Storia d'Italia fino allo sviluppo dei comuni in Italia

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Testo

STORIA ITALIANA
Fino alla nascita dei comuni

PREISTORIA

I ritrovamenti preistorici consentono di dimostrare come il territorio italico sia stato abitato fin dal periodo paleolitico inferiore: a tale epoca sono infatti attribuibili molti utensili litici, specialmente amigdale, rinvenuti nel corso delle ricerche compiute a Torre in Pietra (Roma), a Venosa (Potenza), al monte Conero (Ancona), in Emilia, nel Veneto e in altre località della penisola. Più numerosi i resti attribuibili al successivo periodo del paleolitico medio, in cui fecero apparizione anche in Italia individui della razza di Neandertal, di cui si sono trovati resti scheletrici frammentari in Puglia, al monte Circeo e nel Lazio. Strumenti di quest'epoca sono stati rinvenuti in prevalenza nelle grotte, nel Veneto, in Liguria, in Campania, in Puglia. Di particolare interesse le impronte dell'uomo di Neandertal nella grotta della Basua, in Liguria. Molto copiosi sono anche i resti del paleolitico superiore, rinvenuti soprattutto in Puglia, in Campania, nel Lazio, in Toscana, in Liguria e nel Veneto. A quest'epoca sono assegnabili anche alcune manifestazioni d'arte rituale, quali i graffiti della grotta dell'Addaura in Sicilia, le raffigurazioni parietali di Levanzo (Egadi) e della grotta del Romito (Cosenza), nonché le statuette muliebri, dette veneri paleolitiche, di Savignano sul Panaro (Modena), di Chiozza (Reggio nell'Emilia) e del Trasimeno. Dopo un periodo relativamente breve di transizione, con tracce sparse di culture mesolitiche, anche in Italia ebbero notevole diffusione varie correnti neolitiche, per lo più di provenienza dal Mediterraneo orientale e dal bacino danubiano, che diedero vita alle culture della ceramica impressa e dipinta dell'Italia meridionale e insulare, a quelle del vaso a bocca quadrata e a quella della Lagozza, particolarmente diffuse nell'Italia del Nord. Dopo il periodo relativamente breve che vide, con l'apparizione degli utensili di rame, la diffusione della cultura eneolitica del vaso campaniforme, di estrazione iberica, fiorirono le varie culture dell'età del bronzo, che vide al Nord il grande sviluppo degli insediamenti palafitticoli e terramaricoli, lungo la penisola le civiltà d'origine pastorale e al Sud la crescente influenza del mondo culturale egeo. Alla fine dell'età del bronzo si diffuse il rito funebre dell'incinerazione, che s'accompagnava all'evoluzione della metallurgia. Specialmente nell'Italia settentrionale diversi complessi etnici tramandarono la loro civiltà attraverso vaste necropoli, quali quella di Golasecca, quelle villanoviane e quelle atestine, distribuite tra Lombardia, Emilia e Veneto. Parallele a queste culture fiorirono lungo la penisola altre manifestazioni non meno importanti, quali la cultura picena, quella campano-sannita, quella bruzio-lucana e quella apula, nonché quelle della Sicilia, di cui rimangono eloquenti tracce in vaste necropoli, scavate nella roccia, e nei prodotti vascolari, spesso di importazione greca. È solo con l'età del ferro che possono individuarsi vari aggruppamenti in cui sono ravvisabili i popoli dell'Italia preromana con una loro peculiare fisionomia: a NO i Liguri, a NE i Veneti, gli Etruschi nella zona corrispondente all'attuale Emilia-Toscana, quindi le popolazioni propriamente dette italiche (Umbri, Sabini, Latini, Equi, Volsci, Sanniti, Campani, Lucani, Bruzi, ecc.) nella zona centromeridionale, Iapigi nella Puglia, Siculi e Sicani in Sicilia, Sardi in Sardegna.

A più riprese, le rivalità esistenti tra questi popoli diversi per origine e livello culturale si risolsero in conflitti armati, soprattutto tra Greci ed Etruschi che, in concorrenza con i Fenici, miravano all'egemonia del Mediterraneo occidentale. Nel tentativo di creare un'unità politica che andasse dal Sele al Po gli Etruschi, sentendosi minacciati dall'espansione dei Focesi di Marsiglia, si allearono con Cartagine e insieme ne distrussero la flotta nelle acque di Aleria (Alalia) [540 circa a.C.]. Impadronitisi della Corsica, progredirono oltre il Lazio alla conquista della Campania; ma la duplice disfatta di Cuma (524 a.C.) e di Ariccia (505-504 a.C.) e la cacciata dei Tarquini da Roma li costrinsero a retrocedere. La loro potenza si ridusse sempre più quando, a metà del V sec. a.C., i Sanniti discesero dalle montagne dell'Abruzzo e Molise per occupare le fertili pianure sottostanti e nell'Italia settentrionale i Galli, inserendosi tra Liguri e Veneti, irruppero nella pianura padana, donde in seguito si riversarono nella penisola. Roma iniziò allora il suo capolavoro politico-militare: la conquista e l'unificazione dell'Italia ( IV-II sec. a.C.). Vi riuscì attraverso numerose guerre (con i Latini, gli Etruschi, i Galli, i Sanniti, i Greci Italioti) e un'arte di governo moderata e costruttiva. Alla perizia delle armi, alla rete delle strade e alla deduzione di colonie congiunse un'originale abilità organizzativa che raccolse i vinti in una confederazione, in cui l'accorta concessione di diversi statuti giuridici, l'uguaglianza economica e l'assimilazione degli istituti amministrativi crearono, nella comunanza degli interessi, una solidarietà politica. Il nome Italia si estese a buona parte della penisola, mentre il latino diveniva la lingua comune. La consistenza della confederazione ebbe la prova del fuoco durante la seconda guerra punica, resistendo, tranne poche defezioni, alle vittorie di Annibale e alle sue lusinghe disgregatrici; corse, invece, un grave pericolo quando i federati italici, mantenuti in condizione di inferiorità, nonostante le loro benemerenze, dal misoneismo dei nobili e dall'egoismo della plebe, si ribellarono per il conseguimento del diritto di cittadinanza. L'ottennero dopo una dura lotta (guerra sociale 91-88 a.C.) e con una concessione graduale (Lex Iulia, Lex Plautia Papiria, Lex Pompeia Strabonis), che con Cesare comprese i Galli della Transpadana. Poco dopo la battaglia di Filippi (42 a.C.) tutta la Gallia Cisalpina venne incorporata nell'Italia, che estese in tal modo i confini settentrionali sino alle Alpi, dal Varo all'Arsa. Divisa in undici regioni, esclusa la città di Roma, ebbe particolari cure da parte di Augusto, preoccupato di cancellare le tracce delle lunghe e rovinose guerre civili. Al ristabilimento dell'autorità dello Stato e della sicurezza dei cittadini, seguirono il rinnovamento della rete stradale e l'istituzione di un regolare servizio di posta, nonché un'attività edilizia che ingrandì e abbellì, oltre alla metropoli, anche altre città della penisola. Una considerevole prosperità economica si accompagnò a una fioritura letteraria e culturale che fece di Roma e dell'Italia il centro di irradiazione della civiltà del mondo occidentale. Ma lo sviluppo dell'Impero con le sue necessità di organizzazione diminuì a poco a poco il primato dell'Italia. Economicamente si accelerò il processo di disintegrazione della piccola proprietà terriera, già in precedenza oberata di debiti per le lunghe guerre e incapace di sostenere la concorrenza con i prodotti delle province; si sostituirono a essa, soprattutto al centro e nel meridione della penisola, i latifondi tenuti per lo più a pascoli, a solo profitto dei grandi proprietari. D'altra parte l'estensione dell'Impero provocò lo spostamento delle linee commerciali lungo il limes, così che l'Italia cessò di essere il centro dei traffici e i suoi abitanti in numero sempre maggiore emigravano in regioni di più ampie risorse economiche. Anche la sua struttura amministrativa si modificò conformandosi a quella delle province e con la perdita progressiva dell'autonomia. Se l'esenzione dagli obblighi militari (Vespasiano) la privò della funzione più importante dello Stato romano, l'istituzione dei curatores civitatis (Domiziano o Traiano), dei consulares con la ripartizione in quattro distretti disposta da Adriano e ripresa da Marco Aurelio, e dei correctores nel III sec. d.C., la abbassò al livello di qualsiasi altro territorio dell'Impero. Siffatto criterio fu seguito da Diocleziano che ne fece una della dodici diocesi, suddivisa in due vicariati, uno a nord con sede a Milano e soggetto all'imposta in natura (Italia annonaria), l'altro comprendente la penisola a sud dell'Appennino con sede a Roma (Italia suburbicaria). Con Costantino, che creò una nuova capitale nell'antica Bisanzio e quivi trasportò la residenza imperiale, l'importanza dell'Italia diminuì maggiormente e con l'unione, nel corso del IV sec., all'Africa in una medesima prefettura perdette anche la propria fisionomia amministrativa. Con l'affermarsi del cristianesimo le restava tuttavia un'altra funzione di preminenza: a Milano, ormai capitale contro le minacce dei Barbari, sant'Ambrogio imponeva la sua volontà all'imperatore Teodosio e a Roma il papato poneva le basi della sua universale autorità.

