Pirandello

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Testo

LUIGI PIRANDELLO

L’attenzione, con cui il maturo Decadentismo europeo guarda alla crisi dell’uomo moderno, smarrito fra i meccanismi alienanti della società e gli oscuri grovigli dell’esistenza individuale, diventa amara coscienza e giunge al grado più alto di lucidità analitica nell’opera di Luigi Pirandello.
Drammaturgo e narratore italiano, Pirandello, nasce in una località detta “Il Caos” presso Agrigento il 28 Giugno del 1867. Egli apparteneva ad una famiglia agiata nella quale era viva la tradizione patriottica e garibaldina e che si era costruita una fortuna con l’estrazione e il commercio di zolfo. Compì i suoi studi nelle università di Palermo, di Roma, e di Bonn dove si laureò in glottologie. Ritornato a Roma partecipò alla vita giornalistica e letteraria della capitale. Nel 1894 sposò la figlia di un socio del padre, Antonietta Portulano, il matrimonio allietato dalla nascita di tre figli fu poi sconvolto dal dissesto finanziario della ditta del padre e più gravemente dalla malattia mentale della moglie. Per provvedere ai bisogni della famiglia lo scrittore fu costretto a dedicarsi all’insegnamento privato e alla pubblicazione di alcuni articoli. Queste difficoltà non riuscirono però a soffocare la sua attività irrequieta e complessa di scrittore e di studioso delle discipline più diverse. Scoprì infine nel teatro la sua vera vocazione. Infatti, percorse l’Europa e le due Americhe con la compagnia teatrale da lui fondata. Morì a Roma nel 1936. Vissuto in uno dei più tragici periodi storici della cultura europea, che va dalla crisi del Realismo fino al Decadentismo, Pirandello riuscì quasi sempre ad appartarsi, ad isolarsi in un mondo tutto suo, in una concezione tutta relativistica della vita, in modo da comprendere la crisi della civiltà borghese del suo tempo e da farsene il martire volontario. Quando egli esordì come scrittore, imperava ancora la moda naturalistica del Realismo, ma egli ne avvertiva subito la crisi, scoprendo attraverso l’analisi acuta della sua indagine psicologica che la vera realtà della vita non si può cogliere dai nostri sentimenti, ma da quel che c’è di più profondo nella nostra coscienza. Perciò egli instaura un nuovo metodo di narrativa, in cui il personaggio era scomposto e disgregato nei suoi elementi psicologici e nelle sue reazioni, limitate al tempo e alle circostanze; diventando così narratore di infiniti casi umani, di paradossali situazioni, in cui la vita si spoglia di ipocrisie singole e collettive, e viene fuori l’uomo come veramente è nella sua natura di povero essere, sospeso in un vuoto infinito, senza meta e senza approdo. Al di là dello stesso romanticismo veristico egli scopriva così la tragica inconsistenza dell’uomo in cui sono crollate tutte le illusioni e la possibilità stessa di poter pervenire alla verità assoluta, una per tutti. Dinanzi alla certezza scientifica dei positivisti, egli opponeva la sua teoria relativistica, secondo cui esistono tante verità quante sono gli uomini che le ricercano, anzi tante diverse verità nello stesso uomo mutabili nel tempo e nelle circostanze. Pirandello afferma che l’esistenza dell’uomo è una tragicomica vicenda di solitudine e di pena. Convinto che la realtà nel suo complesso non sia un “cosmos”, ma un “caos” dove nulla ha la consistenza dell’assoluto e del certo e tutto finisce in un gioco d’ombre illusorie e mutevoli. Egli esaspera le posizioni del vecchio relativismo scettico e nega che esistano nella vita morale principi validi per tutti: quel che appare a taluno un valore positivo è per altri artificio e menzogna. La verità oggettiva è un’illusione e un’illusione è pure l’unità della coscienza individuale, perché il cosiddetto “io” è un informe groviglio d’impulsi, che la ragione è impotente a dominare e ad ordinare nella coerenza di una definitiva personalità. L’uomo è naturalmente portato alla conoscenza; aspira a darsi conto delle cose e a penetrare i meccanismi del suo esistere; ma è proprio in quest’esigenza la prima radice della sua infelicità, giacché il risultato del suo travaglio conoscitivo è la scoperta dell’inconoscibilità del mondo esterno e del proprio essere. La posizione pirandelliana è dunque agli antipodi del mito positivista della scienza che tutto spiega e rischiara, e piuttosto s’inscrive nella linea del Decadentismo europeo più attento alla cifra del mistero esistenziale e alle plaghe dell’inconscio. Pirandello, in virtù di ciò, afferma che ciò che conosciamo di noi stessi è solo una parte, forse una piccolissima