, suscitò l'interesse di intellettuali, artisti, politici tanto che tutta l'opinione pubblica fu sensibilizzata di fronte ai gravi problemi socio-economici della regione.
Nel 1939 espatriò in Francia, nel 1941 ritornò in Italia e nel 1943 fu di nuovo arrestato. Gli anni cinquanta si segnalano per l'intensa e proficua attività letteraria che portò alla pubblicazione di opere significative come "L'orologio", "Le parole sono pietre", "Il futuro ha un cuore antico", "La doppia notte dei tigli".
Nel 1963 lo scrittore fu eletto senatore della Repubblica e proseguì la sua straordinaria attività di pittore testimoniata da numerosi lavori e mostre in Italia e all'estero.
Morì a Roma il 4 gennaio del 1975; è sepolto ad Aliano, il paese che fu portato all'attenzione mondiale dal suo libro più famoso ed autentico. Il libro che, in questo programma è l'ispiratore fondamentale del progetto, fu scritto a Firenze dal Natale del 1943 alla fine di luglio del 1944 nel momento più drammatico della guerra quando la chiusura clandestina e la presenza della morte, riportarono l'autore a rivivere ancora una volta quei valori umani fondamentali che egli aveva trovato negli anni del suo confino ad ALIANO.
Un duello in Sicilia
E Nelson sfidò Carlo Levi
di Giovanni Russo
Nunzio Galati, parroco a Maniace, in un baule dove erano conservate cartelle dell'archivio della Ducea, ha scoperto un tentativo del Duca di Bronte di evitare la pubblicazione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti della traduzione in inglese del libro di Carlo Levi "Le parole sono pietre" che a suo parere conteneva affermazioni diffamatorie sulla Ducea.
Orazio Nelson, il vincitore della battaglia di Trafalgar che portò alla sconfitta di Napoleone, aveva ricevuto in dono da Ferdinando di Borbone nel 1799 il titolo di duca e le terre e il castello di Maniace a Bronte, in Sicilia, per l'aiuto dato contro i rivoluzionari napoletani.
Nel libro Maniace, l'ex ducea di Nelson (Giuseppe Maimone Editore, 1988, pp. 232, Euro 36,15), sono illustrate le condizioni attuali e la storia di questo paese, ricostruita da Nunzio Galati che dal 1967 è il parroco del comune e che è nativo del luogo.
Le terre di Maniace hanno avuto da quell'epoca varie vicende, fino alle lotte per la riforma agraria nel dopoguerra che hanno visto l'abbattimento dei rapporti feudali e l'assegnazione delle terre ai contadini.
Galati è diventato anche il curatore del castello e, in occasione del riordino degli arredi, ha scoperto in un vecchio baule, dove erano conservate cartelle dell'archivio della ducea, una corrispondenza che riguarda la pubblicazione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti della traduzione in inglese del libro di Carlo Levi sulla Sicilia, Le parole sono pietre.
Dalla corrispondenza emerge che l'erede di Nelson aveva fatto di tutto per evitare che il libro fosse pubblicato in inglese.
Raccontando la sua visita al castello di Maniace, Carlo Levi nel libro scriveva che i contadini hanno continuato a vivere negli stessi pagliari dell'epoca in cui il feudo fu donato all'ammiraglio Nelson e che il suo erede, lord Bridport, li costringeva a indebitarsi, ricorrendo a usurai, per evitare di essere espropriati.
«Siamo cani rinnegati come al tempo dei saraceni» dice un contadino a Levi, che prende spunto da questa frase per ricordare la repressione sanguinosa Accettai l'invito con grande piacere ma, ahimè, circostanze varie e indipendenti dalla mia volontà mi hanno finora impedito di tornare tra i pagliari della ducea».
II duca, sostenendo di non avere avuto nessuna conferma o replica al suo invito, prima dell'uscita nel 1957 della traduzione del libro in Inghilterra da parte di un editore, si rivolse al suo avvocato di Londra.
Il duca affermava che era molto offensivo e privo di fondamento quanto Levi scriveva, perché gli si attribuiva la responsabilità della disoccupazione a Bronte e lo si dipingeva come un pessimo proprietario e agricoltore, e insinuava addirittura che Levi avesse ricevuto del denaro dai comunisti perché, scrive, «L’Ente di riforma, che e collegato al Partito comunista, mira soltanto a far mandar via dalle mie terre i vecchi coloni per affidare la terra ai contadini comunisti».
