ignazio silone

Materie:Tesina
Categoria:Italiano

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Testo

Secondo Tranquilli (lo pseudonimo Ignazio Silone divenne il suo nome legale soltanto in seguito) nacque in una famiglia contadina il 1°Maggio 1900 a Pescina, una piccola località della Marsica circa sessanta chilometri da Aquila. Il padre era un piccolo proprietario terriero; mentre la madre era una tessitrice. Dopo aver compiuto i primi studi nella scuola elementare di Pescina, frequentò poi il liceo-ginnasio presso il seminario diocesano. Rimasto orfano di entrambi i genitori nel 1915, in conseguenza del tremendo terremoto della Mersica (perse sia genitori che fratelli), ebbe la possibilità di proseguire gli studi liceali presso un istituto religioso di Reggio Calabria, ma non li portò a termine per dedicarsi all'attività politica nelle file del Partito Socialista. In quegli anni, intanto, L'Italia partecipava alla prima guerra mondiale.
Rimasto senza famiglia, Silone va a vivere nel quartiere più povero del comune e comincia a frequentare la baracca, dove ha sede la Lega dei contadini. Ribelle all'autorità e animato da un profondo sentimento evangelico, il giovane Silone aveva deciso infatti di dedicare la sua vita alla redenzione sociale degli umili, e tra questi i poveri e analfabeti marsicani, veri e propri costretti a subire le violenze e i soprusi di strutture sociali arcaiche ed immutabili. Ha inizio, così, il suo apprendistato di militante rivoluzionario e sotto l'influsso di Lazzaro, incarnazione del cristiano autentico, del "cafone santo" si pone quindi dal lato di coloro che hanno fame e sete di giustizia. Questa scelta porta Silone a prenderete posizione contro la vecchia società, perché è disgustato dai soprusi della violenza dell'ipocrisia e comprende che l'unica soluzione è quella di schierarsi a loro fianco. Già nel 1917, a soli diciassette anni, aveva inviato alcuni articoli all' "Avanti" , in cui denunciava le indebite appropriazioni di fondi destinati al suo paese per la ricostruzione dopo il terremoto. Prende anche parte alle proteste contro l'entrata in guerra dell'Italia e viene processato per aver capeggiato una violenta manifestazione.
Finita la guerra si trasferisce a Roma, dove entra a far parte della Gioventù Socialista, opponendosi al fascismo. Dopo essere stato uno dei principali esponenti di tale movimento, fu nel 1921 tra i fondatori del Partito Comunista italiano. L'anno dopo, i fascisti effettuarono la marcia su Roma, mentre Silone diventava il direttore del giornale romano "l'avanguardia" e il redattore del giornale triestino "Il Lavoratore" . Dopo la promulgazione delle leggi speciali e la soppressione di tutti i partiti ad eccezione di quello fascista, continuò a dedicarsi clandestinamente all'attività politica nonostante i rischi che ciò comportava. Ricercato dalla polizia politica, fu costretto a fuggire dall'Italia. Compie varie missioni all'estero, ma a causa delle persecuzioni fasciste, è costretto a vivere nella clandestinità, collaborando con Gramsci. In questi anni, per Silone, comincia a profilarsi la crisi e nel 1930 esce dal Partito Comunista per la sua opposizione alla politica di Stalin. Dopo alcuni periodi trascorsi in Francia e Spagna, si stabilì per un certo periodo in Unione Sovietica, dove assistette alle ultime drammatiche fasi della lotta politica, conclusasi con la vittoria di Stalin e l'espulsione dei suoi antagonisti Trotkij e Zinonev. Da questo momento Silone sarà un socialista cristiano, non più marxsista. Nello stesso periodo, si compie un altro dramma nella tormentata vita dello scrittore: suo fratello più giovane, l'ultimo superstite della sua famiglia, viene arrestato ingiustamente nel 1928 con l'accusa di appartenere al Partito Comunista illegale e di essere uno degli organizzatori di un attentato a Milano.
