Giucciardini e Tasso

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Testo

Idealismo e realismo in Machiavelli e Guicciardini. Dopo aver evidenziato nel pensiero del Guicciardini l’assenza di ogni idealismo sottolineate come la sua concezione della vita e dell’uomo sia più pessimistica di quella del Machiavelli e, come tale, prefiguri la fine del Rinascimento. Nell’analisi fate espresso riferimento ai “Ricordi” che riguardano la concezione dell’uomo, della Fortuna e di Dio.

La morale del Guicciardini può essere sintetizzata in un termine usato con un valore quasi tecnico: il “particulare”, cioè l’interesse o utile proprio. Mancata ogni fede nella possibilità di modificare il corso delle cose, ridotta la politica ad analisi attenta del singolo fatto, considerata la storia, un intreccio d’acri egoismi, non resta all’uomo che perseguire il proprio utile o “particulare”, che può consistere nell’interesse proprio, ma anche nel bene dello Stato, nel conseguimento d’onori, nella capacità di “mantenersi la reputazione e il buon nome”. Questo senso dell’onore a bene operare, redime certo il culto del “particulare” da ciò che esso pare avere di troppo angusto, ma è pur vero che altre volte il Guicciardini attribuisce alla parola un significato di mera ambizione. Infatti, scrive che la considerazione dei vizi della Chiesa lo avrebbe indotto a farsi luterano, ma che per il suo “particulare” è restato nella religione tradizionale, e, nonostante odiasse il dominio dei preti e il predominio straniero, per lo stesso motivo si era adattato e si adattava sia all’uno che all’altro.
Così il Guicciardini è come un Machiavelli senza più entusiasmo; il che vuol dire poi che ambedue svelano apertamente la loro appartenenza al Rinascimento, poiché entrambi posseggono la stessa concezione naturalistica della vita e della storia, la stessa capacità di andare a fondo nel cuore e nell’intelletto degli uomini: virtù alimentate da tutto il corso della civiltà italiana dal Comune al Rinascimento.
Il rinchiudersi nel culto del suo “particulare”, con tutti i compromessi morali che esso comporta, ci spiega e rende ragione del giudizio severo pronunciato contro di lui dal De Sanctis, che critica sia eticamente che moralmente questo concetto, perché, secondo una lettura superficiale e non complessiva delle sue tematiche, sembra che egli si basi semplicemente sul proprio tornaconto personale e non sul tormento di chi talvolta amerebbe illudersi e non può, perché la fredda considerazione della realtà gli addita la vanità di tutte le speranze e l’inutilità di tutte le fedi. Ciò deriva dal fatto che il critico individua solo certi aspetti singoli ed è influenzato dalle idee della sua epoca, che si orienta su impegni sociali e civili.
Per comprendere ed argomentare le tesi dell’autore, bisogna analizzare i “Ricordi”, una serie di massime di politica e di morale, che sono l’opera di tutta la sua vita, e la loro storia è la storia stessa del suo pensiero, passato da una cerchia ristretta di osservazioni a una ricchezza più matura.
I pensieri del Guicciardini rivelano chiaramente quanto diverso fosse il suo animo rispetto a quello del Machiavelli. Quest’ultimo crede ancora possibile un rinnovamento della situazione italiana: tutto il Principe è mosso da questa fede, dall’attesa di un redentore. Egli, invece, non crede più, né spera; considera dall’alto della propria saggezza le innumerevoli miserie e vanità degli uomini. La storia è certamente opera esclusiva dell’uomo; ma è anche il frutto del combinarsi sempre diverso delle sempre diverse azioni dei sempre diversi uomini. Qualcosa di nuovo e imprevedibile, per il quale appare vana ogni pretesa costruttiva, ogni tentativo di muovere e guidare concretamente le vicende. Una dolorosa serietà e mestizia domina nelle pagine dei Ricordi, un pessimismo radicale. Machiavelli è l’ultima voce eroica nella storia italiana; col Guicciardini comincia il lungo periodo dell’inazione, in cui gli animi stessi (anche i più nobili e seri) consentono nell’intimo loro al servaggio.
