Manzoni: vita opere e pensiero

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Testo

ALESSANDRO MANZONI
Nella personalità di Alessandro Manzoni si fusero le tre componenti culturali che si confrontavano in quegli anni: 1) l’influenza della cultura settecentesca e illuministica, propria della sua formazione giovanile; 2) le suggestioni romantiche, interpretate in maniera oltremodo personali; 3)l’esigenza di una svolta in senso popolare e realistico, sul piano dei contenuti, della lingua e dei generi letterari.
Malgrado pertanto la sua personalità schiva, e pur mantenendosi distante dalle più accese polemiche, fu un vero maestro e caposcuola.
LA VITA
Manzoni nacque a Milano nel 1785; il padre, il conte Piero Manzoni era un aristocratico bigotto, la madre, Giulia Beccarla, la figlia del celebre autore de I delitti e delle pene, era una giovane brillante, che presto si separò dal marito. Alessandro trascorse l’infanzia e l’adolescenza nel chiuso ambiente della casa paterna e nei collegi religiosi, dove, forse per reazione, si entusiasmò per le idee rivoluzionarie. Amico del Monti, fu profondo ammiratore del Parini, che da poco si era spento.
A vent’anni raggiunse la madre a Parigi, ove era appena morto Carlo Imbonati, compagno della madre e da Manzoni considerato una sorta di padre spirituale. Per la memoria di costui, che era stato educato dal Parini, compose il Carme in morte di Carlo Imbonati(1805).
A Parigi frequentò i circoli degli ideologi e strinse una profonda amicizia con Fauriel, che influenzò in maniera determinante la scelta manzoniana di contenuti poetici calati dentro una precisa realtà storica.
Nel 1808 sposò Enrichetta Blondel, una calvinista ginevrina, che dopo il matrimonio convertì al cattolicesimo, sotto la guida dell’abate Degola. Sotto l’influenza di quest’ultimo, del Tosi – una volta tornato a Milano – e della moglie Manzoni tornò alla chiesa cattolica (1810). Da questa data Manzoni visse prevalentemente a Milano o nella villa di Brusuglio in Brianza,nella quiete della vita familiare, insieme alla madre e alla moglie, da cui ebbe dieci figli. Non amava comparire in pubblico, soffriva di agorafobia e di ricorrenti crisi nervose.
Gli anni successivi al ’10 furono caratterizzati da una intensa produzione letteraria: gli Inni Sacri (1812-1827); le due tragedie Il Conte di Carmagnola (1819) e Adelchi(1821-1822); le due odi Marzo 1821 e il 5 maggio; iniziò inoltre la composizione de I promessi sposi.
Segue un periodo segnato da crisi fisiche e morali – più spiritualistico divenne il suo sentimento religioso, a seguito dell’amicizia stretta con Rosmini - , ma anche da gravi lutti: nel 1833 muore Enrichetta, e poco dopo la prediletta figlia Giulia (moglie di Massimo d’Azeglio); perse anche altri figli (solo due gli sopravvissero).
Nel 1837 sposò Teresa Borri, una donna forte e autoritaria: ormai si era dissolta quella serenità familiare, che aveva accompagnato gli anni migliori dell’attività letteraria.
La sua riservatezza e le tragiche vicende familiari non impedirono una minima partecipazione alle vicende politiche del tempo: nel ’48 sottoscrisse, durante le cinque giornate di Milano, l’appello dei nobili milanesi per l’intervento di Carlo Alberto; rifiutò ogni onorificenza austriaca, mentre accettò subito la nomina a Senatore del nuovo regno d’Italia, partecipò alla seduta in cui fu proclamato il nuovo regno e votò per il trasferimento della capitale a Firenze; nel 1872, tra lo sdegno de cattolici più reazionari, accettò la cittadinanza onoraria di Roma.
Morì a Milano nel 1873.