Quando il fratello venne arrestato, Silone aveva già scelto la via dell'esilio in Svizzera, dove vi rimane per molti anni per proseguire all'estero la lotta antifascista. Silone, è deciso ormai a condurre una vita da "socialista senza partito e cristiano senza chiesa". Maturò intorno al 1930, dopo il suo rifiuto delle purghe staliniane in seno all'organizzazione comunista internazionale, la crisi che lo condusse fuori dal P.C.I. e insieme la sua vocazione di romanziere che doveva divenire preminente. Anche lo scrittore negli anni dell'esilio, rimase legato a gruppi antifascisti all'estero, occupandosi altresì dell'organizzazione in Francia in Svizzera di gruppi socialisti italiani. Trasferitosi a Davos, in Svizzera, pubblica vari scritti degli immigrati, scrive molti articoli e saggi di interesse sul fascismo italiano. Esordì come romanziere nel 1933 col romanzo più famoso "Fontamara", in cui racconta la squallida vita dei di un piccolo borgo della Marsica, oppressi dalle sopraffazioni e dagli imbrogli di un potente speculatore appoggiato dalle autorità fasciste del luogo. L'opera scritta in tedesco ma poi tradotta in ventotto lingue, ebbe molto successo in tutta Europa, mostrando un ritratto drammatico e autentico dell'Italia dell'epoca, al di là della finta immagine che voleva accreditarne il regime. Sin da questo primo romanzo Silone si caratterizza come autore "impegnato" in cui la dimensione etico-politica prevale motivazioni di carattere puramente letterario. Lo stesso autore in un suo intervento ha messo in luce questa componente essenziale della sua opera:

"lo scrivere non è stato, e non poteva essere per me, salvo che in qualche raro momento di grazia, un sereno godimento estetico, ma la penosa e solitaria continuazione di una lotta, dopo essermi separato da compagni assai cari. Le difficoltà con cui sono talvolta alle prese nell' esprimermi non provengono certamente dall'inosservanza delle famose regole del bello scrivere, ma da una coscienza che stenta a rimarginare alcune nascoste ferite, forse inguaribili."

In Fontamara incontriamo il primo eroe anticonformista di Silone, Bernardo Viola, sconfitto nel suo tentativo di cambiare le cose e pronto a scegliere volontariamente la via del carcere pur di rivendicare in questa maniera paradossale la sua libertà. E' il romanzo più noto e significativo di Silone ma verrà pubblicato in Italia solo nel 1949, dopo avere già ottenuto all'estero alti consensi. Le vicende narrate, che si svolgono in un villaggio montano della Marsica , rappresentano l'eterna lotta tra i contadini poveri (i disperati "cafoni") e il potere, detenuto allora dai fascisti, nuovi padroni e oppressori dai quali difendersi. Anche se non mancano elementi di carattere simbolico come l'acqua, l'opera esprime una forte carica di indignazione civile e morale, Silone manifesta nei suoi romanzi la "convinzione dell'identità, alla radice, di socialismo e cristianesimo come sentimento elementare di fraternità e istintivo attaccamento alla povera gente".
Fontamara:
RACCONTO :
Fontamara, pubblicata a Zurigo, in tedesco, nel 1933, è una delle più clamorose opere di questo secolo.
Il romanzo di Ignazio Silone, conosciuto in tutto il mondo, è ignorato in patria per vent’anni.
Narra la storia di un paese della Marsica, scelto come simbolo dell’universo contadino.
Nel libro vi è la lotta di Silone contro l’ingiustizia e gli abusi del potere istituzionale, fra i "cafoni" e i borghesi e la sua funzione è sia di denuncia per l’oppressione e i soprusi subiti dai contadini abruzzesi, sia di auspicio per la formazione di una coscienza sociale senza rassegnazioni.
Nel racconto, le catastrofi naturali e le ingiustizie diventano così antiche da sembrare un’eredità dei padri e della terra.
Ogni trasformazione tecnologica e sociale del mondo, oltre il confine di quei monti, viene vista dai "cafoni" di Silone come uno spettacolo da osservare.
Fontamara diventa la storia corale degli emarginati, visti nel momento in cui rifiutano la fissità della loro condizione ed entrano in conflitto con la "società degli integrati", ossia quella fascista.
Il portavoce di questa nuova coscienza è il "cafone" Berardo Viola, trascinato nella lotta, per raggiungere la fratellanza evangelica.
La sua morte è il sacrificio necessario per propagare la fede e la giustizia che i Fontamaresi raccolgono per chiedersi insieme "che fare?".
Silone nell’introdurre il romanzo dice che racconterà strani fatti che si svolsero nel corso di un’estate a Fontamara.
Fontamara somiglia a ogni villaggio meridionale,che sia un po’ fuori mano, fuori dalle vie del traffico, quindi un po’ più arretrato e misero degli altri.
Silone ha però dato questo nome a un antico luogo di contadini poveri situato nella Marsica, a settentrione del lago di Fucino, nell’interno di una valle.
Allo stesso modo, i contadini poveri, i cafoni, si somigliano in tutti i paesi del mondo, eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto identici.
A Fontamara prima veniva la semina, poi l’insolfatura, poi la mietitura e poi la vendemmia e nessuno avrebbe mai pensato che quell’antico modo di vivere potesse cambiare.