L'avvocato inglese Fladgate risponde al duca che, pur essendo d'accordo che il testo è molto diffamatorio, non conviene svolgere un'azione legale e propone di scrivere soltanto delle lettere di protesta.
Probabilmente il duca finì per accogliere questo parere e si arrivò a un accordo amichevole.
Il libro Maniace,l'ex ducea di Nelson, ricco di splendide foto di Giuseppe Leone, che documentano le lotte per la riforma agraria, edito da Giuseppe Maimone e curato da Nino Recupero, testimonia la trasformazione di un antico feudo in una comunità che ha saputo mantenere il rapporto con la tradizione protendendosi nei tempi nuovi: nello stemma del neonato comune di Bronte, il castello del duca si rovescia da simbolo di oppressione nel segno di una ritrovata identità fatta da Nino Bixio nel 1860, quando Garibaldi, per far piacere agli inglesi, lo inviò sul luogo.
Bixio, come racconta Verga, non ebbe pietà nel reprimere la rivolta fucilandone i capi.
Nel gennaio del 1953 il duca di Bronte, visconte di Bridport, si era rivolto all'ambasciata britannica per chiedere il parere su un'azione legale contro Levi in seguito a un articolo che questi aveva scritto ne L'illustrazione italiana, intitolato «Attorno all'Etna», che, a suo parere, conteneva varie affermazioni diffamatorie su di lui e sulla sua proprietà.
Nel libro Levi fa così riferimento a questo episodio: «Dopo che il mio scritto era stato pubblicato, ricevetti una gentilissima lettera personale del duca di Bronte che mi invitava a essere suo ospite nel suo “maniero'', nel castello di Maniace, e diceva di essere sicuro che un sincero scambio di vedute tra noi sarebbe stato di giovamento alle condizioni dei poveri contadini della zona.
CARLO LEVI E LA GLOBALIZZAZIONE
Per capire il posto che Carlo Levi occupa nella storia della questione meridionale e del meridionalismo democratico, è necessario ricordare, sia pure in maniera sintetica, quale sia stata la sua formazione culturale, prima ancora che politica, nella Torino dei primi anni del Novecento, quell’autentico laboratorio culturale e politico in cui emersero tra la guerra e il dopoguerra le grandi personalità di Piero Gobetti e di Antonio Gramsci. Tra i due, il liberale rivoluzionario e il comunista, Carlo Levi scelse il primo ma, come il suo maestro, non restò sordo a istanze e esigenze che venivano, attraverso l’Ordine Nuovo, da quella classe operaia che costituiva la classe più interessante dell’ex capitale subalpina negli anni Venti, caratterizzati dallo sviluppo impetuoso dell’industria meccanica e automobilistica.
Puntarono, insomma, su Piero Gobetti come un riferimento, Levi e i suoi più giovani amici, senza perdere di vista la classe operaia e con un pregiudizio, naturalmente sfavorevole, nei confronti di quella borghesia - sia agraria che urbana - che secondo i giudizi di Gobetti, come di Gramsci, avevano ceduto al fascismo, pensando di poterlo usare contro il pericolo della rivoluzione bolscevica e poi abbandonarlo e ritornare al potere. «Dovremo diventare una generazione di storici» scrisse, proprio Gobetti, di fronte a quella marcia verso il potere del movimento fascista che fu di fatto una controrivoluzione preventiva rispetto a una rivoluzione proletaria che non ci fu. In un articolo apparso nei mesi che precedono il delitto Matteotti, nella primavera del 1924, sulla Rivoluzione liberale e dedicato ai «Torinesi di Carlo Felice», possiamo verificare il giudizio nettamente negativo di Carlo Levi nei confronti di quei borghesi che difendono in ogni caso la situazione esistente della società anche quando è contraria alla giustizia come alla libertà. O ancora nel ritratto, sempre apparso sulla rivista di Gobetti, che riguarda la figura dell’ex presidente del consiglio e leader della destra liberale Antonio Salandra: qui Levi critica con forza non soltanto il ruolo di aiuto ai fascisti svolto da Salandra ma anche la sua mentalità conservatrice, l’assenza di qualsiasi interesse per le masse popolari e per i contadini. Ma è soprattutto negli articoli che scrive successivamente nel primo (e ultimo) numero del giornale clandestino «Voci di officina» che esce nel 1930 e nei «Quaderni di G. e L.» pubblicati a Parigi da Carlo Rosselli che il giovane medico-pittore torinese espone le sue idee di fondo sulla politica e sul futuro dell’Italia e dell’Europa. In termini sintetici possiamo dire che Carlo Levi insiste, da una parte, sulla centralità