IL MEDIOEVO
LE INVASIONI BARBARICHE

Dopo la morte di Teodosio I il Grande (395), la divisione dell'Impero romano, già avvenuta altre volte per periodi più o meno brevi in passato, divenne definitiva. Dei due figli di Teodosio I, Arcadio (395-408) ereditò l'Oriente, Onorio (395-423) l'Occidente, due mondi del resto già storicamente divergenti e destinati a divergere sempre più. Regnando Onorio, arbitro della politica imperiale fu un grande generale di origine vandalica, Stilicone; per suo merito l'Italia fu salva due volte da insediamenti barbarici. La prima, i federati Visigoti, guidati da Alarico, entrarono in Italia dal Friuli e invasero la pianura padana; ma Stilicone li sconfisse a Pollenzo (Bra) e presso Verona (403), e li costrinse a ripassare il confine orientale. La seconda volta, un'orda di Barbari di varie stirpi, condotta da Radagaiso, si riversò in Italia per salvarsi dall'avanzata degli Unni. Stilicone sconfisse anche costoro presso Fiesole (405). Fu in questo tempestoso inizio del Vsec. che Onorio si trasferì, con la corte imperiale, da Milano, difficile a difendersi, a Ravenna, appartata, protetta dalle paludi e beneficata dal mare, che dal 402 divenne la capitale dell'Impero d'Occidente.
Per la difesa dell'Italia, Stilicone aveva chiamato a raccolta le legioni transalpine, sguarnendo altre regioni vitali dell'Impero, come ad es. la Gallia.
Alarico intanto, lasciata l'Italia, si era stanziato coi suoi Visigoti nell'Illirico, in attesa di trasferirsi in un paese più prospero, col riconoscimento di Onorio e il consenso di Stilicone. Ma quando, alla morte di Arcadio (408), Stilicone si adoperò per assumere la reggenza del suo erede, il fanciullo Teodosio II (408-450), ci fu chi alla corte di Onorio insinuò che il generale tramasse per eliminare lui dal trono d'Occidente e suo nipote da quello d'Oriente, e farsi egli stesso imperatore. Onorio prestò fede all'accusa, trasse Stilicone in un'insidia e lo fece morire (408). Fece così il gioco di Alarico il quale, poco dopo la scomparsa dell'unico avversario capace di contrastarlo, rientrò in Italia coi suoi Barbari e raggiunse i dintorni di Roma. Di qui negoziò per qualche tempo con Onorio, chiedendo, in cambio della rinuncia ad assalire la città, larghe concessioni territoriali, ma i negoziati fallirono e i Visigoti irruppero in Roma e la misero a sacco (agosto 410). Lo strazio di Roma (inviolata da otto secoli, cioè dall'invasione dei Galli) suscitò sgomento e dolore in tutti quelli che avevano una coscienza civile: tra questi, san Girolamo e sant'Agostino.
Da Roma, Alarico passò coi Visigoti nel Mezzogiorno, portando con sé Galla Placidia, sorella di Onorio; aveva come meta la Sicilia, allora assai ricca, ma, giunto a Cosenza, morì, lasciando il regno al cognato, Ataulfo (410-415). Questi, venuto a patti con Onorio, risalì l'Italia e ne uscì dal confine occidentale: pochi mesi prima della sua morte sposò Galla Placidia (414). Quest'ultima, tornata a Ravenna presso il fratello, non tardò a unirsi in matrimonio con Costanzo (il futuro, imperatore @19Costanzo III#432783NN3NN@*19), succeduto a Stilicone nel predominio alla corte imperiale; da questa unione nacque Valentiniano III che succedette, non senza contrasti, a Onorio. Sotto Valentiniano III (425-455), il potere imperiale si ridusse all'Italia; l'imperatore stesso fu soggetto nella giovinezza alla madre e nella maturità ai due suoi maggiori generali, Bonifacio ed Ezio. Ezio difese con valore i resti dell'Impero, e legò il suo nome alla grande vittoria dei Campi Catalaunici sugli Unni di Attila (451). Questi furono respinti dalla Gallia, ma, rifattisi in Pannonia, attaccarono pochi mesi dopo l'Italia (452). Ridotta Aquileia a un mucchio di rovine, con una marcia lenta ma ininterrotta desolarono gran parte della valle del Po: Valentiniano III riparò a Roma; Ezio, con forze esigue, s'accampò ad attenderli sulla destra del fiume. Lo scontro tuttavia non avvenne, grazie a un colloquio intervenuto tra Attila e una legazione composta di messi del papa Leone I e dell'imperatore in territorio mantovano: si ignorano i particolari delle trattative, ma Attila ripassò le Alpi e morì appena giunto in Pannonia (453).
Venuto meno il pericolo degli Unni, Valentiniano III si urtò con Ezio e lo uccise di sua mano; poco dopo, egli stesso fu assassinato (455) e con lui si estinse la discendenza di Teodosio I. Appena morto l'imperatore, il re dei Vandali Genserico saccheggiò orribilmente Roma (455), e proseguì con una serie di azioni di conquista o di pirateria contro le isole e le coste italiane, che per oltre un ventennio fecero di lui il più implacabile demolitore dei resti dell'Impero d'Occidente. La vita di questo non fu, da allora in poi, che una lunga agonia: furono acclamati imperatori, l'uno dopo l'altro o contemporaneamente, una serie di personaggi notevoli solo per violenza o per ignavia, in un turbine di lotte civili. La figura più significativa fu Ricimero, un generale di origine germanica, che seppe contenere i Vandali e, senza assumere il titolo imperiale, fu sino alla morte (472) il vero sovrano e creò e depose imperatori a suo piacimento, col senso ancora vivo di servire a una grande causa. Poi, regnando Giulio Nepote, creatura dell'imperatore d'Oriente, emerse Oreste, un altro generale di origine pannonica e già al seguito di Attila, che spodestò il suo sovrano e proclamò imperatore il figlio Romolo (475), detto, non senza una punta di spregio, l'Augustolo, l'imperatoruccio. Avvenne allora in Italia quanto era già avvenuto fuori: le soldatesche barbariche chiesero terre per stabilirvisi in permanenza e, avendo Oreste respinto le loro richieste, acclamarono loro capo lo sciro Odoacre, che prometteva di accontentarli. Odoacre infatti attaccò e abbatté Oreste, depose e confinò in Campania Romolo Augustolo (agosto 476) e sistemò i suoi barbari, in prevalenza Eruli (di origine scandinava), per tutta l'Italia. Accettò da costoro il titolo di re, ma non volle assumere quello d'imperatore; mandò anzi le insegne imperiali all'imperatore d'Oriente, Zenone, a riconoscimento della sua sudditanza, sollecitando da lui soltanto il governo dell'Italia, col titolo di patrizio. Zenone non rispose. Con la deposizione di Romolo Augustolo cessò di esistere l'Impero romano d'Occidente, durato mezzo millennio.
Odoacre (476-493) governò l'Italia con una certa prudenza, mantenendosi in corretti rapporti con la Chiesa cattolica (benché fosse ariano), con l'Impero d'Oriente e col regno dei Vandali, le potenze che più aveva ragione di temere, e allargò anche il suo dominio alla Dalmazia, alla Sicilia (cedutagli da Genserico) e al Norico; ai suoi Barbari riservò, come d'uso, il terzo delle terre, o dei frutti delle terre, dei Romani. Ma l'equilibrio che egli si sforzava di stabilire fu rotto bruscamente dall'invasione degli Ostrogoti. Per stornarli dall'Oriente lo stesso imperatore Zenone consentì al loro re Teodorico di condurli in Italia, ai cui confini essi apparvero nell'estate del 489. Odoacre cercò di contenere l'invasione, ma, battuto su linee sempre più arretrate (Isonzo, Adige, Adda), si rinchiuse in Ravenna, dove resistette a un lungo ed estenuante assedio, mentre gli Ostrogoti si spargevano per tutta l'Italia e vi si insediavano a forza. Si arrese infine, e Teodorico lo uccise di propria mano, e ordinò ai suoi ufficiali (duces) sparsi per l'Italia di sterminare quanti avessero opposto ancora resistenza (493).
Gli Ostrogoti misero radici nella penisola con questi mezzi; poi Teodorico provvide alla distribuzione delle terre e prese possesso della corte di Ravenna nella duplice veste di re del suo popolo e di patrizio, ossia governatore, in nome dell'imperatore d'Oriente; ciò che legittimava la sua posizione politica e militare. Disarmò i Romani ma, forse memore dell'educazione classica ricevuta a Costantinopoli, si circondò di consiglieri romani (Severino Boezio, Aurelio Cassiodoro, Ennodio), sperando di stabilire tra Barbari e Romani un regime di tollerabile convivenza in cui fossero attenuate le differenze di costume civile, di religione, di nazionalità. I disegni di Teodorico furono sconvolti da una triplice offensiva: da parte dei Franchi che, conquistata con Clodoveo gran parte della Gallia, aspiravano a quella supremazia in Occidente che era il sogno anche del re degli Ostrogoti; da parte dell'imperatore d'Oriente, Giustino, che intendeva annettere all'Impero l'Italia; da parte infine della Chiesa, interprete dei sentimenti non solo religiosi, ma anche culturali del popolo italiano, umiliato da Barbari di fede ariana e di assai rozzi costumi.
Teodorico reagì sul triplice fronte e, all'interno, abbandonò la relativa moderazione che si era imposta e, stimolato dagli elementi barbarici che non l'avevano mai approvata, infierì contro gli esponenti della cultura romana, sinora onorati (condanna di Boezio e di altri intellettuali romani); infine, in risposta a un divieto del culto ariano nell'Impero, emanato da Giustino, fece imprigionare lo stesso papa Giovanni I che morì in carcere. Tutto ciò nel giro di un triennio, l'ultimo del regno e della vita di Teodorico, che morì improvvisamente (526). Il regno passò al fanciullo Atalarico, nato dalla figlia del re Amalasunta, che ne assunse la reggenza e invano si sforzò, col consiglio di Cassiodoro, di ristabilire la politica di pace tra Ostrogoti e Romani. La scomparsa di Atalarico e il matrimonio di Amalasunta col cugino Teodato, apparentemente mite e conciliante, in realtà inflessibile assertore di una politica gotica senza concessioni alla nazione e alla religione dell'Italia, provocarono prima l'allontanamento dalla corte, poi la morte della regina e l'intervento, contro Teodato, delle forze bizantine (535, guerra gorica).