La scala sociale non conosce a Fontamara che due pioli: la condizione dei cafoni e, un pochino più su, quella dei piccoli proprietari.
I più fortunati tra i cafoni di Fontamara possiedono un asino o a volte un mulo.
Arrivati all’autunno, dopo aver pagato i debiti dell’anno precedente, essi devono cercare in prestito cibo per non morire di fame nell’inverno.
L’opera racconta che, nel giugno dell’anno precedente a quello della pubblicazione del libro, Fontamara rimase per la prima volta senza illuminazione elettrica, così avvenne nei mesi seguenti, finchè il paese si riabituò al regime del chiaro di luna.
I vecchi di Fontamara sapevano che la luce elettrica e le sigarette erano novità che erano state portate dai piemontesi, e che, poco dopo, gli stessi piemontesi si erano riprese.
La luce elettrica nessuno infatti la pagava, poiché mancava il denaro e il cursore comunale non si era neppure presentato, come ogni anno, con le fatture e gli arretrati, fogli che i Fontamaresi usavano per usi domestici.
L’ultima volta, che il cursore era andato a Fontamara, per poco non vi lasciava la pelle.
La luce quindi in giugno venne tolta e tutto il paese si sconvolse, poiché la miseria stava per diventare sempre più nera.
Intanto gli uomini si radunarono davanti alla cantina del paese e videro arrivare verso di loro un forestiero, il Cav. Pelino, con una bicicletta e pensarono che si trattasse di una nuova tassa.
L’uomo spiegò che non si trattava di nuove tasse, ma servivano solo delle firme da mandare al Governo.
Il Cav. Pelino cercò pretesti per discutere, ma i Fontamaresi non risposero e si burlarono di lui.
Lo straniero partì con la sua bicicletta, urlando che il Governo si sarebbe occupato di loro e che presto avrebbero avuto sue notizie.
I Fontamaresi, però, non fecero caso alle parole del Cav. Pelino, si diedero la buona notte e si avviarono verso casa, mentre Berardo, uno degli amici, continuò il giro del paese.
Il giorno dopo, all’alba, tutta Fontamara fu in subbuglio per un malinteso. All’entrata del paese, sotto una macera di sassi, sgorgava una polla d’acqua, simile a una pozzanghera, dove i Fontamaresi avevano sempre tratto l’acqua per irrigare i campi che erano la magra ricchezza del villaggio.
La mattina del 2 giugno, i cafoni scesero la collina per andare al lavoro e s’incontrarono con un gruppo di cantonieri, arrivati a Fontamara con pale e picconi per deviare l’acqua nei campi del ricco don Carlo Magna.
Subito i cafoni pensarono a una burla, poiché gli abitanti del capoluogo non lasciavano mai passare le occasioni per beffarsi dei Fontamaresi.
Un ragazzo tornò allora in paese ad avvertire gli altri, ma gli uomini erano al lavoro e quindi dovette chiamare le donne.
Queste si radunarono e quando arrivarono dai cantonieri, questi si spaventarono e scapparono.
Le donne proseguirono, poi, verso il capoluogo, dove arrivarono a metà giornata, stanche e impolverate. Intanto, davanti al municipio, le guardie cominciarono a gridare di non farle entrare, poiché avrebbero solo portato pidocchi.
Queste affermazioni fecero scoppiare risate generali e burla verso le povere donne, addirittura anche la fontana del paese si burlò di loro e appena si avvicinavano questa smetteva di far scorrere acqua.
I carabinieri le accompagnarono poi a casa del Podestà appena eletto: era l’impresario che era arrivato nel paese da poco e si era impadronito di ogni affare importante.
Arrivati alla villa, la moglie del podestà disse che suo marito era sul cantiere con gli operai e quindi le donne si diressero là.
Ma, arrivate al cantiere, non lo trovarono e allora decisero di andare da Don Carlo Magna, ma seppero che le sue terre erano anche state acquistate dall’impresario.
Camminarono molto e giunsero di nuovo davanti alla casa dell’impresario, dove vi era in corso un ricevimento per la nuova nomina a Podestà e chiesero di essere ascoltate circa l’acqua del ruscello.
Dopo varie discussioni il segretario del comune decise che tre quarti dell’acqua dovessero andare ai Fontamaresi e i rimanenti tre quarti all’impresario.
Nei giorni seguenti i cantonieri ripresero i lavori, mentre nessuno riusciva a capire che proporzione potesse essere quella dei tre quarti e tre quarti.