La sua fu una vita priva di grandi colpi di scena, anche i lutti che lo colpirono furono da lui affrontati nel silenzio e nella solitudine. Rimase anche insensibile alla gloria letteraria, schivo di ogni posa esibizionistica e di ogni atteggiamento di caposcuola.
LA RELIGIOSITA’ E LA VITA MORALE
La conversione manzoniana nasce in primo luogo dalla consapevolezza dell’insufficienza della filosofia sensista a soddisfare le molteplici ansie della nuova spiritualità. Ma il sensismo influenzò l’interpretazione che Manzoni diede della religione cattolica: alla base del nuovo credo egli pose, infatti, un’esigenza democratica ed egualitaria, che aveva il suo fondamento nel Vangelo: Cristo è morto per tutti.
Il cattolicesimo manzoniano è quindi profondamente calato nella vita, come un’esigenza morale che bisogna rendere operante nei vari campi dell’agire umano, nei rapporti tra gli uomini, così come nella lotta politica tra oppressori e oppressi. Così Alessandro si inserisce in quel filone del pensiero religioso ottocentesco, che prende nome di cattolicesimo liberale.
Questa fede democratica però si scontrò inizialmente in Manzoni con una concezione sostanzialmente pessimistica della possibilità dell’uomo di realizzare una società libera e giusta. La storia gli appare segnata dalla violenza dell’oppressione del forte sul debole: ne consegue un’amara rassegnazione, che si esprime nella rinuncia all’azione e nel rifugiarsi nel proprio rigore morale, rinviando alla morte e al giudizio divino l’attuazione di quella giustizia che dalla storia umana è negata. Su quest’atteggiamento si proietta l’ombra del giansenismo1, a cui Manzoni non aderì mai esplicitamente, ma la cui influenza è evidente nel periodo immediatamente successivo alla conversione.
Questo pessimismo cristiano si riflette soprattutto nelle tragedie e nelle odi civili.
Ma la conclusione travaglio spirituale manzoniano è nella consapevolezza – palese nel romanzo – della costante presenza della Provvidenza nella storia, che si realizza come capacità di lottare, malgrado le delusioni e i dubbi, per un’affermazione dei valori cristiani di giustizia e di uguaglianza, di perdono e di carità.
Nei Promessi sposi l’aiuto divino non è più una grazia che si attende dall’esterno, ma una certezza che si acquista giorno dopo giorno entro il cuore, nell’esercizio di una virtù che non cede né ai compromessi né alla disperazione. E se in un primo momento l’autore sembra dividere il mondo in buoni e cattivi, in definitiva egli sente la responsabilità individuale come libertà di scelta, come possibilità di riscatto attraverso la conversione – come l’Innominato o Lodovico – o come eventualità di salvezza attraverso l’estremo pentimento e il perdono divino – come don Rodrigo - .
LA FUNZIONE MORALE E SOCIALE DELLA POESIA
Tutta l’opera del Manzoni è segnata da una forte esigenza morale, fino a diventare il documento dei suoi travagli spirituali ed ideologici.
Questa esigenza di responsabilità morale, che affonda le sue radici nella formazione illuminista dell’autore, media il suo approccio al romanticismo, di cui però elabora un’interpretazione personale. Ne derivano i due principali fondamenti dell’attività letteraria di Manzoni: 1)l’esigenza di un’arte obbiettiva, che si ispiri al vero storico; 2)l’attenzione dominante per gli aspetti della vita morale.
Il primo elemento è presentato con chiarezza dall’autore nella Lettera a M. Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia (1823), scritta in risposta ad alcune critiche che gli erano state mosse alla pubblicazione de Il conte di Carmagnola. In essa dichiara che se lo storico cerca il “vero”, cioè i fatti e le loro cause, il poeta ricercherà nella storia piuttosto il “verisimile”, cioè i sentimenti segreti dei protagonisti dei fatti, conservando una fondamentale aderenza alla realtà, e mutando ed inventando quel tanto che basti a sottolineare e a definire meglio la problematica sentimentale e morale dei personaggi.