BIZANTINI E LONGOBARDI

A togliere il riconoscimento a Teodato e a promuovere la guerra per riconquistare l'Italia all'Impero romano, ormai vivo solo in Oriente, fu Giustiniano (527-565). Dopo aver posto fine al regno dei Vandali, il suo generale Belisario attaccò gli Ostrogoti in Italia (535): dalla Sicilia combattendo arrivò a Ravenna, dove ottenne la resa di Vitige, successore di Teodato (540), e l'apparente sottomissione dei Barbari. Belisario tornò a Costantinopoli lasciando un'Italia liberata, ma nella più spaventosa desolazione, un'Italia in agonia, quale la vide e la descrisse lo storico della corte bizantina, Procopio di Cesarea. Pochi anni dopo questo flagello, gli Ostrogoti si riorganizzarono, con l'appoggio degli stessi Italiani, coi quali avevano condiviso gli orrori della guerra portata dall'imperatore d'Oriente e, sotto la guida del re Totila (Baduila), ricuperarono quasi tutta l'Italia, compresa Roma (541-546). Belisario non poté ristabilire la situazione, e alla fine fu sostituito dal rivale Narsete. Fu questi che, con una grande campagna dalla Val Padana verso il Sud, conquistò anzitutto Ravenna, incalzò gli Ostrogoti e li disfece in Umbria (a Busta Gallorum, presso Gualdo Tadino, 552, dove cadde Totila) e infine in Campania (tra i monti Lattari e il Vesuvio, 553, dove cadde l'ultimo re degli Ostrogoti, Teia). I resti degli Ostrogoti e orde sopraggiunte di Franchi e Alamanni furono dispersi nei due anni successivi.
I Bizantini o, come si chiamavano per tradizione, i Romani, dopo vent'anni di guerra, erano dunque padroni dell'Italia: Giustiniano, a richiesta del papa Vigilio, la costituì (554) con una Prammatica sanzione a provincia dell'Impero, sotto il governo, dapprima di un patrizio e di un prefetto del pretorio, l'uno col supremo potere militare, l'altro con quello civile, poi di un unico magistrato, l'esarca. Qualche grande città, come Ravenna, Roma e Napoli, si risollevò, ma quasi tutte le altre ebbero vita difficile, e più difficile le campagne, maggiormente colpite dalla guerra e dalle altre calamità. Il duro fiscalismo del regime bizantino, inoltre, paralizzava una ripresa di per se stessa già estremamente penosa. Non Bisanzio, ma Roma papale e le nuovissime istituzioni monastiche promosse da san Benedetto da Norcia (529, fondazione dell'abbazia di Montecassino), con la loro attiva pietà, ridiedero a poco a poco a una popolazione ridotta allo stremo la fiducia nella vita, e i focolari e gli altari e i rudimenti di una cultura semispenta. La dominazione bizantina in Italia fu scossa dall'invasione dei Longobardi, che si rovesciarono sulla penisola mentre tutto l'Impero d'Oriente attraversava una grave crisi. Si trattò anche questa volta dell'emigrazione di un popolo intero. Condotti da Alboino, i Longobardi apparvero a Cividale del Friuli nella primavera del 568: i Bizantini si limitarono a difendere Ravenna, le coste, le isole e una fascia trasversale di territorio sparsa di fortezze tra le coste marchigiane e le laziali (con Roma, quindi), che tuttavia i Longobardi attraversarono, spingendosi fino in Campania. L'Italia rimase così spezzata in due e non si ricongiunse che tredici secoli dopo.
I Longobardi non fecero nulla per organizzare uno Stato: mentre Alboino, residente a Pavia divenuta capitale, manteneva di re quasi solo il nome, i suoi duces si spargevano per la penisola ritagliandosi altrettanti ducati indipendenti e, alla scomparsa di Alboino (572) e del suo successore Clefi (574), per un decennio non elessero alcun sovrano, riducendo il paese all'anarchia. Ci volle una nuova invasione di Franchi in Piemonte e una certa ripresa offensiva di Bisanzio perché s'inducessero a darsi un nuovo re, Autari (584- 590), cui diedero assistenza militare e finanziaria. Autari dimostrò qualche dote di costruttore: cercò di disciplinare i duchi, di cattivarsi gli Italiani (prese il nome romano di Flavio e, benché ariano, sposò la principessa bavarese Teodolinda, che era cattolica, e per il cattolicesimo mostrò grande rispetto), contenne Franchi e Bizantini, si adoperò per un'ulteriore espansione del dominio longobardo in Italia. I capisaldi di tale dominio, che non raggiunse mai una vera continuità territoriale, divennero la valle del Po, con centro a Pavia, il ducato di Spoleto nel cuore della penisola e il ducato di Benevento nel Mezzogiorno: il tutto designato col nome di Regnum Langobardiae o Longobardia (donde, restrittivamente, Lombardia). I possessi bizantini, altrettanto discontinui, si ridussero all'area ravennate (l'Esarcato), alle Marche (Pentapoli), a una striscia dell'Umbria e al Lazio (ducato romano) e a gran parte del Mezzogiorno; queste zone costituivano la Romània, in contrapposizione con la Longobardia. Ma, in questa Romània, pur restando Ravenna la capitale, il centro di forza e il focolaio di cultura veramente attivo fu Roma, soprattutto da quando divenne papa Gregorio Magno (590-604), che svolse un'attivissima politica di pacificazione tra i Longobardi e i Latini, puntando sulla conversione dei primi al cattolicesimo e sul contenimento della pressione bizantina. In entrambi i settori il pontefice ottenne buoni risultati. Si avviò così un relativo affiatamento, sulla base della religione, tra vincitori e vinti, e un lento, contrastato, ma progressivo processo d'incivilimento dei primi nel quadro del mondo spirituale latino. Il popolo l'intuì, incominciando a vedere nel papato il più valido presidio della sua individualità e della sua salute; e l'intuirono, con sentimento opposto, i Longobardi che reagirono facendosi più nazionalisti e antilatini.
La reazione si inasprì alla scomparsa di Gregorio Magno e di Agilulfo, secondo marito di Teodolinda, cioè nei primi decenni del VII sec., quando si ripeterono episodi di anarchia ducale, diminuirono le conversioni e Bisanzio avanzò rivendicazioni territoriali, politiche e religiose sull'Italia. Le iniziative di un re valoroso, Rotari, che allargò il regno a parte del Veneto e alla Liguria, emanò un editto non privo di temperamenti romani e cristiani nella legislazione barbarica (643), portò qualche disciplina tra i duchi, segnarono soltanto una parentesi tra i continui disordini. Anche nella seconda metà del VIIsec. si succedettero momenti di tempesta e schiarite, che impedirono comunque un'apprezzabile strutturazione del regno; sotto Grimoaldo (662-671) furono respinti con successo attacchi franchi a nord e bizantini a sud (dove questi ebbero nuovamente decimati i loro possessi). I papi del tempo, parecchi orientali, si adoperarono per bilanciare le opposte forze bizantine e longobarde che premevano sull'Italia e per intensificare, in forma missionaria, le conversioni dei Barbari; fu una politica difficile, ma nel complesso fruttuosa. A questi tempi, la vita, specialmente cittadina, cominciò tuttavia a rigermogliare: a Genova, a Milano (provatissima nei due secoli precedenti), a Napoli, ad Amalfi e nella giovanissima Venezia, in corso di formazione per opera dei profughi dalla terraferma, sfuggiti alla soggezione dei Barbari, e destinata a straordinari sviluppi.
Una svolta di grande importanza si ebbe nella prima metà dell'VIII sec., quando il cattolico Liutprando (712-744) si rese conto che, se non avesse conquistato tutta l'Italia, il regno dei Longobardi sarebbe crollato e, dopo un'intelligente preparazione (disciplina dei duchi, intensa attività legislativa, relazioni d'amicizia con la Chiesa a tutti i livelli della gerarchia, rispetto dei Latini), affrontò l'esecuzione del suo disegno in occasione del conflitto dell'iconoclastia, scoppiato tra il papa Gregorio II e l'imperatore d'Oriente Leone III l'Isaurico (726). Col papa, e col consenso della massa cattolica barbarica e latina, Liutprando si fece difensore della conservazione e della venerazione delle immagini contro i Bizantini iconoclasti, li attaccò nell'Esarcato, nella Pentapoli e nel ducato romano e puntò sulla stessa Roma, giuridicamente sempre soggetta a Bisanzio, per assumerne la difesa. Gregorio II, però, ebbe timore dell'insediamento longobardo nella sua sede, tanto che esortò Liutprando ad arrestare la sua marcia nel Lazio e a ritirarsene. Fu in quest'occasione che il re, per obbedienza e devozione, donò (728) il castello di Sutri, appena conquistato, ai beati apostoli Pietro e Paolo; a questa donazione si fa ascendere l'origine del dominio territoriale del papato, cioè del futuro Stato Pontificio: di fatto, ed entro certi limiti, i vescovi, e in specie i papi, soprattutto da Gregorio Magno in poi, esercitavano già pubblici poteri in Roma e sul territorio circostante.
Il conflitto longobardo-bizantino ebbe ulteriori sviluppi. Leone III si rivalse delle perdite subite trasferendo dall'obbedienza al papa all'obbedienza al patriarca di Costantinopoli le chiese del Mezzogiorno e creando un forte regime militare in Puglia e in Calabria con l'istituzione dei temi (thémata). Liutprando riprese l'offensiva e si riportò nei pressi di Roma; ma di nuovo dovette ritirarsi e donare al papa le ultime terre tolte ai Bizantini (i quattro castelli di Orte, Bomarzo, Blera e Amelia, fine 741 - inizio 742). L'arrendevolezza di Liutprando tuttavia era ormai motivata non più solo dalla devozione, ma anche dalla necessità: il papato, regnando Gregorio III, poi Zaccaria, si preparava infatti a opporgli, se avesse insistito ad avanzare verso Roma, il regno dei Franchi, in impetuosa fase di crescenza per virtù dei maestri di palazzo, Carlo Martello, poi Pipino il Breve. La prudenza di Liutprando fu compensata dalla benevolenza di papa Zaccaria; ma, alla morte di Liutprando, le turbolenze verificatesi nel mondo longobardo sotto i suoi successori Ildebrando e Rachis e infine l'avvento al trono del focoso Astolfo (749-756), risoluto a un'azione a fondo contro i Bizantini, spinsero il papa a stringere vincoli più saldi coi Franchi compiendo un passo ancora senza precedenti nella storia. Mentre Astolfo prendeva Ravenna e svolgeva il suo programma di conquiste, Zaccaria, richiesto da Pipino il Breve, negò al legittimo ma ignavo re dei Franchi Childerico III il diritto di conservare la corona e lo trasferì (751) a Pipino stesso, che effettivamente già esercitava il potere regio. Il passo del papa ebbe immediate conseguenze: Childerico III fu deposto e Pipino fu incoronato (752), la dinastia dei Merovingi fu soppiantata dalla dinastia dei Carolingi e poco dopo il successore di Zaccaria, Stefano II (III), recatosi personalmente in Francia, rinnovò l'incoronazione e concluse un'alleanza col nuovo re dei Franchi contro i Longobardi, investendolo della dignità di patrizio (difensore) di Roma (754).
Roma aveva effettivamente bisogno di difesa, perché Astolfo, occupata Ravenna, l'Esarcato, la Pentapoli, il ducato spoletino, s'avvicinava sempre più alla città e si faceva chiamare non più solo re dei Longobardi, ma “re dei Longobardi e delle genti romane affidategli da Dio”, che era titolo significativo e ammonitore. Pipino passò le Alpi una prima volta nel 754 e, dopo un'efficace azione su Pavia, impose ad Astolfo di sgomberare l'Esarcato e la Pentapoli e di cederli, non all'imperatore bizantino, bensì al papa, come “giusta restituzione” di regioni legittimamente appartenenti alla Chiesa (iustitiae Sancti Petri), qualunque fosse stata fino a quei giorni la loro sorte, in forza della donazione di Costantino (il celebre, falso Constitutum, coniato forse in questo periodo, e tenuto per autentico sino al Quattrocento). Ma, non appena Pipino ebbe lasciato l'Italia, Astolfo attaccò Roma, che sarebbe certo caduta se, cedendo a un'appassionata invocazione del papa, il re dei Franchi non fosse ridisceso in Italia e non avesse vinto di nuovo Astolfo nella sua capitale. Esarcato, Pentapoli e ducato romano passarono nelle mani di Pipino, il quale ne fece personalmente donazione (o restituzione) ai beati apostoli Pietro e Paolo, nonostante le obiezioni della corte bizantina (756).
Il successore di Astolfo, Desiderio (756-774), riuscì, a fatica, a conciliarsi con Pipino e, alla morte di questo (768), concluse un'alleanza matrimoniale con la nuova dinastia franca (matrimonio delle due figlie di Desiderio, Ermengarda e Gerberga, coi due eredi di Pipino, Carlo e Carlomanno). Tanto gli riuscì per una breve crisi del papato, sopravvenuta dopo la morte di Stefano II (III), nel decennio di regno di Paolo I e dei due antipapi Costantino II e Filippo, creatura, questo, dello stesso re longobardo (757-767). Ma, risoltasi questa crisi con l'elezione di Stefano III (768-772), il papato riprese la politica di Zaccaria e di Stefano II (III), nettamente antilongobarda: Stefano III disapprovò con parole roventi i vincoli stretti tra la dinastia franca e la longobarda, tanto che poco dopo (771) Carlo ripudiava Ermengarda, mentre Carlomanno moriva, lasciando il fratello unico erede del regno dei Franchi. Le due principesse tornarono in Italia, e Desiderio chiese giustizia al nuovo papa, Adriano I (772-795), per i figli di Gerberga, che Carlo aveva escluso dall'eredità di suo fratello. Non l'ebbe, e allora invase la donazione di Pipino, risoluto a raggiungere Roma; con l'effetto di provocare, a richiesta di Adriano I, l'intervento di Carlo il quale riportò sull'esercito longobardo condotto dal figlio di Desiderio, Adelchi, una prima vittoria, che gli spalancò le porte dell'Italia (773).
Desiderio si asserragliò a Pavia, Adelchi a Verona; questa capitolò poco dopo e Adelchi si rifugiò a Costantinopoli nell'intento di ottenere aiuti dall'imperatore Costantino V Copronimo, mentre Carlo si recava a Roma per incontrarsi con Adriano I, confermargli la donazione del padre e assicurarlo della sua fedeltà e della sua protezione. Carlo fece poi capitolare Pavia (774) e mandò re Desiderio a chiudere i suoi giorni nel monastero di Corbie; e a Pavia, presenti i duchi o i messi dei duchi longobardi venuti da ogni parte d'Italia a fargli atto di sottomissione, fu incoronato re dei Longobardi, ossia successore legittimo di Desiderio.
Finiva così, dopo due secoli, la dominazione longobarda, della quale sopravvisse solo il ducato di Benevento, già da tempo praticamente indipendente dal regno. I resti del popolo che aveva tanto a lungo e pesantemente oppresso l'Italia, soprattutto nei primi decenni (quelli delle spoliazioni e delle eliminazioni in massa dei proprietari e dei notabili, dell'uso indiscriminato delle armi contro gli inermi, dell'oppressione dei cattolici e dell'esaltazione degli ariani, del diroccamento delle città e dello sconvolgimento delle campagne, dell'eversione, infine, dell'economia, delle strutture sociali e dei costumi, di cui echeggiano, per es., gli scritti di papa Gregorio Magno), si confusero con la massa umiliata degli Italiani sotto la nuova dominazione franca.
Dominazione politica e militare questa, non invasione di popoli erranti in cerca di sede, e dominazione di una nazione che, a differenza di quei popoli, aveva un'organizzazione statale, sia pure ancora primitiva, ma in corso di sviluppo e strutturazione.