parte, di quello che noi siamo. Molto spesso noi sorprendiamo noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza, che sono oltre i limiti della nostra esistenza morale e cosciente. Incapace di conoscere un così proteiforme se stesso, l’uomo pirandelliano è a maggior ragione impotente a conoscere gli altri, come lui mutevoli e contraddittori negli atteggiamenti psichici; ed è condannato alla solitudine e all’incomunicabilità. Quest’immagine dell’individuo disgregato in una serie infinita d’incarnazioni effimere, e afflitto da una sensazione desolante d’estraneità e di non appartenenza al contesto civile, ha particolare risalto nel protagonista del romanzo “Uno, nessuno e centomila”, ma è sottesa a quasi tutta l’opera teatrale di Pirandello. Chiuso in se stesso come una monade e pur sollecitato da pratiche necessità al rapporto sociale, l’uomo pirandelliano è costretto ad indossare una maschera, ossia ad entrare in una forma, che gli altri, giudicandolo in base ad una sola delle sue molteplici possibilità comportamentali, gli assegnano o che egli stesso, in forza di circostanze particolari, s’impone, per sopravvivere. Ma la forma è un involucro meccanico sotto cui urge e s’ingorga il flusso della vita; e così che avviene che l’uomo mascherato soffra la situazione tragica del clown costretto a ripetere anche fuori del palcoscenico la sua parte. A volte, poi, la vita travolge in lui le forme fittizie e viene allo scoperto perentoria e trionfale: e allora è l’assassinio, o il suicidio, o la pazzia liberatrice. Come si vede, la visione pirandelliana dell’esistenza si connota per una sorta di pessimismo oltranzista. Strettamente correlata alla visione generale della vita è, in Pirandello, la concezione dell’arte. Per Pirandello l’arte, posta di fronte al reale, non deve essere uno specchio passivo (come nell’estetica verista), ma uno sguardo penetrante: non deve solo descrivere ma anche interpretare. Soprattutto deve smascherare, perché la vita sociale e individuale si svolge all’insegna dell’infingimento e della mistificazione. L’artista è dunque per Pirandello, un chiaroveggente: è colui che vede la maschera nuda dell’uomo e meglio d’ogni altro distingue fra l’autentico e il non autentico. A codesta chiaroveggenza che non ha alcun’ambizione d’alternativa salvifica (l’arte pirandelliana non apre prospettive alla speranza in un migliore destino della società e del singolo), si giunge, secondo Pirandello, attraverso l’umorismo, da lui concepito come una vera e propria categoria estetica. Egli volle essere sempre un artista. Un artista impegnato, portatore di un suo messaggio tra gli uomini, in opposizione ai miti convenzionali e ipocriti di una società borghese in decadimento. Nessuno più di lui, nel cinquantennio decadente italiano ed europeo, ebbe chiara la coscienza della crisi storica e morale della società industriale e alienata della macchina; nessuno più di lui seppe conservare, nell’isolamento, una genuina forza istintiva di scrittore polemico e senza compromessi morali. Il saggio su l’Umorismo è il documento più puro della sua concezione della vita e del mondo, una specie d’autobiografia psicologica ed estetica. Esso era un’opera di chiarificazione interiore e morale in cui Pirandello tentava di definire i limiti della sua poetica distinguendo il comico (l’avvertimento del contrario) dall’umoristico (sentimento del contrario). Il comico nasce dal vedere oggettivamente una situazione goffa, anormale, opposta a quella che dovrebbe essere la realtà: l’umorismo nasce invece dalla riflessione che si fa su quella situazione anormale e goffa. In ultima analisi possiamo affermare che l’originalità di Pirandello sta tutta qui: non narrare la realtà, la quale così com’è, altro non può essere che ipocrisia o maschera della vita, ma scrutare oltre la maschera, scoprire la vera miseria morale e la tragica alienazione dell’uomo nelle sue stesse ragioni esistenziali. Non è soltanto lo sdoppiamento della personalità, il contrasto tra maschera e persona, ma anche l’essere in centomila modi diversi, il vero dramma dell’uomo. Pirandello si volse alla narrativa scrivendo romanzi e novelle. Egli postulò un tipo di narrazione diversa da quella dei veristi per una più ardita dialettica d’idee, per un più sottile impegno di ricognizione psicologica e per la novità dell’ottica umoristica, ossia del sentimento del contrario, precluso alla poetica del Verismo. Tra i romanzi composti da Pirandello ricordiamo: ”Il fu Mattia Pascal”, “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”, “Uno, nessuno e centomila”.