Questa disputa valse l’onore della visita di Don Abbacchio, il canonico di Fontamara.
Arrivò su una biga tirata da un bel cavallo, che apparteneva all’impresario, e quindi i Fontamaresi capirono che anche il canonico si stava burlando di loro.
Al tempo dell’irrigazione mancavano ancora molte settimane, ma le zuffe e le discussioni per l’acqua erano già iniziate.
Intanto arrivò la decisione di Berardo Viola, cafone rimasto senza terra, di partire e far fortuna in America, poiché ormai si riteneva tradito da tutti.
L’unico a incoraggiarlo a partire era Don Circostanza, antico curato del paese, che pensava che se l’uomo fosse rimasto a Fontamara, sarebbe stato arrestato.
Il giorno della partenza arrivò, ma, a causa di una nuova legge, fu sospesa tutta l’emigrazione e così Berardo rimase a Fontamara come un cane sciolto e sofferente.
Berardo voleva la terra a tutti i costi, gli spettava di diritto come cafone, ma fu destinato a non averne mai.
L’uomo doveva anche sposarsi, ma, non potendo partire, non osava presentarsi alla fidanzata.
Trovò lavoro da bracciante fuori da Fontamara e faticava parecchio, ma un bel giorno Berardo dovette tornare a Fontamara poiché era stata istituita una nuova
tessera per andare a Roma, di cui era sprovvisto, poiché era a pagamento.
L’amarezza di Fontamara aumentò con l’arrivo di Innocenzo La Legge che assicurò che non si trattava di una nuova tassa, ma era lì per parlare del Cav. Pelino, che
aveva riferito al Governo ogni discorso fatto a Fontamara la sera della sua visita.
Parlò anche dei vari provvedimenti che il governo aveva assunto contro i Fontamaresi e che venivano messi in pratica dal giorno stesso.
Nel paese, intanto, cominciavano le discussioni con Innocenzo La Legge da parte di Berardo e il vecchio Baldissera.
Verso la fine di giugno, si sparse la voce che i rappresentanti dei cafoni della Marsica stavano per essere convocati ad Avezzano per ascoltare le decisioni del nuovo Governo di Roma sulla questione del Fucino, in quell'occasione si doveva discutere sul problema del lago nella Marsica.
Una domenica mattina arrivò a Fontamara un camion che, gratis, portava i cafoni ad Avezzano ed era proprio questa mancata richiesta di pagamento che non piaceva ai Fontamaresi, sotto doveva esserci l’inganno.
Salirono tutti sul camion, portando con sè lo stendardo di San Rocco, ma, a causa di questo, dovettero discutere all’entrata di Avezzano con un gruppo di giovanotti, che volevano fosse loro consegnato lo stendardo.
Consegnarono la bandiera ai carabinieri e furono condotti in una grande piazza e fatti sedere in terra.
Dopo un’ora di attesa, dovettero alzarsi in piedi e gridare inni ai podestà, mentre la piazza fu attraversata da un’automobile, seguita da quattro uomini in bicicletta.
Poi furono fatti risedere, ma poco dopo i carabinieri annunciarono che i cafoni potevano andarsene.
Berardo, non persuaso, andò davanti al portone del palazzo tutto imbandierato e volle parlare con il ministro per levarsi la curiosità di sapere cosa era successo.
Ci furono molte liti con i carabinieri, intervenne infine Don Circostanza, che accompagnò tutti nel palazzo per parlare con l’impiegato del ministero, poichè il ministo era partito.
Seppero che la questione del Fucino era stata risolta, "come" non si sapeva.
I Fontamaresi, usciti dall'ufficio governativo, vennero ancora presi in giro dai cittadini di Avezzano, ma non ebbero più la forza di reagire e lasciarono perdere.
Arrivarono a Fontamara a notte fonda e poco dopo erano di nuovo in piedi per andare a lavorare i campi.
Intanto nel paese arrivarono dei camion con i militi fascisti che fecero rientrare tutte le donne, bambini e anziani in casa, portarono via tutte le armi e si scatenarono su una donna, lasciandola in terra rantolante.
Poco dopo uscirono di nuovo in piazza, mentre tornarono dal lavoro gli uomini che vennero interrogati sul Governo.
Nessuno diede risposte soddisfacenti , ma la fila dei camion andò via.
L’indomani mattina la madre di Berardo cercò suo figlio, che la sera prima non era rincasato.
Il narratore di tutta la vicenda afferma quindi di aver incontrato Berardo dietro al campanile del paese e di avergli comunicato che la madre era in pensiero per lui.
Discussero quindi sul problema di Berardo di trovare terra.