L’ETA` CAROLINGIA

Dopo l'incoronazione a re dei Longobardi, Carlo lasciò il regno alle cure dei duchi preesistenti limitandosi a esigere da loro il giuramento di fedeltà e a sottoporli a una blanda vigilanza da parte di propri ufficiali. Ma durante la sua assenza i duchi, sobillati dall'esule Adelchi, si ribellarono; Carlo calò di nuovo in Italia e li destituì tutti, trasformò i ducati in più ampie regioni amministrative e le affidò a reggenti di nazionalità franca, suoi comites, conti o marchesi (cioè conti messi al governo di una marca, o territorio di confine, quindi di maggiore responsabilità), strettamente vincolati alla sua persona (776). Nemmeno questa sistemazione si dimostrò tuttavia soddisfacente, per le ambizioni del superstite principe longobardo Arechi II di Benevento sui territori della Chiesa; così che Carlo, invocato dal papa Adriano I, fece una terza spedizione in Italia, acquietò il principe e, a Roma, fece consacrare dal papa i suoi figli Carlomanno, ribattezzato Pipino, re d'Italia, e Ludovico re d'Aquitania (781). Comparve allora per la prima volta il nome di regno d'Italia, a designare quello che era stato il regno dei Longobardi, e Pavia ne rimase la capitale. Lo stesso Arechi II, tornato all'attacco del territorio romano, provocò la quarta discesa di Carlo, che rese tributario il principe beneventano (786). I tentativi immediatamente successivi di Adelchi di rimettere piede in Italia, contando sull'aiuto bizantino e beneventano, naufragarono.
Carlo Magno dominava già su un impero, quando, esortato dagli ambienti colti della sua corte e invitato personalmente, in veste di patricius Urbis, da papa Leone III (795-816), venne a Roma, e la notte di Natale dell'800, in San Pietro, fu cinto dal papa della corona imperiale. Da questa cerimonia nacque l'istituto del Sacro romano impero, concepito non già come una realtà nuova, ma come la riapparizione in Occidente dell'antico unico Impero romano, rinnovato per la sua compenetrazione con la Chiesa romana e arricchito così di un arcano significato carismatico. Bisanzio fu umiliata: si parlò di ritorno dell'Impero alla sua sede originaria (translatio Imperii), voluto dalla provvidenza dopo un necessario periodo di permanenza a Costantinopoli. Ovviamente gli imperatori d'Oriente non accettarono mai questa tesi, e continuarono a considerarsi i legittimi continuatori dell'Impero nato con Augusto (o, secondo la concezione medievale, con Cesare).