di un metodo liberale rivoluzionario contro la dittatura fascista e, dall’altra parte, sulla necessità di ripartire dai valori fondamentali che si sono affermati con le grandi rivoluzioni del Settecento. C’è in Carlo Levi la speranza della possibilità di un rinnovamento profondo della politica e dei partiti, la scelta per un movimento come quello di Giustizia e Libertà che esordisce invitando tutti ad archiviare le tessere dei partiti e intende costruire qualcosa di innovativo e di rivoluzionario come la strada unica per battere l’oppressione fascista. Tra il 1939 e il 1940, durante la fase ambigua della sospensione della guerra, prima della grande avanzata nazista in Occidente, Carlo Levi scrive un saggio di grande impegno e originalità intitolato Paura della libertà pubblicato da Einaudi nel 1945 e ristampato l’anno scorso negli Scritti politici a cura di David Bidussa, sempre editi da Einaudi, che a me pare decisivo per capire la maturazione politica del torinese e gli scritti del periodo successivo tra cui è centrale il romanzo-saggio Cristo si è fermato ad Eboli uscito nello stesso anno e destinato a un grande e duraturo successo tra i lettori di tutto il mondo. In Paura della libertà Levi, influenzato più ancora che da Ortega e Bataille, dai grandi autori della psicoanalisi Freud e Jung, interpreta l’oppressione totalitaria degli anni Trenta e Quaranta come l’espressione di pulsioni costanti o ricorrenti delle comunità umane, che nascono non soltanto dal passato dell’uomo ma anche della contrapposizione tra il senso sacro della politica e la tendenza umana a una visione più volgare della società. Lui cerca di interpretare le origini di queste pulsioni e scrive pagine di grande lucidità sulle difficoltà mai superate degli esseri umani di uscire dalla fase primitiva e animale e di affrontare la sfida della libertà interna nel senso più ampio dell’espressione. Libertà come autonomia, come rischio, come capacità di affrontare quel che non si conosce e che, forse in parte, non si può conoscere. Con questa formazione culturale, con questi interrogativi di fondo, Carlo Levi scrive di getto tra Roma e Firenze, nel 1943-1944 il romanzo che è anche saggio e memoriale sugli anni di confino in Lucania destinato a dargli una fama mondiale come scrittore, lui che aveva cominciato e continuerà a dedicarsi alla pittura, oltre che alla scrittura. Dal punto di vista storico, che è quello che sto seguendo, il Cristo segna una profonda rottura nella tradizione saggistica e letteraria sul Mezzogiorno e non soltanto, o particolarmente, perché non è scritto da un meridionale. Soprattutto perché guarda alla società contadina del Mezzogiorno, e della Basilicata in specie, con occhi nuovi da più di un punto di vista. Con occhi di pittore che guarda i volti, il paesaggio, le figure, con una straordinaria fedeltà e immediatezza. Con occhi di intellettuale che guarda qualcosa che non immaginava potesse esistere nell’Italia del Novecento. Occhi che assomigliano a quelli di un antropologo particolarmente partecipe e appassionato. Ma anche occhi di politico nel senso più nobile della parola, cioè di quei politici che credono alla possibilità del cambiamento attraverso la lotta democratica. Il Cristo è un classico nella misura in cui utilizzando le parole e la letteratura riesce a comunicare ai lettori, anche quelli non particolarmente agguerriti, nello stesso tempo il lamento e la necessità di riscatto della società contadina meridionale. Non a caso è lui a identificare nei saggi di Rocco Scotellaro l’opera che meglio va avanti sulla strada indicata dal suo romanzo. Egli ha un’altra intuizione che svilupperà in opere successive dedicate al Mezzogiorno come Le parole sono pietre ed è quella di vedere, prima di altri scrittori, il conflitto destinato ad estendersi e ad esplodere negli ultimi decenni del secolo tra i paesi sviluppati e quelli del sottosviluppo, tra il Nord e i tanti Sud del mondo. Questo è uno, ma non il solo, dei motivi di attualità dell’opera di Carlo Levi, ed è sorprendente che la sua opera completa non sia riproposta ai lettori e molti suoi libri siano addirittura da tempo esauriti. Levi ha capito con grande chiarezza il valore emblematico della questione meridionale e anche negli ultimi anni della sua vita la vedrà sempre di più come il simbolo di una questione destinata a rimanere tale nell’era della globalizzazione economica e culturale.