Decisero, inoltre, di andare a parlare con Don Circostanza, da cui erano a credito per un reimpianto di viti, per chiedergli consiglio e aiuto per trovare
un’occupazione in città per il povero Berardo
L’avvocato gli promise aiuto, dopo averli ingannati con la discussione sulle nuove leggi in vigore, allo scopo di non ridare il denaro ai cafoni.
Berardo, quando uscì dalla casa di Don Circostanza, tornò a sorridere per la prima volta dopo tanto tempo, credendo alle parole dell’avvocato, che era riuscito ad illuderlo.
Intanto nel paese si stava facendo una colletta per poter far arrivare Don Abbacchio a Fontamara e finalmente poter celebrare la messa.
Vi partecipò anche Berardo, attirato dalla notizia che, durante la messa, ci sarebbe stata la solita predica, che ormai tutti sapevano ma che riusciva sempre ad attirare tutti i cafoni a messa.
Don Abbacchio però ebbe la malaugurata idea di rimproverare i cafoni per il mancato pagamento delle tasse e questo fece scatenare fra i cafoni una discussione generale, dopo di chè Don Abbacchio dovette partire.
Pochi giorni dopo i cantonieri finirono di scavare il nuovo letto per il ruscello e giunse l’ora della spartizione dell’acqua fra i cafoni di Fontamara e l’impresario.
Arrivarono sul posto tutte le autorità seguite dai carabinieri e e arrivarono anche i cafoni, che dovevano nominare un capo fra gli anziani, che guardasse l’operazione e riferisse agli altri.
Purtroppo i Fontamaresi videro che il livello dell’acqua, che avrebbero potuto utilizzare, scendeva sempre di più e capirono che sotto vi era l’inganno.
Don Circostanza, per non far scatenare i cafoni, intervenne e avanzò una proposta: l’acqua sarebbe tornata ai Fontamaresi dopo dieci lustri, ma nessuno dei cafoni poteva sapere quanti mesi o anni fossero.
Alla spartizione dell’acqua era mancato Berardo e questo i Fontamaresi lo considerarono un tradimento, senza sapere che ormai l’uomo pensava solo più ad emigrare e far fortuna in America.
Il figlio del narratore e Berardodecisero così di partire l’indomani.
Partirono la mattina presto e Berardo era di cattivo umore.
Raggiunsero Fossa per prendere il treno per Roma, ma furono raggiunti dalla notizia che uno dei cafoni di Fontamara era stato impiccato al campanile.
I due partirono lo stesso con l’autorizzazione di Don Abbacchio e a Roma soggiornarono in una locanda indicata sempre dal curato.
L’indomani si presentarono all’ufficio, che doveva mandarli a lavorare in bonifica, ma seppero che ci voleva una tessera speciale per poter lavorare.
Pagarono dunque questa nuova "tassa" e furono iscritti presso l’ufficio di collocamento, ma questo non bastò, dovevano tornare al loro paese e portare la domanda di lavoro.
Stanchi, ormai, di viaggiare avanti e indietro, si consultarono con un avvocato che era ospite presso la locanda, dove loro soggiornavano.
L’avvocato chiese tutto il denaro che i due cafoni avevano con loro e inoltre spedì un telegramma a Fontamara per chiedere di mandare a Roma tutto ciò che il padre di Berardo, ormai morto da anni, potesse mandare, così gli avrebbe trovato lavoro.
L’uomo, quando seppe che il padre di Berardo era morto da anni e che quindi non poteva mandargli niente, si infuriò e andò dai due cafoni.
I poveri uomini, ormai senza soldi, avevano fame e stavano tutto il giorno nella loro camera della locanda a fissare il soffitto, sperando di essere chiamati a lavorare.
Pochi giorni dopo, arrivò una lettera per Berardo che portava la notizia che a Fontamara gli era morto qualcuno.
Furono inoltre mandati via dalla locanda e l’avvocato non li aiutò nella ricerca del lavoro, poiché da Fontamara non era arrivato niente di quanto richiesto dal telegramma da lui spedito al padre di Berardo.
I due erano deboli per la fame e di tanto in tanto credevano di cadere per terra, quindi uscirono dalla locanda senza discutere.