Altro importante documento della poetica manzoniana è la Lettera sul Romanticismo al marchese Cesare D’Azeglio (1823), in cui si afferma che “la nuova letteratura deve proporsi l’utile per iscopo, il vero per oggetto, l’interessante per mezzo”; cioè la necessità di un contenuto storico.
In scritti successivi, e soprattutto nel Discorso del romanzo storico e in genere de componimenti di storia e di invenzione (1845), Manzoni restrinse sempre più la funzione della creazione poetica per esaltare la oggettività, giungendo così a criticare come ibridi i componimenti in cui fatti storici e fantastici fossero fusi insieme: in tal modo negava valore al suo stesso romanzo.
OPERE ANTERIORI ALLA CONVERSAZIONE
Gli scritti anteriori alla conversione sono di stampo classicista ed illuminista: è il caso de il Trionfo della libertà (1801) e i quattro Sermoni (1804), in cui è evidente il neoclassicismo di Monti e la moralità del Parini.
Col Carme in Morte di Carlo Imbonati (1805), Manzoni si libera dal peso dei modelli, per affermare la sua voce. Immagina di chiedere all’ombra dell’Imbonati, apparsogli in sonno, quei consigli di vita, che Parini aveva dato a Carlo giovinetto.
L’ultima opera anteriore alla conversione, l’Urania (1809), di stampo neoclassico, celebra la funzione civilizzatrice della poesia. Nell’atto di congedare il poemetto scrisse all’amico Fauriel: “d’ora innanzi non comporrò più versi come questi, ne scriverò di più brutti forse, ma di certo meno inutili.”

GLI INNI SACRI
Gli Inni sacri, la prima opera scritta dopo la conversione, nascono sotto il segno di un duplice rinnovamento, morale e religioso insieme: Manzoni vuole cantare l’importanza che per l’umanità ha assunto il messaggio cristiano, e vuole contrapporre alle favole mitologiche del neoclassicismo i contenuti cristiani; ma vuole anche servirsi di un nuovo linguaggio, in modo che nell’opera si specchiassero vaste masse e non solo i dotti.
Gli Inni Sacri, omaggio del convertito alla fede ritrovata, dovevano essere, nell’intenzione del poeta dodici, per celebrare le principali festività dell’anno liturgico cattolico. Ne scrisse però solo cinque: La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione (tra il ’12 e il ’15) e La Pentecoste (1817-1822). Degli altri ci restano sette titoli, un frammento di Ognissanti, le prime strofe de Il Natale 1833, scritti a seguito dei gravi lutti familiari.
La struttura interna degli Inni è genericamente divisibile in due: la prima parte rievoca l’evento, l’alta commenta con riflessioni di ordine morale e religioso. Ma la fusione tra questi due momenti non ha luogo nei primi inni. Più riuscito è La Pentecoste, che presenta un discorso poeticamente unitario ed è più libero dai frequenti riferimenti ai testi sacri che rendevano difficile la lettura degli altri Inni. Essi in realtà si presentano come manifestazione del sincero entusiasmo del neoconvertito, laddove La Pentecoste è specchio di un definitivo chiarimento ideologico, dopo un forte travaglio spirituale.
I primi inni presentano infatti ancora qualche residuo giansenistico: Dio è visto al di sopra dell’uomo; mentre nel La Pentecoste è dentro di lui: essa è portatrice di quella tesi morale, che sarà alla base de I Promessi Sposi.