ORGANIZZAZIONE POLITICA E AMMINISTRATIVA DELL’ITALIA

Al momento della conquista carolingia l'Italia venne a trovarsi all'incontro di tre sistemi imperiali: quello franco, limitato da un immenso arco di confini, quasi un semicerchio, dalle foci dell'Ebro a quelle dell'Elba e da queste ultime a quelle della Narenta; quello bizantino, che aveva i suoi avamposti occidentali nel Mezzogiorno italiano; quello arabo, pure steso ad arco intorno al Mediterraneo dalla Siria all'Egitto, dall'Egitto al Marocco, dal Marocco, oltre lo stretto di Gibilterra, alla penisola iberica, alla destra dell'Ebro. E i tre imperi premevano sull'Italia: quello franco vi si incuneava col Regnum Italiae, che di fatto finiva poco sotto Roma; quello bizantino con Venezia, parte della Puglia e della Calabria, la Sicilia e la Sardegna (la Corsica apparteneva al Regnum Italiae); quello arabo aveva a portata di mano la Sicilia, e non avrebbe atteso molto a prenderne possesso. Nel cuore della penisola, Roma, col suo vasto patrimonio tra il Tirreno e l'Adriatico, costituiva un'entità relativamente compatta; viceversa a sud, il vecchio principato di Benevento, esteso anch'esso da un mare all'altro, andava a pezzi, e città come Napoli, Amalfi, Capua, Gaeta, Salerno, Bari e la grande enclave dei possedimenti dell'abbazia benedettina di Montecassino, compresi nel suo ambito, ne erano praticamente indipendenti.
Su quest'area profondamente eterogenea, non meno dal lato umano che da quello naturale, col dominio dei Franchi si impiantò, ma allignò a stento, l'ordinamento politico, sociale ed economico che era congeniale ai Franchi stessi e che essi estesero con profitto in tutti i paesi transalpini, il feudalesimo. Il regno d'Italia fu diviso in grandi feudi, tra i quali i più importanti erano le marche di Susa, di Torino, d'Ivrea e di Toscana, i ducati del Friuli, di Lucca, di Spoleto, la contea di Genova, che venivano retti da grandi vassalli del sovrano. I titolari, che si possono chiamare genericamente comites, erano per un lato paragonabili a viceré, in quanto soggetti alla stretta dipendenza, solo in seguito destinata ad allentarsi, del sovrano e alla sorveglianza dei suoi missi dominici; ma d'altro lato la loro veste di funzionari era radicalmente alterata dal fatto che essi erano legati al sovrano anche dal vincolo personale del vassallaggio, essenzialmente fiduciario e contrattuale, per cui costituivano una cerchia, relativamente ristretta, di fedeli, tenuti bensì a prestazioni, soprattutto militari, ma compensati con la concessione del godimento di terre (beneficia) e di immunità di varia natura, consistenti in esenzioni fiscali e privilegi, che consentivano a essi, entro certi limiti, l'esercizio di diritti di natura pubblica nell'ambito dei loro possedimenti personali. In questa tendenza, sempre più accentuata, alla trasformazione del feudo, da ufficio accompagnato da corrispettivi benefici, in possesso personale, consiste la più radicale differenza tra lo Stato romano, essenzialmente centralizzato, e lo Stato feudale, costituzionalmente orientato verso il decentramento, la dispersione, e infine la disgregazione. Questa disgregazione venne impedita da Carlo Magno per la potenza della sua personalità, ma non la poterono evitare i suoi successori.
A Pavia, capitale d'Italia, si adunava l'assemblea del regno, composta soltanto dei maggiorenti, laici ed ecclesiastici: essa aveva il potere di legiferare, ma il re poteva legiferare anche senza consultarla. Le leggi emanate dai Franchi per l'Italia furono raccolte in un corpo (Capitolare italico), raccordato dai giuristi con quelle precedentemente emanate dai Longobardi. Va da sé che in Italia, oltre alle leggi particolari del regno, avevano vigore quelle generali dell'Impero. Nel campo economico, il feudalesimo introdotto dai Franchi non provocò in Italia, come in altri paesi, quelle forme estreme del regime curtense per cui il territorio venne a dividersi in circoli di produzione e di consumo autosufficienti e chiusi, anche se la tendenza fu quella peculiare del feudalesimo di concepire ciascun feudo come un gran campo armato, la cui autosufficienza doveva essere conservata come strumento difensivo. Scambi commerciali continuarono a svolgersi, più o meno intensamente, per impulso delle numerose città, specialmente marinare, che non interruppero mai la loro tradizionale attività. Dal punto di vista sociale s'inserì nella nazione una nuova aristocrazia franca, che venne rapidamente espandendosi e dando luogo, attraverso le diramazioni familiari e nuovi rapporti di dipendenza feudale, a una nuova aristocrazia italiana, sottilmente sfumata. La società rurale si appiattì, per la progressiva riduzione della media e piccola proprietà, assorbita dalla grande, feudale o ecclesiastica; ai medi e piccoli proprietari succedettero coloni legati a svariatissimi tipi di contratti, più o meno restrittivi della libertà personale; persistettero servi e schiavi. La figura del borghese cittadino era ancora rara; i mercanti e gli artigiani avevano una posizione economica e sociale per lo più modesta.
Dopo l'incoronazione imperiale, Carlo Magno non tornò più in Italia; ma l'incoronazione provocò una reazione da parte dell'imperatore bizantino Niceforo I: il contrasto tra i due imperatori sboccò in un conflitto, che ebbe come obiettivo Venezia, già da oltre un secolo autonoma, ma favorevole a riconoscere piuttosto la sovranità di Bisanzio che quella di Pavia. Perciò il figlio di Carlo Magno e re d'Italia Pipino, sostenuto dal patriarca di Grado, che aveva la giurisdizione ecclesiastica su Venezia, fece una spedizione fino alla laguna, ma senza alcun successo (810). Il contrasto tra gli imperatori fu tuttavia composto poco dopo, quando il successore di Niceforo I, Michele I, riconobbe a Carlo Magno la dignità imperiale, contro la promessa della rinunzia a Venezia e a tutti gli altri territori italiani ancora sotto la sovranità bizantina (812). Pipino intanto era morto e il regno d'Italia passato al suo giovane figlio Bernardo (810-818). Poco dopo moriva anche Carlo Magno (814) e si apriva il dramma della successione.

I SUCCESSORI DI CARLO MAGNO

L'Italia ne fu coinvolta sia pure marginalmente: il vincolo tra l'Impero e il papato fu tra i fattori determinanti della storia del tempo. Regnando Ludovico il Pio (814-840), Bernardo fu spossessato del regno, che Ludovico assegnò al primogenito Lotario I (820), associato a lui nella dignità imperiale, e avendo opposto resistenza fu ferocemente sacrificato (818). Lotario I prepose tuttavia le cure dell'Impero a quelle dell'Italia; e in funzione della politica imperiale prima che italiana va considerata la sua energica presa di posizione nei confronti del papa, a cui impose l'obbligo del giuramento di fedeltà. Dopo il trattato di Verdun, primo abbozzo di un'Europa delle nazioni (843), che gli conferiva, con l'Impero, l'Italia, mentre ai suoi fratelli Carlo e Ludovico toccavano rispettivamente la Francia e la Germania, affidò la penisola al figlio Ludovico II, che gli succedette poi anche nell'Impero (855- 875). E dell'Italia questi s'interessò vivamente, sia come riordinatore dei domini feudali, che credette vantaggioso raccogliere in poche grandi marche, sia come assertore, tenace ma in complesso sfortunato, dei diritti dell'Impero sul papato, di fronte a papa Niccolò I (858-867), sia infine come promotore della conquista e dell'annessione dell'Italia meridionale. Qui, tra i resti dei Longobardi (principato di Benevento) e dei Bizantini (Puglia, Calabria, Sicilia), era incominciata e si sviluppava vigorosamente la conquista degli Arabi, i Fatimidi di Tunisi, che accompagnarono l'occupazione della Sicilia (Mazzara, 827; Palermo, 831; Enna, 858; ecc., sino al compimento dell'impresa ai primi del Xsec.) con quella di alcuni grandi centri del continente (Taranto e Bari, 842) e con scorrerie devastatrici; famosa tra le altre un'aggressione a Roma (849, regnante il papa Leone IV), disastrosa tanto per gli attaccati (che ebbero profanate e depredate le basiliche di San Paolo e di San Pietro) quanto per gli attaccanti (che furono decimati con le loro navi nelle acque di Ostia).
Le imprese di Ludovico II nel Mezzogiorno fallirono meno per la sua debolezza che per la condotta subdola dei Longobardi e dei Bizantini, che, avendo tutto da perdere tanto da una vittoria imperiale che da una vittoria musulmana, fecero costantemente doppio gioco. Così che, alla ritirata e alla morte di Ludovico II, la situazione del Mezzogiorno era più confusa di prima: sempre più forti gli Arabi, il principato di Benevento diviso in tre staterelli minori (Benevento, Salerno e Capua), i Bizantini abbarbicati ai loro residui domini e disposti a qualunque compromesso per conservarli o riaccrescerli, i possessi benedettini di Montecassino, costituenti un vero e proprio Stato, intaccati dagli Arabi, Amalfi e qualche altro porto commerciale in balia di se stesso e della fortuna. La situazione peggiorò sotto il successore di Ludovico II, suo zio Carlo II il Calvo (875-877), il cui breve regno registra una serie di scacchi: la logorante guerra coi fratellastri (i figli di Ludovico il Pio, Lotario e Ludovico il Germanico prima, i loro discendenti poi); la concessione ai grandi feudatari dell'ereditarietà dei loro feudi (Capitolare di Kiersy, 877); l'abdicazione a ogni diritto nei confronti del papa Giovanni VIII; l'inerzia nella lotta contro i musulmani, che si stanziarono lungo il Garigliano e di là tennero sotto minaccia tutta l'Italia centromeridionale. Carlo II il Calvo, del ramo carolingio di Francia, crollò all'urto dei suoi congiunti e rivali di Germania, i figli di Ludovico il Germanico: Carlomanno, che gli tolse la corona d'Italia (877, anno in cui Carlo il Calvo morì), poi Carlo III il Grosso, succeduto poco dopo al fratello (879), il quale più per un gioco della sorte che per virtù proprie ebbe la ventura di riunire sul suo capo, l'una dopo l'altra, le corone di Germania e d'Italia, quella imperiale (concessagli con grande riluttanza da Giovanni VIII, 881) e quella di Francia: di ricomporre, cioè, l'unità della grande repubblica cristiana fondata da Carlo Magno. Alcuni potenti signori italiani, come il marchese Adalberto di Toscana, il duca Lamberto di Spoleto, l'arcivescovo Ansperto di Milano, favorirono l'avvento al regno di questi discendenti germanici di Carlo Magno, sgraditi al papa, che propendeva per il ramo francese; ma non si scomposero quando Carlo III fu deposto (887) e la dinastia carolingia perdette per sempre l'Impero.