A pochi passi da lì incontrarono un giovanotto, che avevano conosciuto ad Avezzano e che offrì loro da mangiare. Intanto a Roma vi era la caccia al Solito Sconosciuto, un uomo che "metteva in pericolo l’ordine pubblico" con la fabbricazione e la diffusione della stampa clandestina, con cui denunciava gli scandali e incitava gli operai a scioperare e i cittadini a disubbidire. Dietro a lui corsero molti poliziotti, ma l’uomo era rimasto imprendibile. I militi entrarono nell’osteria dove vi erano i cafoni e controllarono i loro documenti, stavano per uscire, quando videro un pacco abbandonato in terra. I carabinieri presero allora Berardo e il figlio del narratore e li portarono in prigione. I due cafoni pensarono di essere stati scambiati per ladri e così cercarono di parlare con il commissario. Dopo alcuni giorni di attesa si costituì dicendo che il Solito Sconosciuto era lui e che il pacco trovato era suo e che conteneva stampa clandestina. A tutti sembrava strano che un cafone potesse essere i Solito Sconosciuto e così venne più volte interrogato, come avvenne per il figlio del narratore e per l’amico di Avezzano. Quest’ultimo fu liberato, mentre per i due cafoni le pene furono molto crude. Quando Berardo seppe che l’Avezzanese era uscito, decise di parlare e dire cosa gli aveva confessato il giovane, ma quando seppe dal commissario, tramite i giornali, che Elvira, la sua fidanzata, era morta, decise di non parlare più. Nella notte Berardo fu ucciso nella sua cella, ma i poliziotti dissero all’amico che si era ucciso, impiccandosi. I carabinieri dopo avergli fatto firmare numerosi fogli, lasciarono libero il figlio del narratore che tornò a Fontamara. Intanto i cafoni avevano gièà appreso le ultime notizie dal Solito Sconosciuto, l’unica che continuava a fare domande e a disperarsi fu la mamma di Berardo. I Fontamaresi decisero di scrivere allora un giornale con gli appunti lasciati dallo Solito Sconosciuto e fu intitolato "Che fare?". Bisognava trovare chi andasse a distribuirlo nel paese e anche al di fuori di Fontamara e questo compito fu dato all’autore ed a altri cafoni, che partirono presto e raggiunsero i vari paesi indicati, ma mentre si apprestavano a ritornare a Fontamara udirono degli spari. Era la guerra a Fontamara, chi aveva potuto era scappato, gli altri erano morti, da come raccontava un fontamarese incontrato per strada. Il narratore, il figlio e i pochi cafoni con loro si salvarono nascondendosi nei campi. Non ebbero più notizie di nessuno, nè del paese, loro vissero all’estero grazie all’aiuto del Solito Sconosciuto, ma non poterono restarci.
La storia dei fontamaresi vuol essere la denuncia dolorosa e forte di una miseria e di un sopruso sofferti dai poveri cafoni marsicani e in genere dai meridionali sotto il fascismo
Di questo movimento è evidenziato l'aspetto violento e beffardo, che sfrutta abbondantemente per estendersi e radicarsi
Dal racconto esce l'immagine di un'umanità primitiva e rozza ma capace di virtù eroiche.
Vi è anche l'aspetto religioso della vicenda: nel saper ritrovare la coerenza con se stessi e nell'aprirsi alla realtà degli altri.
L'ambiente, la Marsica, è sempre presente, come un quadro amaro, ritratto in linee dure, che è parte integrante della vita dei fontamaresi. Un tema importante di questo romanzo è l'ironia, con cui Silone esprime la contrapposizione tra l'ingenuità dei cafoni e la falsità degli altri, la paura di essere presi in giro da parte dei primi
e l'intenzione di ingannare da parte dei secondi.
Si sottolinea, anche, l'enormità dei provvedimenti che arrivano dall'alto, che assumono l'aspetto di beffe.

COMMENTO :
Silone scrive nel 1930, in una casa di cura di Davos, in Svizzera il suo primo romanzo Fontamara. A motivare tale decisione sono la necessità di confermare pubblicamente il proprio impegno politico a favore e in difesa dei suoi >, il bisogno di chiarire anzitutto a se stesso, il senso di un contributo personale ed isolato alla lotta per questa causa, il significato del proprio atteggiamento, del proprio gesto nei confronti del Partito da cui è uscito.

Si presenta, inoltre, l'occasione di denunziare lo stato di avvilimento e di prostrazione in cui si trova la provincia italiana sotto il regime fascista e quindi di riscattare
la stessa da quell'immagine convenzionale e di comodo che in Italia e all'estero molti sono andati facendosi.

Infine, con l'opportunità di aiutare la propria gente nella presa di coscienza della condizione in cui si trova, il momento propizio per ricordare agli intellettuali italiani la
propria parte di responsabilità nell'attuale stato di cose, indicando loro quello che può essere un primo passo per porvi rimedio, vale a dire rompere con certo
linguaggio da e per soli letterati, tradizionale espressione non soltanto della borghesia più retriva ma anche di una cultura ed una letteratura del tutto estranee alla
presente realtà storica e sociale.