Carlo Levi
Cristo si è fermato a Eboli (1943-44)
Dalle ringhiere del balcone pendevano e dondolavano pigre al vento le trecce di fichi, nere di mosche che correvano a sorbirne gli ultimi umori, prima che la vampa del sole li avesse tutti succhiati. Davanti all'uscio, sulla strada, sotto agli stendardi neri seccavano al sole, su tavole dai bordi sporgenti, liquide distese color del sangue di conserva di pomodoro. Sciami di mosche passeggiavano a piede asciutto sulle parti già solidificate, innumerevoli come il popolo di Mosè; altri sciami precipitavano e s'impegolavano nelle zone bagnate di quel Mar Rosso, e vi annegavano come eserciti di Faraone, impazienti di preda. Il grande silenzio della campagna pesava nella cucina, e il mormorìo continuato delle mosche segnava il passare delle ore, come la musica senza fine del tempo vuoto. Ma, a un tratto, dalla chiesa vicina, cominciava a suonare la campana, per qualche santo ignoto, o per qualche funzione deserta, e il suono riempiva lamentoso la stanza.
Analisi testuale
Titolo:
Il titolo del romanzo è particolare. Definisce un soggetto che compie un'azione in un dato luogo geografico. Il soggetto è Cristo, cioè Gesù: ci si riallaccia alla tradizione cristiana; l'azione è quella di fermarsi: più che un'azione vera e propria è il terminare un'azione, interromperla; il luogo è Eboli, una città italiana del Meridione. Cristo, per definizione, è il portatore della buona novella. La sua vita è stata un viaggio intrapreso per portare un messaggio di pace e amore a tutti gli uomini. Ma, come dice l'espressione del titolo, egli sembra non essere andato oltre Eboli, ed essersi quindi dimenticato, o essere stato impossibilitato, a procedere il suo viaggio.
Struttura narrativa:
Il paragrafo è di tipo descrittivo. La narrazione si svolge alla terza persona. Il narratore si trova collocato nell'interno di un'abitazione, e guarda sull'esterno da un balcone. Lo sguardo si sposta da ciò che è più vicino a ciò che si trova più lontano: si va dalle ringhiere del balcone, per passare davanti all'uscio, sulla strada, e finire sulla campagna.
Campi semantici:
Colori: le trecce di fichi nere di mosche; gli stendardi neri; la conserva di pomodoro color del sangue; il Mar Rosso. Due sono i colori dominanti: il nero e il rosso, due colori forti e in contrasto, sia cromaticamente che dal punto di vista del significato. Il nero, da sempre, connota valori negativi nella nostra cultura: è associato alle tenebre, al freddo, alla morte, al lutto e a "la passività assoluta, lo stato di morte completa e senza mutamenti" (dal Dizionario dei simboli, Biblioteca Universale Rizzoli). Il rosso è il colore del sangue, del fuoco, della vita, del calore, della passione e della forza impulsiva e attiva; ma, quasi paradossalmente, il rosso è anche associato alla morte, perché può simboleggiare il sangue sparso.
Rumori: vi è il grande silenzio della campagna, interrotto, o piuttosto accompagnato, solo dal mormorio continuato delle mosche; poi, nell'ultimo periodo, comicia a battere una campana dalla chiesa vicina. Il silenzio della campagna è tanto più profondo (pesante, si dice nel testo) in quanto accompagnato dal brusio ininterrotto dello sciame di mosche, che ne accentua l'intensità, come fosse una musica senza fine del tempo vuoto. Persino la campana che batte non riesce che a produrre un suono lamentoso.
La calura estiva: si parla della vampa del sole, di chiazze di sangue che seccavano al sole, dei piedi asciutti delle mosche e delle parti già solidificate (per il caldo) del sangue. Ma l'impressione di forte calura è accentuato anche dal resto della descrizione: a partire dal lento dondolare delle trecce di fichi (pigre per troppa fiacchezza), alla presenza delle innumerevoli mosche, fino al paesaggio stanco e pesante dell'intera campagna.