IL FU MATTIA PASCAL

Il fu Mattia Pascal fu pubblicato nel 1904 dopo essere apparso a puntate sulla rivista “Nuova Antologia”. Pirandello lo scrisse in un momento drammatico della sua vita, angosciata dalla rovine economica della famiglia e dalla certezza della malattia psichica della moglie. Esso segna il distacco definitivo dalla scuola verista e affronta il tema dell’angoscia e della solitudine umana. Questo romanzo in realtà è il racconto della crisi e della libertà dell’uomo; esso, in sostanza, vuol celebrare: l’ansia di evadere dalle leggi della società, che costringono l’uomo a diventare la maschera di se stesso; la volontà di ricostruirsi una nuova personalità. Ma, poiché tutte queste aspirazioni crollano per le ferree leggi della vita, il romanzo si conclude in una più tragica angoscia dell’umana infelicità che è la coscienza del vedersi vivere come la maschera di se stessi.
Mattia Pascal impiegato alla biblioteca di un immaginario paese ligure, Mirano, racconta, a posteriori, la sua storia. Il padre aveva accumulato una gran fortuna al gioco, affidata dalla madre dopo la sua morte all’amministratrice Betta Malagna. Mattia e il fratello Berto si divertono con l’amico Pomino, senza preoccuparsi dei furti dell’amministratore. Mattia, poi, compromette la nipote di quest’ultimo ed è costretto a sposarla. Ridotto in povertà, va a vivere in casa della suocera e trova impiego come bibliotecario. Ben presto la vita familiare diventa un inferno perché la suocera lo considera un inetto. Alla morte delle bambine nate dal matrimonio, dopo un ennesimo litigio, fugge da casa e va a Montecarlo per tentare la fortuna al gioco. Ma durante il viaggio di ritorno legge su un quotidiano la notizia del suo suicidio. Mattia sconvolto dalla notizia vede in ciò un’occasione per liberarsi dall’inferno familiare. Decide così di tentare una vita nuova con un nome nuovo, Adriano Meis, e dopo aver viaggiato a lungo in Italia e in Germania, si stabilisce a Roma. Ben presto, però, Adriano Meis scopre i limiti della propria condizione; non può, infatti, denunciare un furto di cui è vittima e, soprattutto, non può sposare la donna che ama. Dopo aver inscenato il suicidio d’Adriano Meis torna a Mirano, dove però trova la moglie risposata con il suo vecchio amico Pomino. Mattia è pronto a rivendicare i propri diritti ma, davanti alla bambina nata da quelle nozze e al sentimento d’estraneità con cui è accolto, rinuncia. Vivrà solo riprendendo il vecchi posto di bibliotecario e andando di tanto in tanto a visitare la propria tomba, e a chi gli chiede chi egli sia, risponde: “ Io sono il fu Mattia Pascal”.
E’ questo il più polemico romanzo del Decadentismo, in quanto ne distrugge ogni mito superumano, ogni estetismo, ogni maschera, per mettere a nudo la coscienza della crisi, il dramma dell’anarchico che vorrebbe rompere ogni legame con la società, ma nello stesso tempo ne mostra la necessità. Molto importante in questo romanzo è il XIII capitolo dove Adriano Meis è costretto al buio dopo l’operazione all’occhio strabico. Gli tiene compagnia il signor Paleari (proprietario della pensione) che cerca di convincerlo che il buio è immaginario, attraverso la cosiddetta “Lanterninosofia”. Il signor Paleari rappresenta una sorta di alter ego dello scrittore che gli affida il compito di esporre la sua filosofia della vita. Le pagine sulla lanterninosofia affermano che la caratteristica dell’uomo a differenza degli altri esseri è la coscienza, e innanzi tutto la coscienza della propria esistenza che fa sì che riteniamo la realtà come il nostro sentimento della vita. Il sentimento della vita è paragonato dal signor Paleari a un lanternino, cioè a una fonte di luce non troppo forte ma capace di illuminare il percorso dell’esistenza, di farci distinguere il bene dal male. Oltre la luce del lanternino vi è l’ombra paurosa, cioè la morte; che però non esisterebbe senza il lanternino, cioè senza il sentimento della nostra individualità. Oltre ai lanternini, ci sono anche i lanternini, in altre parole i valori, i sentimenti collettivi della vita.