La vicenda di Fontamara è ambientata nella Marsica, vale a dire nei luoghi d'infanzia dell'autore. La ragione è egli stesso a spiegarcela:
vi era nella mia ribellione un punto in cui il rifiuto e l'amore coincidevano; sia i fatti che giustificavano l'indignazione, sia i motivi morali che l'esigevano, mi erano dati dalla contrada nativa. Il passo dalla rassegnazione alla rivolta era brevissimo: bastava applicare alla società i principi ritenuti validi per la vita privata. Così mi spiego anche perché tutto quello che finora m'è avvenuto di scrivere, e probabilmente tutto quello che ancora scriverò, benché io abbia anche viaggiato e vissuto a lungo all'estero, si riferisca unicamente a quella parte della contrada che con lo sguardo si poteva abbracciare dalla casa in cui nacqui, e che non misura più di trenta o quaranta chilometri in un senso e nell'altro.
Il periodo in cui si svolgono i fatti narrati corrisponde a quello dell'assestamento del regime che, con la graduale e violenta eliminazione d'ogni residuo di libertà, ha favorito il ritorno del prepotere dei notabili e dei proprietari, i quali allo squallore tradizionale dell'ambiente hanno aggiunto il sopruso e l'ingiustizia elevati a sistema. Tratta di una storia semplice e lineare, che affronta la vita della provincia meridionale inserendola nel processo storico che in quel periodo mortificava l'intero paese. C'è un impresario (che ai fontamaresi ricorda tanto il lontano feudatario e il più vicino vescovo) il quale, forte dell'appoggio della Banca, delle autorità centrali e dei carabinieri, cerca di strappare ai paesani del luogo le acque di un ruscello che ha finora costituito una delle loro poche e principali risorse, in quanto se ne servivano per irrigare le proprie terre ed abbeverare quei pochi capi di bestiame che ancora erano loro rimasti. I fontamaresi, che sulle prime avevano tentato di opporsi a tale tentativo con suppliche e proteste, finiranno col soccombere, vittime di un raggiro che riesce perfettamente, grazie soprattutto alla complicità di Don Circostanza, tipico notabile del luogo il quale gode e può quindi tradirla con maggior facilità della loro fiducia.
A guida dei « cafoni » in un loro tentativo di sfida all'impresario e alle autorità è il giovane paesano Berardo Viola che, intuita ben presto l'inutilità di qualsiasi forma d'opposizione legale, indica nella rivolta la sola maniera valida per sottrarsi al sopruso di cui sta per cadere vittima la contrada. Quando Berardo Viola s'accorgerà di non avere seguaci a meno sul piano pratico, in questa sua proposta, anziché abbandonarsi con gli altri ad una passiva rassegnazione, preferirà emigrare in città per proseguire la battaglia in difesa della causa dei suoi compaesani. La su adesione al movimento clandestino di opposizione al regime è talmente spontanea e generosa da spingerlo a dichiararsi autore di un attentato politico avvenuto proprio il giorno del suo arrivo in città, ed a farsi arrestare senza neppure conoscere i veri responsabili dell'attentato. Fin dalle prime righe è evidente l'ispirazione polemica del libro. Un polemica animosa e serrata in difesa dei poveri, dei « cafoni », contro tutti i responsabili e complici più o meno consapevoli delle misere condizioni i cui essi versano; una polemica, quindi, che investe motivi d'ordine politico e sociale, culturale e religioso, in un'alternanza di toni ora ironici ora drammatici eppur sempre vigorosi e convincenti. Abbiamo detto che l'autore si propone di trovarvi la soluzione a certi problemi e la risposi a parecchi interrogativi. Naturale, quindi, la sua insofferenza per qualsiasi forma di descrittivismo e di compiacimento formale. Certa sua incuranza stilistica, tuttavia, perde notevolmente di spontaneità ogni qualvolta egli si prova ad accentuare il ruolo emblematico di taluni personaggi e le singolarità di certe situazioni. Un primo limite del romanzo che lascia subito perplessi, ad esempio, consiste nella rappresentazione del contrasto tra cafoni e cittadini, contrasto che assume ogni volta e bruscamente gli aspetti di uno scontro, più che di un confronto, in quanto reso da una visione unilaterale dei due mondi. Risulta evidente, cioè, l'assenza di un'impostazione dialettica dei rapporti umani, e quindi delle classi, secondo un'analisi più approfondita ed equilibrata.