L'assenza di vita, di movimento: nessun personaggio anima la presente descrizione, oltre al narratore, la cui figura del resto non appare. Gli unici movimenti, oltre a quelli delle mosche, sono tutti lenti, pesanti, pigri. Il tempo sembra scorrere per nessuno (infatti è un tempo vuoto), la campana sembra battere per nessuno (per qualche santo ignoto, o per qualche funzione deserta).
I rimandi biblici: nel titolo si parla del Cristo, e nel testo del popolo di Mosè, del Mar Rosso e degli eserciti di Faraone.
Osservazioni conclusive:
Per i particolari campi semantici evocati, tutta la descrizione di questo brano potrebbe benissimo essere la trascrizione di un quadro raffigurante una Natura morta. L'ambiente è inequivocabilmente rurale e povero, prova ne siano gli alimenti distesi a seccare (i fichi, i pomodori, cioè cibi da contadini). La casa dalla quale si diparte il punto di vista descrittivo assomiglia molto alle antiche case dei vecchi borghi contadini, con alti soffitti e balconi di ferro; case dove, durante l'estate, l'aria è fresca e al contempo pesante.
Nel brano sembra non esserci nulla di degno di essere raccontato (né succede niente, né si descrivono oggetti o personaggi interessanti). Ma, proprio come nella più originale tradizione pittorica olandese della natura morta, dove la bellezza del mondo visibile appare più importante del soggetto da raffigurare, anche qui sembra che le parole trovino motivo di esistere indipendentemente dal soggetto da descrivere. Sia qui che là, si descrive la tranquillità di una scena statica, dove ciò che maggiormente traspare, oltre ai colori del quadro oppure oltre alle parole del testo, è l'emozione che l'artista prova nell'osservare e restituire una visione di verità. Non dimentichiamo, en passant, che Carlo Levi è stato, prima che scrittore, un pittore attento a restituire dei valori veritieri all'arte, ponendosi contro la poetica del futurismo e del modernismo a oltranza.
I rimandi biblici, numerosi in questo passo, hanno un doppio valore: metaforico e di verità. Un valore metaforico perché, nel testo, il popolo di Mosè in realtà è lo sciame di mosche, il Mar Rosso una chiazza di pomodoro e gli eserciti egizi un altro sciame di mosche: il racconto biblico viene sovrapposto al racconto della vita contadina e ricondotto, dalla sua sfera elevata e mistica, alla sfera quotidiana e umile. Ma, in linea con quanto detto sopra, essi hanno anche un valore di verità, nel senso che rappresentano il calarsi, da parte del narratore, nell'immaginario collettivo del luogo in cui si trova. Nel mondo contadino del Meridione l'unica cultura trasmessa, oltre alla saggezza proverbiale, è proprio quella della Bibbia. Lo stesso titolo non è frutto dello scrittore ma di un modo di dire in uso tra i contadini, che egli riprende.
La ricerca di un valore di verità in opposizione alla poetica di falsa modernità del futurismo ci riconduce al contesto del romanzo. Scritto tra il 1943 e il 1944, Cristo si è fermato a Eboli è la narrazione autobiografica del confinamento dello scrittore in Lucania durante gli anni del Fascismo. È un racconto di guerra, un racconto politico, che tuttavia per il tono dimesso e umano in cui è raccontato e per i temi che sviluppa, presenta valori di fratellanza, tolleranza e pace. Valori che ricordano, appunto, la figura del Cristo presente nel titolo, finalmente spiegato. Il Cristo (cioè i valori di fratellanza e pace) esiste, ma si è fermato a Eboli, nel senso che non è mai arrivato fino alle terre più desolate del Meridione, dove si svolge la vicenda.
L'assenza di movimento, la stasi che permea l'intero romanzo e che si respira nello stesso titolo, è reale e tangibile, è un elemento concreto della vita quotidiana del Meridione; ma essa è anche una grande metafora della stasi politica ed economica, dell'assenza di provvedimenti legislativi e organizzativi per migliorarne le condizioni. La legge, se c'è, è quella di Roma, valida solo per Roma; al Sud essa non arriva, o solo come un fattore estraneo, come una Novella che non è più "buona" ma soltanto estranea, incompresa e foriera.

Esempio



  


  1. Giusy

    ARTICOLO DI GIORNALE:GUERRA IN LIBIA