I Vociani

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura Italiana

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Testo

I VOCIANI

NASCITA E PROGETTO DELLA VOCE

Le avanguardie storiche. In tutta Europa, i primi decenni del Novecento sono segnati dalla nascita delle cosiddette “avanguardie storiche”-Espressionismo, Futurismo, Dadaismo e Surrealismo-, che introducono nell’arte e nella letteratura di inizio secolo novità dirompenti e segnano una svolta e una frattura, rispetto al passato anche prossimo, per quanto concerne la teoria, la produzione e la ricezione dell’opera d’arte.
Le avanguardie sono caratterizzate da alcuni aspetti comuni: esse si pongono infatti, pur con peculiarità diverse, in opposizione tanto al Naturalismo e alla sua concezione dell’arte come riflesso oggettivo della realtà, quanto all’estetismo, con la sua aristocratica chiusura nella contemplazione dell’ “io” o nel vagheggiamento di una vita intesa come opera d’arte. Le avanguardie condividono inoltre:
- una concezione di arte totale, in cui comunicano tra loro e si contaminano tutte le arti (pittura, musica, teatro, letteratura e così via);
- un’idea dell’arte intesa come produzione materiale di oggetti, come sperimentazione di tecniche in perenne trasformazione, come réclame, happening o spettacolo, come provocazione;
- una concezione della produzione artistico-letteraria non come opera di un singolo, ma come creazione di un gruppo o di una collettività che si pone in costante comunicazione e scambia esperienze a livello internazionale con altri gruppi artistici e altre collettività.

Un mondo nuovo Non c’è dubbio, comunque, che una forte carica iconoclasta, una violenza aggressiva ed eversiva, volta a rivoluzionare e non semplicemente a modificare innovando dall’interno, costituiscano l’elemento distintivo delle avanguardie: si pensi al Futurismo italiano, al forte significato dissacratorio delle affermazione marinettiane nel Manifesto di fondazione (1909), tra cui il proposito di distruggere biblioteche e musei, vale a dire i luoghi istituzionali della cultura tradizionale. Naturalmente il significato profondo che sta dietro a tutto questo è un nuovo senso del mondo o, se si preferisce, il senso da dare a un mondo nuovo, sconvolgente ma anche affascinante nel suo repentino mutamento, per esprimere e interpretare il quale appaiono del tutto inadeguati non solo i modi, ma anche i segni superstiti del passato.

I vociani. Contemporaneamente alla chiassosa e rivoluzionaria avanguardia futurista si forma e cresce in Italia un gruppo di intellettuali che, pur senza condividere il tema della morte e dell’arte- e quindi della parola e della memoria- e rifiutando, anzi, il culto adorante della modernità proprio dei futuristi, esercita un ruolo non meno essenziale né meno innovatore: i vociani.
Con il termine “vociani” si è soliti definire un gruppo di pensatori, scrittori e poeti, nati per lo più verso la fine dell’Ottocento, che intorno agli anni dieci del Novecento sono protagonisti di un’esperienza di fondamentala importanza nel panorama culturale e letterario italiano: la collaborazione alla rivista “La Voce”, fondata alla fine del 1908 a Firenze per iniziativa di Giuseppe Prezzolini (1882-1982).
Il titolo della rivista ha valore programmatico in quanto manifesta l’intenzione di dare voce a una generazione di giovani intellettuali che, travagliati da una profonda inquietudine e mossi da impazienza e insoddisfazione nei confronti del presente, avvertono sia n bisogno di rinnovamento, sia l’ansia di staccarsi dagli ideali dei “padri”. Le parole di un giovanissimo Giovanni Papini (1881-1956), che con Prezzolini condivide un ruolo di capofila nell’avventura delle riviste del primo Novecento, tracciano una sorta di ritratto generazionale (la testimonianza risale al gennaio del 1900):
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Fasi e obiettivi della rivista. E’ da questa crisi di identità, da questo sgretolarsi dei valori etici e culturali del passato e, conseguentemente, dall’esigenza di novità e innovazione, anche a livello di sperimentazione espressiva, che occorre prendere le mosse se si vuole comprendere come alla base dell’avanguardia futurista e di quella parallela della “Voce” vi siano istanze identiche e il medesimo disagio nei confronti sia della tradizione sia del tempo presente. E occorre anche precisare a questo punto che “La Voce”, nel progetto di Prezzolini, non è soltanto una rivista letteraria, ma un modo per dare visibilità pubblica a una sorta di “partito degli intellettuali”, come ha giustamente osservato il critico Alberto Asor Rosa.
La rivista conosce diverse fasi che noi, semplificando, riduciamo alle due fondamentali. La prima fase (1908-14), diretta da Prezzolini con una forte impronta di moralismo e di pedagogismo, insiste sul valore di uno strenuo lavoro intellettuale e su un impegno di concretezza ed è contrassegnata dalla volontà di legare insieme cultura e letteratura, politica e vita vissuta, sull’esempio dei tentativi del “Caffè” (1764-66) e del “Conciliatore” (1818-19), rappresentando secondo alcuni il primo vero e proprio Romanticismo italiano.
La seconda (1914-16), diretta da Giuseppe De Robertis (1888-1963), tutta ripiegata nell’ambito esclusivo delle lettere, lascia cadere il progetto di una cultura militante ed esprime l’esigenza di costituire una specie di laboratorio per le nuove esperienze della letteratura. E in effetti “La Voce”, in particolare dal 1912 in poi, stimola la nascita di un tipo di letteratura e di uno stile nuovi rispetto ai modelli e alle forme letterarie tradizionali.