IL REGNO FEUDALE

Dopo la deposizione di Carlo III, si aperse un lungo periodo di anarchia feudale, che in Italia assunse proporzioni imponenti. La corona regia fu accanitamente disputata da un manipolo di grandi signori, tutti imparentati coi Carolingi: Berengario del Friuli, Guido di Spoleto e suo figlio Lamberto, Arnolfo di Carinzia (re di Germania). Dopo un decennio di guerre, durante il quale tutti vennero in possesso della corona italica, e Guido e Arnolfo anche di quella imperiale, ormai affatto insignificante, Berengario I ebbe la ventura di rimanere unico re. Ma proprio allora, alla fine del IX sec., la penisola fu investita dagli Ungari, ultimi ma ferocissimi invasori, affini agli Unni, che per mezzo secolo circa la devastarono, in tragica concorrenza con gli Arabi insediati nel Mezzogiorno e da poco anche nel Nizzardo. Queste sciagure, contro cui poco poteva, scardinarono la fortuna del re, che riuscì prima ad aver ragione di Ludovico III il Cieco, re di Provenza (o Bassa Borgogna) [divenuto per un breve giro di anni re ed imperatore (901-905)], a ricuperare il regno e a ottenere anche l'Impero (915); ma poi fu sopraffatto da Rodolfo II di Borgogna, che con la complicità di alcuni grandi signori italiani lo spodestò (924).
Ma anche il re borgognone ebbe vita breve: un'intesa familiare tra Ugo di Provenza e i marchesi d'Ivrea e di Toscana, imparentati tra loro, lo costrinse a lasciare il regno, e Ugo ne divenne titolare (926-946). La sua ambizione lo spinse ben presto verso Roma, dove, dalla fine dell'Impero carolingio, imperversava la più squallida e tragica anarchia (la cosiddetta “età ferrea” del papato, che per un secolo fu in preda alle fazioni locali, ebbe tra i suoi titolari alcuni uomini indegni, fu funestato da delitti come l'eccidio di Giovanni VIII, orrori e indegnità come il processo al cadavere di Formoso nell'897, la compravendita della dignità tra Benedetto IX e Gregorio VI nell' XI sec.). E a Roma Ugo arrivò, compiendo una serie di delitti per sposare la donna che in quel momento ne era l'arbitra, Marozia, della famiglia o consorteria fondata e resa potentissima da suo padre Teofilatto; ma non vi poté resistere a lungo per l'ostilità del figliastro Alberico, che lo costrinse a una fuga senza ritorno; poi Alberico tenne Roma come dominio personale per oltre vent'anni (932-955), governandola non senza dignità, col titolo di senatore e principe. Escluso da Roma, Ugo di Provenza cercò di consolidare la sua posizione di sovrano nel resto dell'Italia e di smorzare, non senza successo, gli impeti degli Arabi e degli Ungari; ma fu rovinato dal rivale Berengario II d'Ivrea, nipote di Berengario I, il quale, con l'appoggio di Ottone I di Sassonia, re di Germania, l'obbligò a lasciare il regno al figlio Lotario, sotto la sua reggenza (945), e a tornare in Provenza. Morto poi Lotario, Berengario II assunse la corona d'Italia insieme col figlio Adalberto (950) ed esiliò la vedova del giovane re, Adelaide di Borgogna. Ma costei ottenne la protezione dello stesso Ottone I di Sassonia, che, in veste di vindice dei diritti dei re di Germania sull'Italia, passò immediatamente le Alpi e, mentre Berengario II si rifugiava nella sua marca d'Ivrea, prese a Pavia la corona reale e sposò Adelaide (951). Ottone rimase poi assente dalla penisola per un decennio, tollerando che Berengario II, rimessosi alla sua discrezione, ne riassumesse il titolo di re come suo vassallo. Il compromesso ovviamente fallì, Berengario II intrigò per rendersi indipendente e s'inimicò gran parte dei signori italiani, compreso il papa Giovanni XII, figlio di Alberico e come questo risoluto a tenere soggetta Roma e a liberare il papato dalle pressioni, manomissioni e servitù, che da tanto tempo gli venivano inflitte dall'aristocrazia locale e dai grandi signori di fuori. Perciò Ottone tornò in Italia, non incontrò resistenza da parte di Berengario II, fu confermato re a Pavia e coronato a Roma imperatore da Giovanni XII (962). Da questo momento, le corone di Germania, d'Italia e del Sacro romano impero rimasero congiunte.
L'incoronazione imperiale fu accompagnata da un privilegio, col quale Ottone I riconobbe al papa la legittimità dei suoi possessi territoriali, ma pretese da lui il giuramento vassallatico, cioè il riconoscimento della sua supremazia. Ciò diede luogo a un conflitto, a cui prese parte l'aristocrazia romana avvezza a disporre del soglio pontificio, e divisa in due potenti fazioni, i Tusculani, fautori dell'imperatore, e i Crescenzi, avversari, e sfociò nella deposizione di Giovanni XII, che Ottone I sostituì con un primo pontefice a lui fedele (Leone VIII, 963-965), poi con un secondo (Giovanni XIII, 965- 972), intervenendo personalmente nelle contrastatissime elezioni. L'energica azione dell'imperatore negli affari romani frenò, e fece volgere al declino, l'onnipotenza delle fazioni cittadine sulle elezioni pontificie, ma sottomise praticamente per alcuni decenni il papato all'Impero.
Fu questo il maggior successo italiano di Ottone I. Il suo progetto di sottrarre l'Italia meridionale al dominio bizantino fallì sia sul piano diplomatico (matrimonio del figlio ed erede Ottone II con la principessa bizantina Teofano, con promessa dell'apporto dell'Italia meridionale come dote), sia sul piano militare, successivamente tentato (spedizioni nel Mezzogiorno); la questione finì in una pace di compromesso tra i due imperi, sulla base dello status quo ante. Più complessi, e di maggior portata, furono gli esiti di un altro punto programmatico dell'imperatore: la creazione del feudalesimo ecclesiastico (i vescovi-conti), destinata ad assoggettare mediante il vincolo di vassallaggio una classe già straordinariamente potente, e a contrapporla, come elemento equilibratore, alla grande feudalità laica.
Il figlio ed erede di Ottone I, Ottone II (associato all'Impero vivente il padre nel 967 e imperatore da solo dal 973 al 983), apparve in Italia, dopo aver duramente combattuto oltre le Alpi contro il duca di Baviera e il re di Francia, solo nel 980, per riaffermare la sua supremazia in Roma, dove sostenne il papa di sua parte, Benedetto VII (da cui fu incoronato) e per conquistare con le armi il Mezzogiorno in nome della moglie, Teofano. Qui si scontrò con Bizantini e Arabi alleati, riportò alcune brillanti vittorie (Taranto e Crotone), ma una sola, infausta, battaglia (Rossano, 982) lo costrinse a una disordinata ritirata. Morì pochi mesi dopo a Roma, lasciando un erede di tre anni, Ottone III (983-1002). Uscito dalla tutela della madre Teofano, poi della nonna Adelaide, questi apparve in Italia tra i quattordici e i diciannove anni come una meteora, per imporre un papa di suo gradimento (Gregorio V, che lo incoronò, 996) e per attuare, sotto il successore di questo, Silvestro II (999- 1003), il suo dotto precettore, quel favoloso piano di riforme che si disse Renovatio Imperii, ed ebbe come teatro Roma. Una povera Roma ridotta a un grosso villaggio chiazzato di pascoli e di boscaglie, ma disseminata di rovine auguste; di qui doveva prendere il corso un rinnovamento, destinato a ridare vita alla santa repubblica, con l'imperatore e il papa al vertice, capace di riconquistare il mondo dissestato dagli infedeli, dai Barbari e dagli indegni Bizantini. Il disegno si ridusse a poche manifestazioni formali, poi cadde nel nulla per la prematura scomparsa di Ottone III e di Silvestro II; l'idea, invece, sopravvisse, e riaccese più volte nel corso del medioevo animi generosi e sensibili al fascino delle tradizioni antiche.