LE TRAGEDIE
L’interruzione degli Inni sacri si accompagna ad un momento di crisi spirituale, in cui si accentua l’amara coscienza della debolezza umana, della sua incapacità di realizzare la giustizia nella storia. Da questa coscienza nascono le tragedie manzoniane: Il Conte di Carmagnola e L’Adelchi. Esse si propongono come modello di un nuovo teatro, di ispirazione cristiana e storica, da contrapporre alla tragedia classicista e alfierana. Ecco le principali novità del teatro manzoniano: il rifiuto delle unità del teatro classico – primariamente quella di luogo e di tempo – in nome della libertà creatrice; l’introduzione dei cori, come momento di riflessione morale, politica o religiosa, una sorta di parentesi in cui si dispiega liberamente la voce del poeta; il fatto che il poeta, dopo aver presentato una cornice storica, debba calarsi nell’animo dei protagonisti, ricostruendo dall’interno il loro comportamento.
Nelle due tragedie si manifesta lo sgomento del credente di fronte ad una storia che è trionfo dell’ingiustizia e della violenza e il suo sforzo di trovare una giustificazione superiore alla sconfitta dei giusti e degli innocenti.
Il Conte di Carmagnola rappresenta la figura di un capitano di ventura del XV secolo, Francesco Bussone, detto il Carmagnola dal paese d’origine, che, passato dal servizio ai Milanesi a quello dei Veneziani, guida questi ultimi alla vittoria contro i Visconti. Nella decisiva battaglia di Maclodio nel 1427, il Carmagnola lascia liberi i prigionieri, destando i sospetti del senato di Venezia, che lo condanna a morte. Il pensiero della giustizia divina lo conforta a sopportare l’ingiusta condanna. La trama è quindi storica, ma gli interessi dell’autore sono per gli aspetti morali: come può accordarsi un atto di generosità – la liberazione dei prigionieri – con le ferree leggi politiche?
Nel coro che commenta la battaglia di Maclodio (1427), “S’ode a destra uno squillo di tromba”, Manzoni fa sentire la sua riprovazione per le guerre che contrappongono Italiani ad Italiani – Milanesi e Veneziani – deprecando le contese fratricide ed auspicando la rinascita di uno spirito fraterno tra i popoli.
L’Adelchi, preceduta da un attento lavoro di ricostruzione storica (i cui risultati confluirono in Discorso sopra alcuni punti della storia longobarda in Italia; 1822) rievoca episodi degli ultimi due anni (772-774) della dominazione longobarda in Italia. Carlo Magno, re dei Franchi, ripudia la moglie Emengarda, che è riaccolta dal padre Desiderio, re dei Longobardi, e dal fratello Adelchi. Ma il primo pensa solo a vendicarsi dell’affronto recato a lui, mentre il secondo comprende il dolore della sorella e la conforta. Intanto Carlo accorre in aiuto del pontefice, le cui terre sono state occupate da Desiderio. I duchi longobardi si affrettano a schierarsi dalla parte del re dei Franchi, tradendo desiderio, che viene fatto prigioniero. Adelchi e Emengarda, che vivono il contrasto tra ideale – la pace e la gloria per il primo, l’amore per la seconda - e reale, moriranno, trovando finalmente la pace nella tomba. Anche in questa tragedia la storia è contemplata attraverso il dramma dei protagonisti.
Particolarmente notevoli sono i due cori della tragedia: nel primo, “D’agli atri muscosi”, l’esultanza degli Italiani alla sconfitta dei Longobardi è amaramente commentata con la previsione dell’imminente servitù ai Franchi, perché non si può sperare la libertà che da se stessi; nel secondo, “Sparsa le trecce morbide”, la morte di Emengarda è consolata dalla certezza del premio celeste perché il dolore e la sofferenza purificano.