Questo perché l'autore si preoccupa ostinatamente di fornirci un quadro il più fedele e aderente possibile di certa realtà, nel proposito di smentire definitivamente quella concezione folcloristica e di comodo che della provincia meridionale in Italia e all'estero ci si era andata facendo, nonché di porre nella sua luce più cruda una condizione politica e sociale fra le più mortificanti. Di qui quel suo sottoporre i personaggi ad una deformazione sovente grottesca, quel suo esasperarne certi tratti caratteristici fino a rischiare il semplicismo e la contraddizione, come nella narrazione delle trattative fra l'impresario e i paesani, dei quali è accentuata la buona fede al punto da far loro accettare con estrema ingenuità il marchingegno basato sull'assurda ripartizione delle acque contese in >, mentre fino a qualche pagina prima l'ironia, non sempre ben filtrata, delle loro considerazioni e dei loro discorsi lasciava presumere in essi una certa dose d'intuito e di saggezza.
E' in questo palese intervento dell'autore nella fase conclusiva della storia di Berardo Viola che si riflettono gli echi della crisi che travagliando Silone, il quale, se da una parte auspica il maturarsi di una presa di coscienza della realtà da parte del protagonista - e quindi dei cafoni - nonché della volontà di opporvisi anche col sacrificio personale, dall'altra non nasconde la propria preoccupazione di vederlo prima o poi risucchiato nelle spire del l'organizzazione politica cospirativa, per soccombere a tutto un altro genere di soprusi e tirannie non meno umilianti.
È, questo, uno degli interrogativi che Fontamara lascerà senza risposta e in eredità alle successive prove narrative di Silone. Quanto ai risultati positivi più evidenti di Fontamara, crediamo che il romanzo, in ultima analisi, possa sostenere ancora oggi, a distanza di oltre trent'anni, più di un confronto anche in sede di valutazione meramente estetica. La sua struttura sufficientemente salda e unitaria, la sua felice rappresentazione dell'ambiente e della vita dei «cafoni», il suo paesaggio , nido, niente affatto idillico, unitamente alla stringatezza de dialoghi ed alla sapiente fusione del ruolo di coro con quello di protagonista del popolo fontamarese, garantiscono di un esito narrativo chiaramente raggiunto e notevolmente sicuro. Proprio la politica, invece che con le sue esigenze sembrava sulle prime aver prevalso sulla narrativa, è in effetti quella che esce sconfitta dal romanzo. Basti pensare alle reazioni di un Peppino Goriano e dello stesso Berardo Viola, durante le scorribande in città sui camions messi a disposizione del regime che li ha mandati a prelevare per una delle solite manifestazioni «spontanee», egli fronte alle accoglienze «politicizzate» dei cittadini, oppure alla diffidenza e all'ostilità incontrate dagli attivisti della città durante i loro tentativi di disciplinare l'afflusso e la partecipazione dei «cafoni» alla manifestazione. Naturalmente la pubblicazione del romanzo, avvenuta nel 1933, non poteva attirare l'attenzione degli italiani, ma l'interesse con cui fu accolto in molti altri paesi, l'autorità dei consensi che ricevette in ogni parte del mondo ricompensarono l'autore dell'obbligato silenzio del nostro pubblico e della nostra critica.
Nonostante un Trotzky, tuttavia, avesse rilevato che « Fontamara è un libro di appassionata lotta politica ma la passione rivoluzionaria qui si solleva all'altezza dell'opera d'arte», la maggior parte di quanti parlarono o scrissero di questo libro lo fecero quasi esclusivamente in chiave politica, col risultato di preparare il terreno alle incomprensioni e alle diffidenze che la critica italiana doveva mostrare, subito dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, nei confronti dell'autore. Silone, con questo romanzo corale, ci consegna un messaggio coraggioso e provocatorio: la proposta di un impegno che non si regga sugli schemi tradizionali dei conflitto di classe, ma che nasce e si sviluppa nel profondo di ogni coscienza prima di diventare rivendicazione collettiva. Fontamara è un paese dei sud dove i "cafoni" che lo abitano sono da secoli assuefatti alla sofferenza.
A un certo punto si risvegliano: il podestà e un'accolta di proprietari dei vicino capoluogo hanno fatto deviare l'acqua di un ruscello per irrigare le loro campagne. Nelle foro sofferenze, i fontamaresi che si ribellano, rappresentano l'uomo che attinge a un nuovo livello di dignità, proprio perché si sente spinto alla lotte contro la violenza e le mistificazioni; mentre l'acqua assume il significato del simbolo vitale, dei diritto naturale e sacro alla libertà, al quale l'uomo non può rinunciare e non rinuncia.
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