De Clementia di Seneca, parte V

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Testo

Autore: Seneca
Opera: De Clementia – V
Traduzione:Daesty

LATINO
1. Ergo quemadmodum religio deos colit, superstitio violat, ita clementiam mansuetudinemque omnes boni viri praestabunt, misericordiam autem vitabunt; est enim vitium pusilli animi ad speciem alienorum malorum succidentis. Itaque pessimo cuique familiarissima est; anus et mulierculae sunt, quae lacrimis nocentissimorum moventur, quae, si liceret, carcerem effringerent. Misericordia non causam, sed fortunam spectat; clementia rationi accedit.
2. Scio male audire apud imperitos sectam Stoicorum tamquam duram nimis et minime principibus regibusque bonum daturam consilium; obicitur illi, quod sapientem negat misereri, negat ignoscere. Haec, si per se ponantur, invisa sunt; videntur enim nullam relinquere spem humanis erroribus, sed omnia delicta ad poenam deducere. 3. Quod si est quidnam haec scientia, quae dediscere humanitatem iubet portumque adversus fortunam certissimum mutuo auxilio cludit? Sed nulla secta benignior leniorque est, nulla amantior hominum et communis boni attentior, ut propositum sit usui esse et auxilio nec sibi tantum, sed universis singulisque consulere. 4. Misericordia est aegritudo animi ob alienarum miseriarum speciem aut tristitia ex alienis malis contracta, quae accidere immerentibus credit; aegritudo autem in sapientem virum non cadit; serena eius mens est, nec quicquam incidere potest, quod illam obducat. Nihilque aeque hominem quam magnus animus decet; non potest autem magnus esse idem ac maestus. 5. Maeror contundit mentes, abicit, contrahit; hoc sapienti ne in suis quidem accidet calamitatibus, sed omnem fortunae iram reverberabit et ante se franget; eandem semper faciem servabit, placidam, inconcussam, quod facere non posset, si tristitiam reciperet.

ITALIANO
[1] Dunque, allo stesso modo in cui la religione venera gli dèi, la superstizione li offende, così tutti gli uomini buoni mostreranno clemenza e mitezza, ma eviteranno la compassione: essa, infatti, è il vizio di un animo piccino, che viene meno alla vista dei mali altrui. Pertanto, essa è ben familiare agli uomini più vili: sono le vecchiette e le donnicciole che si lasciano commuovere dalle lacrime dei peggiori criminali e che, se potessero, forzerebbero le porte del carcere. La compassione non guarda al motivo della sorte, ma alla sorte stessa: la clemenza, invece, si regola secondo la ragione. [2] So che presso gli ignoranti la setta degli Stoici ha una cattiva reputazione, perché viene giudicata troppo dura e incapace di dare buoni consigli a prìncipi e re; le si rimprovera di negare che il saggio provi compassione e che perdoni. Queste tesi, se considerate di per sé, sono odiose: sembra, infatti, che non lascino alcuna speranza agli errori umani, e che sottopongano a castigo ogni colpa. [3] Se è così, che ordina di disimparare l’umanità e chiude completamente il porto più sicuro che ci sia contro gli assalti della fortuna, quello dell’assistenza reciproca? Ma in realtà nessuna setta è più benevola e più mite, nessuna è più amante degli uomini e più attenta al bene comune, al punto di porsi come fine quello di essere utile, quello di essere d’aiuto, e di provvedere non soltanto a sé, ma anche a tutti in generale e a ciascuno in particolare. [4] La compassione è una malattia dell’animo derivante dalla visione delle miserie altrui, o una tristezza causata dai mali altrui, poiché si crede che essi accadano a persone che non se li meritano; ma una tale malattia non si verifica nel saggio: la sua mente è serena, e non le può accadere nulla che riesca ad offuscarla. E niente si addice all’uomo tanto quanto la grandezza d’animo: ma l’animo non può essere grande e insieme triste. [5] La tristezza percuote lo spirito, lo abbatte, gli causa una stretta: questo non accadrà al saggio neppure in occasione delle sue sventure, ma egli rintuzzerà ogni collera della fortuna e la spezzerà davanti a sé; conserverà sempre il medesimo volto tranquillo e impassibile, cosa che non potrebbe fare se accogliesse in sé la tristezza.

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