Le tragedie manzoniane presentano due serie di personaggi: gli uni hanno il senso concreto della realtà e sono capaci di agire sordi alle voci del cuore – come i senatori veneziani, Carlo e Desiderio - ; gli altri, invece, vivono per alti e nobili ideali, comprendono le angosce e le sofferenze altrui, si tormentano tra la realtà e sogni generosi, trovando solo nella morte la piena realizzazione della loro travagliata personalità – come il Carmagnola e il suo amico Marco, combattuto tra il suo ruolo di senatore e l’affetto per Francesco, Adelchi ed Emengarda - . Esse sono frutto di un pessimismo di stampo giansenista, che trova il suo sigillo nell’affermazione finale di Adelchi, che è meglio nascere oppressi piuttosto che oppressori, perché solo chi vive fuori dalla storia attiva non è costretto dalla tragica necessità del male.
LE ODI
Nell’ambito della poesia civile, Manzoni aveva esordito con Aprile 1814 (scritto in occasione della caduta dell’impero napoleonico in Italia) e Il Proclama di Rimini (non terminata; ispirato al tentativo di Murat di opporsi al rientro degli Austriaci e di difendere l’indipendenza del napoletano). Si tratta però di due prove mediocri dal tono retorico.
L’entusiasmo dei moti carbonari lo porta nel ’21 a tornare alla poesia civile: compone così Marzo 1821 e Il 5 maggio.
Marzo 1821 fu scritta in occasione dei moti del ’21 quando i Piemontesi sembravano pronti a varcare il Ticino per accorrere in aiuto ai Lombardi. Il poeta con la fantasia precorre gli avvenimenti, che prenderanno tutt’altra piega (con la sconfessione di Carlo Alberto da parte di Carlo Felice), per esaltare la libertà, dono di cui Dio stesso è garante, ma che si può conquistare solo con il sacrificio: è un incitamento per gli Italiani, che diventa però un messaggio valido per tutti gli uomini.
Il cinque maggio, come l’ode precedente supera gli eventi storici per collocarsi su un piano umano e religioso: il poeta si accosta a Napoleone, nel dolore e nella solitudine dell’esilio. Manzoni scorge accanto al grande condottiero la presenza della Fede, che gli consente di sopportare la sventura, offrendolo pacificato alla morte. Da qui la convergenza con le tragedie: dalla delusione della gloria e della potenza terrena deriva il rifiuto del passato ed una speranza che può realizzarsi solo nell’aldilà.

I PROMESSI SPOSI
Il capolavoro manzoniano ebbe una lunga gestazione, che portò alla pubblicazione di tre diverse edizioni. Nato dietro la suggestione della lettura delle storie milanesi di Giuseppe Ripamonti (1573-1643) e di Melchiorre Gioia (1767-1829), dopo la prima redazione, apparsa nel ’21, il Fermo e Lucia, si accinse subito ad una seconda edizione, pubblicata nel ’27. L’anno successivo si trasferì in Toscana, dove soggiornò per qualche tempo, “per risciacquare i panni in Arno”. Dette cioè inizio ad un processo di revisione linguistica, per espellere dall’opera gli elementi linguistici lombardi e forgiare un modello ideale d’italiano, che allora egli identificò con il fiorentino parlato dalle classi colte. Questo lungo lavoro di lima durò ben dodici anni e si concluse con la pubblicazione a puntate tra il ’40 e il ’42 della terza redazione, che è quella che leggiamo oggi. Essa era completata da un’appendice, la Storia della colonna infame, in cui è descritto un processo agli untori avvenuto durante la famosa peste.
Il Fermo e Lucia (1821-1823) manca della profondità spirituale che nella sua veste definitiva: è ancora un frutto acerbo. Assai meno efficaci sono i nomi degli stessi personaggi: ad esempio, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella si chiamavano Fermo Spolino e Lucia Barella. La storia della monaca di Monza aveva uno sviluppo molto più esteso, addirittura eccessivo; Don Rodrigo moriva in modo melodrammatico, lanciandosi fuori dal lazzaretto con grandi urla su un bianco cavallo, che lo riportava cadavere. Si tratta di una serie di concessioni al gusto romantico, che poi Manzoni ridusse per una più meditata coscienza realistica. Inoltre le singole parti dell’opera sono scarsamente integrate tra loro: soprattutto le storie di Gertrude e del Conte del Sacrato appaiono romanzi entro il romanzo. Inoltre, vi sono forti echi della concezione giansenistica: i personaggi sono divisi in due blocchi distinti, i buoni e i cattivi.