Un’immagine di gruppo. Vi sono tre dati da sottolineare: la provenienza geografica eterogenea di questi scrittori, che sono triestini, liguri, piemontesi, milanesi e anche, ma non esclusivamente, toscani e fiorentini; la drammaticità e l’esito tragico che spesso segnano la loro esistenza (dal suicidio alla morte precoce in guerra, dalla follia e dall’internamento in manicomio a drammatiche conversioni religiose e a drastici mutamenti di vita non esenti da abiure letterarie). I nomi sono tra i più significativi della letteratura di punta di quegli anni sono: il triestino Scipio Slataper, i toscani Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Emilio Cecchi, Aldo Palazzeschi e Dino Campana, il milanese Clemente Rebora, i liguri Giovanni Boine, Camillo Sbarbaro e Piero Jahier, il goriziano Carlo Michelstaedtler, il romagnolo Renato Serra.

Il frammento e il rifiuto del romanzo. I caratteri distintivi della produzione letteraria vociana sono riassumibili con quattro parole chiave: frammentismo, eticità, autobiografismo ed espressionismo.
Con frammentismo si intende la predilezione che gli scrittori vociani manifestano verso il frammento, considerato, sia nella scrittura poetica sia in quella prosastica, una delle forme più autentiche di espressione per la sua capacità di attingere al tempo stesso immediatezza e forza rappresentativa. Questa scelta si pone in contrasto polemico rispetto al romanzo, un genere che gli scrittori della “Voce” rifiutano quale logora eredità di un passato da cui si sentono lontani e che trovano del tutto inadatto, nella sua compatta e compiuta costruzione architettonica e nella sua presunzione di rappresentare la Realtà, a esprimere la loro visione della vita e del mondo.
La visione dei vociani è dominata infatti dalla drammatica coscienza della inconoscibilità del reale, da una tumultuosa e non decifrabile interiorità, da una sfiducia nelle possibilità cognitive e ordinatrici della scienza positivista e, più in generale, in un approccio esclusivamente razionale alla realtà. Il gruppo dei vociani respinge tanto il romanzo naturalista e verista (rappresentato da Verga e dai suoi continuatori) quanto quello simbolista di D’Annunzio (si pensi soprattutto al Piacere, 1889) e di altri narratori neoromantici che su quella scia si pongono. Il modello dannunziano, in particolare, impregnato di letterarietà e fondato sull’ambigua contaminazione di arte e vita, lungi dal rivelare ai vociani quei caratteri di modernità che sarebbero parsi chiari ai lettori di generazioni successive, ripugna profondamente alla serietà e alla radicata eticità di questo gruppo di scrittori. Gli autori della “Voce”, infatti, eleggono il frammento come la forma più idonea a esprimere, tramite illuminazioni momentanee catturate e fermate nella pagina breve, la loro acuta e lacerante consapevolezza della frammentazione esistenziale e della finitezza del soggetto, collocato in un divenire magmatico e in una trama sfilacciata di giorni.

Il senso etico dell’esistenza. La seconda delle parole chiave con cui si sintetizza la letteratura vociana -eticità- è in realtà profondamente legata sia al frammentismo sia all’autobiografismo. Con eticità si intende l’intima disposizione di questi scrittori alla serietà e al’impegno etico e intellettuale rigoroso, il loro sforzo di travagliata chiarezza, l’aspirazione alla coscienza lacerata a riscattare il caos dall’assenza di senso, a dargli faticosamente forma. Conseguentemente, comune è un’idea di scrittura che, per dirla con uno degli esponenti più riflessivi del gruppo, il pensatore e poi uomo politico Giovanni Amendola, eserciti il suo e non sia esercizio gratuito e leggero, >. Il senso etico vociano presuppone un forte e appassionato slancio vitale, un vero amore per la vita, mai incline all’edonismo, mai disgiunto da una sentita istanza di verità, autenticità e onestà intellettuale: tratti, questi, particolarmente evidenti in Serra, Sbarbaro, Redora, Boine, Michelstaedter, ma in realtà propri dell’intero gruppo.