QUADERNI DI SERAFINO GUBBIO OPERATORE

In questo romanzo, Pirandello si rivela come uno dei primi scrittori dell’900 che ha avvertito la crisi dell’uomo e dei suoi valori in conseguenza della macchina e dell’industrialismo. Serafino Gubbio segue, con la sua macchina da presa, segue la protagonista di un film. Egli vive il suo dissidio interiore tra illusione e realtà; infatti, vorrebbe assumere la maschera dell’impossibilità, diventando soltanto una mano, una parte della sua macchina da presa, ma in realtà registra, momento per momento, soffrendo nella sua coscienza, un vero dramma umano. Serafino scrive questa sorta di diario-confessione per dare uno sfogo al suo dolore.
Il dramma alienante di Serafino è questo di sentirsi soltanto una mano che serve alla macchina, ma poiché egli è pur sempre un uomo con i suoi affetti, i suoi ricordi e le sue passioni, la sua coscienza vuol prendersi la rivincita: la macchina non potrà mai del tutto distruggere l’uomo, se in questi rimane vigile la coscienza della sua umanità. I drammi dinnanzi alla sua macchina da presa sono due: uno è quello del copione recitato dagli attori; un altro è quello che si sovrappone alla recita, in altre parole la trappola mossa dai segreti risentimenti degli attori come uomini che si odiano e meditano un delitto. Serafino che ha capito tutto, segue lo svolgimento filmico del copione, ma contemporaneamente quello reale della tragedia spietata dell’attrice che ha fatto divorare da una tigre un suo amante. La macchina da presa non potrà mai distinguere la finzione teatrale, dalla tragedia reale, mentre la parola scritta, il confessione-romanzo di Serafino potrà trascrivere le vere passioni e le crudeli verità della vita, che animano gli attori di un film e si sovrappongono alla finzione del copione.

UNO NESSUNO E CENTOMILA

Questo è detto dallo stesso Pirandello “il romanzo della scomposizione della personalità umana”.
Il protagonista, Vitangelo Moscarda, scopre che il proprio naso, da lui creduto perfetto, è deformato da una lieve pendenza a destra. Questa scoperta lo induce, a rilevare lo scarso grado di conoscenza ch’egli ha del proprio corpo, e poi a concludere che ancor meno conosce la propria personalità morale. Riflettendo sul comportamento degli altri nei suoi confronti, giunge alla convinzione che ciascuno si forma di lui un concetto diverso sicché egli, che prima si è creduti uno, scopre di non essere nessuno, potendo apparire centomila persone diverse ad altrettanti osservatori. Travagliandosi nella ricerca della propria identità, e sempre più sprofondato nell’angoscia del relativismo, il Mostarda approda fino alla follia. Abbandonato dalla moglie, vende la banca ereditata dal padre e fonda un mendicicomio, dove egli stesso si ricovera, conducendovi una vita sciolta dal pensiero del passato e tutta immersa nell’immediatezza del mondo naturale.