La seconda redazione, la ventisettana, si differenzia dalla successiva esclusivamente dal punto di vista linguistico.
I Promessi sposi sono un romanzo storico, secondo il modello iniziato dallo scozzese Walter Scott ed imitato dai romantici: su uno sfondo di episodi realmente accaduto e di personaggi realmente accaduti, si dipana una trama di episodi e personaggi creati dall’autore. Manzoni ambienta il suo romanzo nel ‘600 milanese, segnato dal malgoverno spagnolo, dalla calata dei lanzichenecchi, dalla carestia e dalla peste: su questo sfondo si svolge la vicenda dei due giovani popolani, Renzo e Lucia, vicenda che, nelle intenzioni dell’autore, vuole rappresentare l’eterna vicenda della vita. Il grande affresco mostra umili schiacciati dalle angherie dei potenti; ma su questa desolante e pessimistica visione si innalza la possibilità del riscatto: di fronte al male, non bisogna cedere ma resistere e lottare, fiduciosi nell’aiuto della Provvidenza. Il dolore è una prova di benedizione celeste: Renzo e Lucia riusciranno infatti a coronare il loro sogno d’amore. Al pessimismo passivo dell’Adelchi si contrappone un pessimismo attivo, che sa trovare sulla terra il meritato premio per la fede che mai si arrende. E’ questa la convinzione che emerge alla conclusione del libro, noto come “il succo di tutta la storia” .
I principali personaggi sono realisticamente disegnati, ma al contempo sono modelli assoluti di comportamento religioso e morale, in senso negativo o positiva. Lucia e Padre Cristoforo sono le forme in cui l’autore più palesemente cala la sua concezione etico-religiosa: in entrambi si riscontra la necessità di vivere la propria esistenza nella certezza della costante presenza divina accanto a noi. La personalità e l’umanità dei singoli personaggi si arricchisce dal contatto con gli altri personaggi, costituendo così un quadro completo della vita umana.
Una delle grandi conquiste dell’arte manzoniana, nel passaggio al romanzo, è la capacità di comprendere l’umanità media, che esprime insieme le virtù ed i difetti, le speranze e le debolezze degli uomini comuni. Da qui discende anche l’originalità del tono, esempio unico nella nostra letteratura: egli trova nell’umorismo la capacità di rappresentare ed insieme comprendere la debolezza umana e l’imperfezione del reale.
I Promessi sposi sono l’opera in cui più profondamente ed esplicitamente si realizza l’ideale dei nostri romantici di una letteratura popolare nei contenuti e negli indirizzi. Il realismo manzoniano è soprattutto capacità di inquadrare e rappresentare la vita ed i sentimenti delle classi umili, sentite come espressione di un’umanità più vera e sincera, anche se apparentemente ingenua ed elementare. Ma questa ingenuità è anche intuizione istintiva del lato più significativo dell’esistenza, consistente nei valori di carità, di amore, della famiglia. Proprio il motivo della famiglia è al centro della tematica sociale del romanzo: la famiglia degli umili come nodo di affetti semplici e sinceri, contrapposti alla famiglia dei nobili, fondata sui falsi ideali della potenza e della ricchezza.
Manzoni si fa così interprete delle opinioni di quei romantici, che sentivano l’esigenza di fare la storia di coloro che passavano sulla terra senza lasciare traccia di sé. I Promessi sposi sono così un’opera profondamente innovativa, in quanto introducono nella nostra letteratura, da secoli espressione delle classi dominanti, l’interesse per le classi popolari.