Uno dei pensieri più tipici e più noti del Guicciardini è quello in cui, con maggiore incisività, si esprime un motivo che di continuo ritorna negli scritti dello storico: l’impossibilità di dettar leggi e principi generali, di ispirarsi alle vicende del passato, di dedurre dalla storia ammaestramenti e modelli per il futuro; l’impossibilità di ogni scienza politica. Alla virtù eroica ed attiva del Machiavelli subentra la discrezione passiva, cioè il discernimento, l’arte di distinguere tra i molteplici aspetti degli infiniti casi, per la difesa del proprio “particulare”. E’ quindi necessario valutare gli avvenimenti caso per caso, secondo quella che egli chiama “discrezione”.
“….grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente, e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione ed eccezione per la varietà delle circumstanze, in le quali non si possono fermare con una medesima misura; e queste distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su’ libri, ma bisogna lo insegni la discrezione…..”(fr.I°).
Alla realtà effettuale, che pare accomunare i due scrittori, troviamo affiancata, in Machiavelli, la realtà ideale, totalmente assente nel Guicciardini. E alcuni ricordi sono esplicitamente scritti contro il primo (“….quanto si ingannono coloro che a ogni parola allegano è romani!….fr.XVIII) ( “…..è fallacissimo giudicare per gli esempi, perché se non sono simili in tutto e per tutto, non servono….fr.XIX).
Col Guicciardini crolla il modello perfetto da imitare ed emulare e il concetto di “homo faber”.
Diretta conseguenza di questo pessimismo è sicuramente la sua considerazione sulle cupidigie ed ambizioni degli uomini, enunciata con quel tono saggio e distaccato che è tipico dei Ricordi. Una di quelle frasi che paiono suggerite da una moralità superiore, ma di fatto poi tolgono ogni forza di volere e di agire e conducono all’inerzia, allo scetticismo.
“……Io ho desiderato, come fanno tutti gli uomini, onore e utile; e n’ho conseguito molte volte sopta quello che ho desiderato o sperato; e nondimeno non v’ho mai trovato dentro quella satisfazione che io mi ero imaginato; chi bene la considerassi, potentissima a tagliare assai delle vane cupidità degli uomini…..”(fr.V)
Il suo pessimismo si ritorce anche sulla politica, argomento su cui l’autore è ambiguo, perché rappresenta le istanze conservatrici con tendenze meritocratiche e democratiche. Il frammento che meglio esprime il concetto di una politica lontana dal popolo è sicuramente il XXIV (“…..e spesso tra l’palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o un muro sì grosso…tanto sa el popolo di quello che fa chi governa…..”)
Un altro topos letterario molto importante per comprendere il pensiero del Guicciardini e rapportarlo ai predecessori è sicuramente quello della concezione della “Fortuna”.
Il peso che viene dato al caso è molto più grande rispetto al Machiavelli, il quale attribuiva a questo e alla virtù un campo d’azione abbastanza equilibrato. Manca totalmente la fiducia nelle capacità del singolo individuo che, per Giucciardini, non sa adattarsi alle varie situazioni ed è quindi preda del turbine che lo travolge.
“……chi considera bene, non può negare che nelle cose umane la fortuna ha grandissima potestà, perché si vede che a ognora ricevono grandissimi moti da accidenti fortuiti, e che non è in potestà degli uomini né a prevedergli né a schifargli: e benché lo accorgimento e sollicitudine degli uomini possa moderare molte cose, nondimeno sola non basta, ma gli bisogna ancora la buona fortuna…..” fr.30
“……Coloro ancora che, attribuendo el tutto alla prudenza e virtù, escludono quanto possono la potestà della fortuna, bisogna almanco confessino che importa assai abattersi o nascere in tempo che le virtù o qualità per le quali tu ti stimi siano in prezzo: come si può porre io esempio di Fabio Massimo, al quale lo essere di natura cunctabundo dette tanta riputazione, perché si riscontrò in una spezie di guerra, nella quale la caldezza era perniziosa, la tardità utile; in uno altro tempo sarebbe potuto essere el contrario. Però la fortuna sua consisté in questo, che e’ tempi suoi avessino bisogno di quella qualità che era in lui; ma chi potessi variare la natura sua secondo le condizione de’ tempi, il che è difficillimo e forse impossibile, sarebbe tanto manco dominato dalla fortuna…….”fr.31
Per quanto riguarda invece la religione, con Guicciardini si fa avanti una concezione medioevale, facciamo, quindi, un passo indietro. Ritornano infatti la secolare lotta tra bene e male, la presenza della giustizia divina e il suo ruolo di “abyssus mundia”. C’è quindi la crisi dovuta all’ignoranza dell’uomo dei progetti divini e della profonda intensità di Dio.