LE NOVELLE

Meglio che nei romanzi, Pirandello, espresse le sue virtù di narratore in un’ampia serie di novelle (146 in tutto) ordinate sotto il titolo complessivo di “Novelle per un anno”.Le novelle si distinguono poiché appartengono a tre momenti diversi: c’è un momento verista per certi modelli stilistici, per certe impostazioni di dialoghi e per certi comportamenti umani dei personaggi; c’è un momento caratterizzato dall’indagine introspettiva e dall’alienazione dei personaggi; c’è infine un terzo momento che è quello surrealistico. Tra tutte ricordiamo: “L’uomo dal fiore in bocca”, “La patente”, e “La carriola”.

L’UOMO DAL FIORE IN BOCCA

L’uomo dal fiore in bocca è un infelice affetto da un tumore maligno sul labbro, detto epitelioma, che Pirandello con amaro umorismo chiama fiore in bocca. La scena, ambientata nel misero caffè di una stazione, è imperniata sul dialogo che si svolge tra un viaggiatore che ha perduto il treno e l’uomo dal fiore in bocca che vive sempre fuori di casa per sfuggire ai ricordi che lo legano al passato. Ma più che un dialogo, è un monologo ad alta voce, dal quale la tragica situazione dell’uomo affetto dal cancro affiora gradatamente attraverso la tormentosa ed assieme spietata analisi che egli fa dei suoi contrastanti sentimenti. Egli vive aspettando la morte, ma l’amore alla vita non è ancora spento in lui; e lo esprime osservando atteggiamenti ed atti di persone sconosciute o rievocando gli oggetti che sa di dover presto lasciare. Ma al piacere che deriva a lui dall’immaginazione si accompagna la coscienza continua, ossessiva del proprio stato, la consapevolezza della morte imminente. Così mentre egli cerca di riempire il vuoto doloroso che avverte intorno a sé attaccandosi alla vita di gente sconosciuta, vive nella coscienza disperata dell’impossibilità di spezzare il cerchio di solitudine che lo stringe.

LA PATENTE

Pirandello è un pessimista, un gran pessimista: guarda con un sorriso amaro le assurdità in cui la vita sociale pone l’uomo, il quale non può agire come il suo sentimento gli detta, o quando egli crede di farlo, in realtà si comporta come vogliono gli altri: la società, infatti, fissa ad ognuno la sua parte, alla quale nessuno non potrà mai sottrarsi. Impossibile, quindi, ogni tentativo d’evasione: ognuno è costretto a nascondere i suoi sentimenti e le proprie convinzioni sotto una maschera, che lo fa apparire non quale egli è realmente, ma come vuole la società nella quale è costretto a vivere. Cosicché alla fine non sappiamo quale sia la verità, se la nostra o quella degli altri. Lo stesso individuo, in fondo, finisce con l’accettare la sua parte, perché si convince che solo quella maschera, sotto cui egli si nasconde il suo volto, può salvarlo dalle tempeste della vita che diversamente lo travolgerebbero.
La Patente è una di quelle novelle che rispecchiano con più acutezza il pessimismo dello scrittore ed assieme le assurdità della vita e l’impossibilità di poterla cambiare. In essa è ritratto il dramma di un infelice che la società respinge per un’assurda superstizione. Chiàrchiaro ha fama di iettatore e sporge querela contro due giovani che al suo passaggio hanno fatto gli scongiuri di rito. Il giudice istruttore si trova in un bell’imbarazzo: come condannare quei giovani, se anche gli stessi giudici fanno gli scongiuri solo a sentir nominare Chiàrchiaro? D’altra parte, se essi vengono assolti, non si esercita un’iniqua ingiustizia contro l’infelice che per quella fama è fuggito da tutti? Per uscire da questa situazione paradossale il giudice tenta di convincere Chiàrchiaro a ritirare la querela. Questi, invece, vuol proprio che i due giovani, nonostante la sua denunzia, vengano assolti: così almeno egli avrebbe avuto un riconoscimento ufficiale di quella che gli altri credevano una sua potenza spaventosa. Il disgraziato, infatti, era stato ridotto al lastrico, perché licenziato dall’impiego appunto per quella fama di iettatore, ed aveva anche due figlie che nessuno voleva sposare. Dopo l’assoluzione dei giovani tutti sarebbero stati ancor più convinti della sua potenza malefica: egli allora avrebbe sfruttato la patente di iettatore, perché dovunque si fosse presentato lo avrebbero pagato per farlo andar via. Solo così Chiàrchiaro avrebbe potuto risolvere il problema della vita per sé e per la famiglia, vestendosi, come infatti avvenne, della maschera di iettatore.