La vita degli umili è vista alla luce degli ideali del Vangelo: proprio perché sono vittime dell’eterna violenza della storia, sono i più vicini a Dio. Ma la simpatia per gli umili si accompagna alla sfiducia di una reale possibilità di riscatto: la dimensione in cui si realizzano pienamente è quella familiare, mentre è impossibile che essi riescano ad agire sul piano della storia ufficiale. La simpatia per gli umili si sposa, in Manzoni, ad un atteggiamento paternalistico, mentre è assente qualsiasi concessione allo spirito socialista.
La novità del romanzo manzoniano è anche data dalla scelta del genere del romanzo storico; fra l’altro la il carattere verisimile della storia è ribadito con un escamotage: l’autore finge di aver ritrovato un canovaccio del seicento in cui è documentata la vicenda. Ma indipendentemente da questa finzione, il ‘600 rivive attraverso un attento lavoro di ricostruzione; ma è anche simbolo delle eterne contraddizioni della società umana, oltre che allusivo, dietro gli spagnoli, del governo austriaco in Italia.
Ma su questo quadro fosco, calerà la peste, che svolge quasi una funzione riequilibratrice, arricchendo la meditazione sul destino umano.
SCRITTI STORICI E MORALI
L’interesse manzoniano per la storia si manifesta in alcune opere specificamente storiche, nate dalle ricerche condotte sulle epoche, in cui intendeva ambientare le sue opere letterarie. E’il caso del Discorso sopra alcuni punti della storia longobarda, contemporaneo all’Adelchi, in cui sostiene la debolezza del regno longobardo e il ruolo positivo del papa nella storia politica italiana.
Legata ai Promessi sposi è invece la Storia della colonna infame, in cui emerge la condanna ai giudici che perseguitarono degli innocenti.
Manzoni ha anche scritto il Saggio comparativo sulla rivoluzione francese del 1789 e quella italiana del 1859, incompiuto e pubblicato postumo: alle stragi e la violenza francese si oppone la soluzione cavouriana, che portò al raggiungimento della vera libertà.
Gli interessi di carattere religioso confluiscono invece nelle Osservazioni sulla morale cattolica (1819), in cui si difendono i principi della morale cattolica e se ne esalta l’eccezionalità spirituale. L’opera, nata da una polemica con lo storico ginevrino Sismondi, che aveva accusato la morale cattolica di essere la causa della decadenza dei costumi sociali, ebbe una seconda edizione nel ’55, in cui però la disputa assume toni più esteriori e generici.
GLI SCRITTI LINGUISTICI
E LA QUESTIONE DELLA LINGUA
L’esigenza romantica di una lingua viva e parlata, aderente alla realtà trovò espressione ne I Promessi sposi. Era intenzione del Manzoni però comporre una trattazione organica sulla questione della lingua, in un trattato dal titolo Della lingua italiana. Ne rimane un solo frammento, pubblicato nel ’23, con il titolo Sentir messa.
Le sue concezioni sulla lingua sono espresse in molti scritti, composti in prevalenza dopo l’unità d’Italia Tra questi scritti ricordiamo: la lettera a Giacinto Carena Sulla lingua italiana (1850); la relazione al ministro Broglio Dell’unità della lingua italiana e dei mezzi per diffonderla(1868); le lettere al Bonghi (1868) e al marchese Casanova (1871).
La soluzione manzoniana non si discosta da quella adottata nel romanzo, che divenne modello per la successiva produzione letteraria italiana.
E’ pur vero però che la sua proposta non poteva applicarsi alla realtà, perché innalzava a lingua nazionale un linguaggio municipale (il fiorentino) e proprio di una ristretta cerchia sociale (la borghesia colta): queste furono le obbiezioni mosse dal più grande glottologo italiano Isaia Graziadio Ascoli nel 1783.
1 Il Giansenismo sostiene che l’uomo non può salvarsi con le sue sole forze: è l’imperscrutabile grazia di Dio a destinare alla salvezza o alla dannazione.
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