RIFORMA ECCLESIASTICA

L'alba del secondo millennio spuntò tra nubi e tempeste: in Germania, dove fu difficile trovare un accordo per eleggere a successore di Ottone III un suo collaterale, Enrico II (1002-1024) e in Italia, dove si ripeté la situazione di anarchia feudale verificatasi dopo la deposizione di Carlo III il Grosso. Roma e il papato sfuggirono al controllo imperiale; nell'alta Italia, sorretto da una fazione di grandi e medi signori laici, e osteggiato da una fazione di grandi e medi signori ecclesiastici, Arduino marchese di Ivrea si fece coronare re in Pavia, e vagheggiò un regno italico indipendente (1002); nel Mezzogiorno, Bizantini e Arabi si rafforzavano.
Enrico II sconfisse una prima volta Arduino, prese la corona d'Italia e diede alle fiamme Pavia che l'aveva contrastato (1004); Arduino non si riprese più, e due suoi successivi tentativi di riconquistarsi la corona fallirono (1014). A Roma, dopo vari papi di parte crescenziana (antimperiale) e tusculana (imperiale), Enrico II riuscì a imporre un certo ordine, e a consolidare il tusculano Benedetto VIII (1012-1024) che gli diede la corona imperiale (1014) e gli riconobbe il titolo di re dei Romani, rimasto poi a tutti i re di Germania ai quali spettava la promozione all'Impero. Nel Mezzogiorno, intervenne d'intesa col papa per rianimare violenti, ma sterili tentativi locali di ribellione alla sovranità bizantina (rivolta di Melo di Bari [1019], espansione bizantina nel Beneventano e nel Salernitano); ebbe qualche successo in Campania, ma fu arrestato nella Puglia dalla resistenza bizantina e da un'epidemia (1022), e morì poco dopo. Ma, nel bilancio complessivo dell'attività italiana dell'ultimo imperatore della dinastia di Sassonia, va ascritta la sua fattiva collaborazione col papa, sia per restituirgli la libertà dalle fazioni romane, sia per favorire l'azione appena avviata di riforma dei costumi ecclesiastici, sia infine per concorrere alla lotta contro i musulmani che infestavano il Tirreno.
I tempi di Enrico II coincidono d'altronde con gli albori di rinascita che fu propria del Mille. Infatti l' XI fu il secolo, anzitutto, di un risveglio religioso senza precedenti: la lezione dei monaci borgognoni di Cluny si propagò anche in Italia, e dai monasteri riformati, da Camaldoli a Vallombrosa, dalla Fruttuaria a Fonte Avellana, penetrò nel popolo e salì ai potenti, ecclesiastici o laici che fossero. Vi portò fermenti nuovi: si manifestarono, nel nome di Dio e per la salvezza dell'anima, un'intensificazione del lavoro in ogni sua forma, uno sforzo di riordinare le strutture del reggimento politico e religioso e dei complessi associativi, una combattiva insofferenza dell'avanzata musulmana, non mai arrestata, nel mondo cristiano. Su questo terreno si verificarono, profondamente connessi, eventi apparentemente estranei tra loro: una salita verticale delle curve della popolazione e della produzione, un'accelerazione degli scambi, una ricomposizione della società nella cornice della città serrata entro le sue mura e sempre più nettamente individuata; e d'altra parte, disagio e resistenza di grandi privilegiati, conti, vescovi-conti, vescovi quasi-conti, in posizioni di potere più o meno compatibili con una società in evoluzione verso forme nuove, in parte simili, in parte affatto estranee a quelle feudali. Papato e Impero furono sorpresi dalla crisi. Corrado II di Franconia il Salico (1024-1039), successore di Enrico II, seguendo la linea tradizionale, si adoperò per ricomporre nella piramide gerarchica feudale l'Impero, rotto in grandi feudi avidi d'indipendenza, e fece assegnamento a questo fine sul papa Giovanni XIX (1024-1032), dal quale fu incoronato nel 1027 alla presenza di due re, a spettacolare conferma dell'unità e universalità della Santa romana repubblica. Ma quando s'illuse di regnare di fatto, e non solo di diritto, sul Regnum Italiae, incontrò la resistenza armata di Milano, rapidamente cresciuta, col vescovo Ariberto alla testa (1038); Ariberto, spinto dalle circostanze a scegliere tra l'imperatore e i concittadini, aveva infatti preferito questi ultimi, chiamandoli a raccolta intorno a sé per l'affermazione di una civitas autonoma, solidale e ambiziosa di espansione e di predominio in terra lombarda. E fu appunto durante l'assedio di Milano che Corrado II, sperando di seminare la discordia tra i cittadini, della cui solidarietà aveva fondatissimi motivi di dubitare, legiferò l'irrevocabilità e l'ereditarietà dei feudi minori (Constitutio de feudis, 1037).
Milano dei tempi di Ariberto offre un esempio insigne, ma non unico, della configurazione nuova che veniva assumendo l'Italia come terra di città, costellazione di centri politico-sociali, culturali, economici aventi ciascuno un proprio volto e proprie istanze di autonomia, avviata a concretarsi nell'ordinamento comunale. Ma anche Firenze, sotto l'egida non di un prelato, ma di un marchese, Ugo di Toscana, e della sua discendenza, aveva già tolto a Lucca il rango di polo d'attrazione delle forze più vive della Toscana; e Pisa e Genova, Amalfi e Venezia si comportavano come Stati indipendenti sia negli ordinamenti interni sia nelle iniziative esterne, cioè nella politica marinara, che per le prime tre significava cacciata dei musulmani dal Tirreno e condominio o predominio sulle sue acque e isole, e, per Venezia, conquista dell'Adriatico.
Un altro mondo conviveva con questo, in una simbiosi quanto mai precaria: quello dei grandi feudi come le grandi marche piemontesi d'Italia (unite ai feudi transalpini dei Savoia) e del Monferrato, le venete di Verona e del Friuli (quest'ultima soggetta al patriarca d'Aquileia), le tosco-umbre di Toscana, di Camerino e di Spoleto; qui la tradizione feudale prevaleva sull'innovazione cittadina, come la componente rurale della popolazione prevaleva su quella urbana. E un terzo mondo, infine, era costituito dal Mezzogiorno, a sua volta dissociato in organismi instabili: la Sicilia musulmana, divisa in principati discordi, la Calabria e la Puglia bizantine, in guerra cronica, coi musulmani dell'isola; i principati di Benevento, di Salerno e di Capua, frammenti dell'antico ducato longobardo; i ducati di Napoli, Gaeta e Sorrento, isole di una vitalità economica, sociale e culturale diversa e più intensa di quella dell'ambiente circostante. Su questo terzo mondo, poi, cominciava a propagarsi e a imporsi l'elemento immigrato che nel giro di meno di un secolo ne avrebbe radicalmente mutato e fissato per oltre ottocento anni il destino: i Normanni.
La storia d'Italia, fino a ora frammentaria e dissociata, se non si compose secondo una linea unitaria s'inserì però in un più ampio e coerente quadro ideale con lo sviluppo della riforma ecclesiastica, che fu un evento religioso, morale, politico e altresì economico- sociale di portata europea. A produrla concorse anzitutto il movimento monastico di Cluny; ma a dargli forma e vitalità fu la successiva collaborazione del papato e dell'Impero, che sensibilizzò tutti i ceti sociali, dai più elevati ai più umili. Enrico III (1039- 1056), convinto assertore della causa della riforma, fece eleggere i primi papi riformatori, vale a dire i precursori di Gregorio VII, da cui la riforma si suol chiamare nel suo complesso gregoriana: Clemente II, Damaso II e, dopo i brevissimi regni di questi, Leone IX (1049-1054) e Vittore II (1055-1057), nella cui cerchia operarono i grandi teorici della riforma stessa, Umberto di Silvacandida, Pier Damiani e Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII. Papa e imperatore erano certi che un radicale rinnovamento della vita ecclesiastica fosse la premessa per l'instaurazione della Sancta romana republica, cioè di quella ideale unità religiosa e politica del mondo sotto la guida dei due sommi poteri, per la salute dei popoli affidati da Dio alle loro cure, che è l'idea-madre di tutto il pensiero medievale.