LA CARRIOLA

Nell’opera di Pirandello ha tanta parte la natura sentita come un paradiso perduto ma bisognato e rimpianto. Può essere emblematica di questo suo motivo una novella, La Carriola, dove un avvocato, irretito in mille obblighi familiari e sociali, un giorno, in treno, allo spettacolo della campagna avverte il brulichio d’una vita diversa, non sua, ma che avrebbe potuto essere sua, non qua, ma là, in quell’infinita lontananza.

LA PRODUZIONE TEATRALE

Se prescindiamo da qualche tentativo giovanile possiamo dire che Pirandello nacque ufficialmente al teatro nel 1910, quando si decise ad affidare alla compagnia del commediografo siciliano Martoglio due atti unici, La Morsa e Lumìe di Sicilia. Il successo di questi testi lo incoraggiò a proseguire nella produzione teatrale, e nel 1936, l’anno della sua morte, egli poteva vantarsi autore di ben 48 opere per le scene. Le sue opere teatrali più famose sono: Così è (se vi pare), Sei personaggi in cerca di autore.

COSI’ E’ (SE VI PARE)

Così è (se vi pare) dichiara già nel titolo il relativismo pirandelliano in ordine al problema della verità. La commedia svolge questo argomento:
In un chiuso ambiente di provincia il signor Ponza esce dal suo misterioso riserbo e racconta una triste vicenda: rimasto vedovo, si è risposato, ed ora ha con sé non solo la seconda moglie, ma anche la madre della prima, che, divenuta folle, continua a dire che sua figlia è viva ed è la donna alla quale egli, il Ponza, s’è unito in nuove nozze. Dal canto suo,la suocera, la signora Frola, affermando che la figlia è viva e vegeta, da del matto al genero, che, durante una lunga e penosa malattia della moglie, ha perso la ragione, fino a credersi vedovo e sposato con un’altra donna. Poiché i documenti che potrebbero sciogliere l’enigma sono stati distrutti da un terremoto, la parola chiarificatrice spetta alla tanto discussa donna. Ma costei, quando finalmente compare in scena col volto nascosto da un fitto velo, dichiara d’essere, nello stesso tempo, la figlia della signora Frola e la seconda moglie del Ponza, dicendo testualmente:”Per me, io sono colei che mi si crede”.

SEI PERSONAGGI IN CERCA DI AUTORE

Sei personaggi in cerca di autore è un ardito esempio di teatro nel teatro; ma il suo valore consiste nell’efficacia con cui Piarandello vi rappresenta il tema dell’incomunicabilità umana e quello dell’impotenza dell’arte ad esprimere l’autenticità della vita.
Su uno spoglio palcoscenico, dove alcuni attori stanno provando stancamente la commedia pirandelliana Il gioco delle parti, si presentano a un tratto sei intrusi. Dichiarano d’essere personaggi balenati alla mente di un poeta e lasciati in abbozzo, sicché ora cercano un nuovo autore che li innalzi alla compiutezza dell’arte. Gli attori, ascoltata la loro storia (una penosa e squallida vicenda nel corso della quale il Padre, in una casa di piacere, è stato sul punto di unirsi sessualmente alla Figliastra), provano a rappresentarla scenicamente; ma i sei personaggi non si riconoscono in quella interpretazione, e si sentono fraintesi e falsati. Ecco come uno di loro, il Padre, esprime al capocomico il suo disappunto.

DIVINA COMMEDIA: XV CANTO DEL PARADISO

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