Critica inoltre il clero a causa della sua depravazione morale, corruzione e lassismo ed esprime un forte disagio nei confronti di questo, a cui si sente obbligato a partecipare soltanto per il suo principio del “particulare”.
“…..Io non so a chi dispiaccia più che a me la ambizione, la avarizia e la mollizie de’ preti: sì perché ognuno di questi vizi in sé è odioso, sì perché ciascuno e tutti insieme si convengono poco a chi fa professione di vita dependente da Dio, e ancora perché sono vizi sì contrari che non possono stare insieme se non in uno subietto molto strano. Nondimeno el grado che ho avuto con più pontefici, m’ha necessitato a amare per el particulare mio la grandezza loro; e se non fussi questo rispetto, arei amato Màrtino Luther quanto me medesimo:
non per liberarmi dalle legge indotte dalla religione cristiana nel modo che è interpretata e intesa communemente, ma per vedere ridurre questa caterva di scelerati a’ termini debiti, cioè a restare o sanza vizi o sanza autorità…..”
In conclusione, del Machiavelli, il Guicciardini fu amico e stette sempre con lui in buone relazioni, ma ne dissentiva non poco, come appare nelle “Considerazioni sui Discorsi del Machiavelli”. Non che ne diverga nelle idee di fondo e nei metodi di politica realistica, basata sull’osservazione obiettiva dell’uomo, bensì nelle applicazioni e nella ripugnanza ad una certa assolutezza di giudizi a cui si era lasciato andare il Segretario fiorentino nella foga dei suoi confronti fra gli antichi tempi e i nuovi. Il Guicciardini riconduce sempre il Machiavelli dalla teoria alla pratica e alla più minuziosa concretezza realistica. Certo è che, pur restando su un piano comune, i due pensatori sono assai diversi per tipo d’ingegno e per temperamento: dal momento che il segretario fiorentino mira alle idee sintetiche e vuol ricavare norme valevoli per sempre, l’altro si ferma alle singole contingenze e non vede al di là del caso per caso; l’uno concepisce l’uomo tutto sottomesso allo Stato (e rasenta la statolatria), l’altro tutto intento al proprio “particolare” (e sembra cadere nell’utilitarismo individualistico); l’uno si basa sulla “virtù”, l’altro asseconda la fortuna verso la quale non c’è da usare la forza ma la “discrezione”, (discernimento, fiuto). E si potrebbe continuare nelle contrapposizioni (Romani e no, unità d’Italia e no, milizie cittadine e no...). Troviamo sempre che hanno una maniera diversa e quasi opposta di considerare le cose ed hanno ragione entrambi. Forse Il Guicciardini è più acuto, più rigoroso del Machiavelli; ma quest’ultimo è più generoso e più appassionato, più idealista, e riesce a convincere e a trascinare di più. Niccolò Machiavelli e Francesco Guicciardini sono i due più grandi scrittori politici che il Rinascimento italiano abbia prodotto: essi indagano la storia con nuovi metodi e nuovi occhi e riescono profondamente artisti nella loro indagine perché danno un significato e un colorito proprio all’uomo e alla vita.
Mentre intorno a loro tutto è imitazione, magari geniale, ma pur sempre imitazione, essi ricavano direttamente dalla realtà le loro considerazioni di politica; anche se, per quel che riguarda il Guicciardini, la veste esteriore di cui abbigliò il suo pensiero, ha un tono perfettamente classico. Il Machiavelli è dei due figura più complessa e più simpatica: in lui l’osservazione della realtà è tale che da essa muove per andare incontro a potenti idealità, mentre il Guicciardini non vuole superare ciò che la realtà gli offre; e se questa realtà, se questa vita che egli sa vedere così acutamente è bassa ed egoistica, non si cura di sforzarla ed indirizzarla ad altri fui, ma trova nella bassezza e nell’egoismo degli altri la ragione e la conferma di quella che deve essere la pratica della vita per tutti.

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