L'alleanza tra il papa e l'imperatore provocò violente reazioni. Reagirono i Normanni anzitutto, che sotto l'audace condotta degli Altavilla, fra il 1040 e il 1050 circa, si erano saldamente piantati in Puglia e in Campania, aspirando alla conquista del Mezzogiorno, dove i papi avevano imponenti interessi; il possesso di Benevento diede luogo a una guerra, in cui Leone IX, alleato ma non soccorso da Enrico III, fu sconfitto e catturato da Roberto d'Altavilla, detto il Guiscardo (Civitate, 1053), e indotto a riconoscere la preminenza normanna nel Mezzogiorno. Contemporaneamente la grande marca di Toscana, per la morte del marchese Bonifacio, e per il matrimonio della vedova Beatrice col duca Goffredo II, duca della Bassa Lorena (1053), vassallo e nemico di Enrico III, nonché del pontefice, rendeva vulnerabile Roma anche da nord. L'anno seguente, infine, lo scisma di Michele Cerulario, sottraendo il mondo greco all'obbedienza romana (1054) aggravava ancora la situazione del papa. La morte di Enrico III, che lasciava un erede in minore età, Enrico IV (1056-1106), mentre era papa Vittore II (1054-1057), dissipò in parte le difficoltà: salì al papato Niccolò II (1059-1061), che, con l'assistenza di Ildebrando, iniziò una politica intesa ad attuare, senza il concorso o la tutela dell'imperatore (che praticamente non c'era), ma con l'appoggio di potenti e di umili, acquisiti alla causa della riforma, la piena indipendenza della Chiesa da qualsiasi ingerenza laica, quella libertas Ecclesiae, che equivaleva alla supremazia assoluta. Niccolò II, infatti, non solo rinnovò la condanna della simonia e del concubinato, ma decretò che, per l'avvenire, l'elezione del papa fosse riservata ai cardinali romani e sottoposta all'approvazione del clero e del popolo romano, senza alcun intervento esterno, nemmeno da parte dell'imperatore, a cui era richiesto solo un atto formale di gradimento (1059). Il papa si cautelò dalle conseguenze di questo gesto, che in Germania fu accolto con sdegno, riconoscendo Roberto il Guiscardo e suo fratello Ruggero come signori, e suoi vassalli, per tutte le terre che avessero sottratto ai Bizantini scismatici e ai musulmani infedeli e ricondotte alla Chiesa; come a dire, non solo il Mezzogiorno, ma anche la Sicilia, di cui Roberto iniziò subito la conquista (Messina, 1061). Al tempo stesso, la causa papale trovava crescenti consensi nei domini dei marchesi di Toscana e in Lombardia, dove s'accendevano violenti conflitti, specie a Firenze e a Milano, tra i suoi sostenitori e i suoi avversari; vescovi o prelati simoniaci (o presunti tali) questi, popolani quelli (detti a Milano patarini), confortati e controllati insieme da grandi assertori della riforma: Pier Damiani, Anselmo da Baggio, Giovanni Gualberto.
Alla morte di Niccolò II, la corte imperiale tentò d'impedire, facendo leva sui fautori italiani, che gli succedesse un nuovo papa riformatore, e subì lo scacco di vedere eletto, secondo le norme di Niccolò II, Anselmo da Baggio col nome di Alessandro II (1061-1073). Non vi si adattò, ruppe col papa, gli contrappose un antipapa, Cadalo di Parma (Onorio II), intrigò con Bisanzio per creare difficoltà ai Normanni alleati con lui, accese defezioni, tumulti e guerre in Lombardia, in Toscana, a Roma. Con tutto ciò, nel 1065, Alessandro II poteva considerarsi vincitore, e ritenere perfino opportuno frenare i movimenti popolari lombardi e toscani in suo favore, grazie a una serie di fatti che consentivano di sperare giorni meno tempestosi: la scomparsa dell'antipapa, la fine della reggenza e l'assunzione diretta del potere da parte del giovane Enrico IV, che sotto certi aspetti si presentava come incline a riprendere la politica del padre, una più risoluta adesione del marchesato di Toscana alla Santa Sede (specialmente, dopo la morte di Goffredo, da parte della vedova Beatrice), una cauta ma fruttuosa politica di conservazione e di consolidamento dell'alleanza coi Normanni, proprio nel momento dei loro maggiori successi, la conquista di Bari, per opera di Roberto il Guiscardo, che segnò la fine della dominazione bizantina in Italia (1071) e di Catania e di Palermo (1071-1072), per opera di Ruggero, fratello di Roberto, che inferse un colpo mortale alla dominazione musulmana nell'isola. Montecassino e i territori liberati dagli Arabi in Sicilia divennero centri di propagazione della riforma in ambienti insidiati rispettivamente da scismatici e da infedeli, e di influenza del papato, che per il tramite dei principi normanni vassalli vi imponeva (sia pure facendo molte larghe concessioni) la sua alta sovranità.
Ma, in questi stessi anni, Enrico IV aveva cercato di imporre quanto più possibile la sua autorità all'episcopato e alla feudalità della Germania, aveva sposato Berta di Savoia, per mettere radici in Piemonte, s'era fatto difensore, nei moti patarinici di Milano, della parte avversa, e tutto ciò evitando una rottura con Alessandro II, che a sua volta usò con lui la massima prudenza. Questo fragile equilibrio si spezzò quando ad Alessandro II succedette Gregorio VII (1073-1085), Ildebrando di Soana, che da un trentennio esercitava alla corte pontificia una coerente, costante, irresistibile attività di consigliere e stimolatore della riforma, da lui concepita come premessa della definitiva conquista di una libertas Ecclesiae, coincidente con la supremazia assoluta del papato sul mondo, quale risulta dalle lapidarie espressioni del suo Dictatus papae. La rottura tra Gregorio VII ed Enrico IV aprì una guerra quasi semisecolare, la cosiddetta lotta delle investiture (1075-1122), che interessò tutta la cristianità, ma ebbe in Italia i suoi momenti più drammatici. Poiché Gregorio esigeva ed Enrico rifiutava la rinuncia, da parte imperiale, al tradizionale diritto di conferire investiture ecclesiastiche, episcopali e abbaziali, il papa scomunicò e dichiarò deposto l'imperatore, e sciolti i suoi vassalli e sudditi da ogni dovere di obbedienza (1076). A Enrico IV mancò la solidarietà di gran parte dei principi germanici, i quali gli contrapposero Rodolfo di Svevia. L'imperatore allora imboccò l'unica via di salvezza che gli restava e accettò di venire in Italia per chiedere il perdono del papa, che gli fu concesso, dopo i rituali atti di contrizione e di umiltà, nel castello di Canossa (1077), dove i due sovrani furono ospitati per l'incontro dalla contessa Matilde, figlia ed erede di Bonifacio e Beatrice di Toscana, la maggiore potenza feudale d'Italia e la più fedele al papato. La calcolata umiliazione fruttò a Enrico IV la ripresa del controllo, almeno parziale, della Germania e un riacquisto di potenza tale da indurlo a venir meno agli impegni presi col papa in materia di investiture. Donde una nuova scomunica, a cui l'imperatore rispose con la deposizione del papa, l'elezione di un antipapa (Clemente III, arcivescovo di Ravenna, eletto a Bressanone nel 1080) e una spedizione in Italia. Enrico IV mosse verso Roma e, dopo un lungo assedio, vi entrò a forza, insediò in Laterano l'antipapa e ricevette da lui la corona imperiale (1084). Gregorio VII, rinserrato in Castel Sant'Angelo, attendeva i soccorsi normanni. Roberto giunse infine con uno stuolo di soldati; ma Enrico IV evitò lo scontro e, allontanatosi con l'antipapa, il seguito e l'esercito, ripassò le Alpi, mentre i Normanni riconducevano bensì Gregorio VII in Laterano, ma mettevano a sacco Roma; tanto che il papa, profondamente turbato, lasciò poi la città insieme col Guiscardo e andò a morire a Salerno (1085). Vittore III (1086-1087) e Urbano II (1088-1099) ebbero pontificati difficili, contrastati dall'antipapa Clemente e dall'imperatore. Per questo i successi italiani rimasero infruttuosi; senza pace in Germania, battuto in Italia in una nuova spedizione dalle forze matildine, insidiato dai figli Corrado ed Enrico, che gli contesero la corona, Enrico IV, nel ventennio in cui regnò dopo l'incoronazione romana, declinò continuamente, e precipitò da ultimo verso una fine (1106), da vinto e da esule, non meno triste di quella di Gregorio VII. Intanto il papato riprendeva quota, e col bando (1096) e il trionfo della prima @19Crociata#4344181Z3ZZ@*19, polarizzava ancora una volta intorno a sé il mondo cristiano e l'Italia: in particolare, l'Italia marinara, quella che faceva capo a Pisa, a Genova, ai porti normanni del Mezzogiorno, a Venezia, interessata all'impresa da incomprimibili esigenze di espansione. Qui erano le punte più avanzate di aree economicamente e socialmente in processo di rapido sviluppo, la valle del Po, la Toscana, la Campania, in misura minore la Puglia, per cui i grandi porti italiani venivano affermandosi sempre più come mediatori di correnti di traffico tra i paesi d'oltremare e l'Europa continentale e settentrionale. Venezia aveva già la signoria dell'Adriatico, e in concorrenza coi Normanni, divenuti padroni della Puglia, svolgeva un'irruente politica di espansione economica nel mondo bizantino, favorita da larghi privilegi imperiali; Genova, Pisa, Amalfi avevano conquistato il controllo del Tirreno combattendo i musulmani e tenendoli lontani dalle isole e dalle coste. Alle loro spalle, sorgevano nuove condizioni di vita: favorevoli nel territorio padano e toscano, dove i Comuni erano espressione di un'intensa vitalità economica e politica; meno favorevoli nel Mezzogiorno, dove l'azione unificatrice dei Normanni contrastava lo sviluppo delle città marinare.

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