L’autobiografismo. E’ stato osservato che una sensibilità simile, non può che tendere naturalmente, per così dire “strutturalmente”, alla confessione, all’esame di coscienza, all’autobiografia. E d’altra parte il frammentismo, forma espressiva prediletta dai vociani, è quasi sempre autobiografico, poiché l’unica realtà che è possibile percepire è quella che appare al soggetto e che è, appunto perciò, disarticolata e frammentata come le diverse esperienze ed esistenze. Ed eccoci allora alla terza parola chiave: l’autobiografismo, a cui, attraverso percorsi individuali anche fortemente divergenti, pervengono quasi tutti i protagonisti del clima vociano. L’autobiografismo del gruppo, però, ha caratteri propri che lo differenziano sia da quello romantico di un Foscolo o di un Leopardi, sia da quello realistico, positivamente fedele ai fatti e ai dati concreti: per definirne la natura, tutta volta all’analisi interiore, a istituire un’identità tra vita etica e vita personale, a rinvenire , i critici hanno fatto ricorso a formule come autobiografismo , o (G. Contini), (C. Martignoni), intendendo così significare che la vicenda autobiografica dell’individuo si trascende sino all’anonimato nella più vasta storia degli uomini, entro cui il sacrificio e la sofferenza del singolo non sono rimossi né vanno perduti, ma confluiscono in un più vasto affresco all’interno del quale troviamo un senso e, forse, un riscatto.

La prosa lirica. Il frammentismo autobiografico vociano assume diverse forme, tra cui la più rappresentativa è il poème en prose (letteralmente, “poesia in prosa”).
La prosa lirica, già sperimentata da Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé, fiorisce nella letteratura italiana nel primo ventennio del Novecento, dai Canti orfici (1914) di Campana ai Trucioli (1920) di Sbarbaro ( senza dimenticare il precedente delle Faville dannunziane, 1911-14), fondendosi con il gusto del frammento vivo nell’ambito degli scrittori vociani. Caratterizzano questa poetica: il superamento della distinzione tra prosa e poesia; la brevità; il linguaggio basato su immagini rapide e incisive, conciso, anche se non privo di suggestioni liriche e musicali ( ottenute con l’iterazione o la valorizzazione del significante isolato); la forte allusività metaforica, ai limiti dell’oscurità; la destrutturazione sintattica e la disarticolazione narrativa. La prosa lirica vociana inclina, a seconda degli autori, verso due differenti opzioni stilistiche: da un lato l’impressionismo, con il suo gusto per il pittorico e la sua tendenza ad accogliere colori e sfumature; dall’altro l’espressionismo, con il suo linguaggio iconoclastico e concentrato e tuttavia tramato di suggestioni liriche e musicali, con il suo deliberato disordine strutturale ( alogicità, incongruenze temporali, discontinuità) e con la sua forte allusività, a provocare talora effetti non disdegnati di oscurità, con il suo gusto per il deformante, il violento, l’eccessivo.

L’espressionismo. E’ senza dubbio la scelta dell’espressionismo – quarta parola chiave- quella che porta la produzione vociana agli esiti più alti e soprattutto di maggiore novità e interesse.
Il termine “espressionismo” incomincia a essere usato in Germania intorno al 1910 per designare alcune esperienze artistiche di avanguardia in campo pittorico, letterario e musicale. In senso generale, ciò che lo caratterizza è una volontà di rottura con le consuete forme di comunicazione borghese, una violenta infrazione di ogni convenzione naturalista, una dissoluzione degli equilibri e delle norme estetiche tradizionali. Trovano così accoglienza temi già emersi nel Romanticismo, che ora vengono però esasperati : l’ossessione del dolore, della distruzione, della morte; la predilezione per il brutto, il deforme, la corporeità, che si riflettono in un linguaggio stravolto e sconvolto, a livello sintattico, lessicale e narrativo, da una ricerca di espressione autentica, che abbatte e annulla gli antichi e codificanti confini dei generi letterari, creandone, di fatto, altri e dando luogo a nuove possibilità formali e a nuovi linguaggi.
Tra gli “espressionisti” si collocano gli scrittori della “Voce” di più intensa eticità, che si caratterizzano per un radicale impegno etico, sia a livello di intransigente moralità personale, sia in rapporto a un ordine più vasto, corale, costituito dagli altri uomini, per i quali profondono il loro patrimonio conoscitivo. Appartengono all’area dell’”espressionismo” vociano, ad esempio, Jahier, Slataper, Boine e Rebora.

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