Vari temi di letteratura.

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Testo

(Impegno e disimpegno, poetiche e ideologie del fenomeno culturale più dissacratorio di tutto il Novecento)
I primi anni del Novecento segnano, in ogni campo, il distacco dal passato, il balzo verso un avvenire più “tecnologico”. Il nuovo secolo si annuncia, infatti, come il secolo delle più grandi invenzioni della storia dell’umanità: la luce elettrica permette all’uomo di uscire per sempre fuori dal tunnel di una lunga notte che per millenni lo ha condizionato; l’automobile gli consente di provare emozioni, gusti, odori, sensazioni che nessuno prima ha mai sentito; la potenza devastatrice delle armi genera un’esaltata euforia; l’aeroplano sembra coronare l’antico sogno dell’uomo di dominare anche il cielo. Simbolismo e crepuscolarismo avevano già avvertito, anche se in sordina, la crisi del secolo romantico di fronte ad un mondo sempre più movimentato, a un’Europa sempre più aperta grazie al lungo periodo di pace e alle Esposizioni Universali che, oltre all’economia, favorivano lo scambio delle idee. Ma chi se ne rende conto, con chiara coscienza e programmatica provocazione, è Filippo Tommaso Marinetti, fondatore, teorico ed animatore del Futurismo. (Tutta l’avventura futurista inizia, infatti, con il “Manifesto” di Marinetti pubblicato a Parigi nel 1909, con la funzione di propagandare lo stile innovativo di questa vivace corrente artistica e letteraria d’avanguardia sviluppatasi in Italia nel primo decennio del ‘900.)
Se il Crepuscolarismo è una prima forma di avanguardia italiana e un primo timido tentativo, peraltro tutto letterario, di dare una risposta nuova alla tradizione, ripensando la funzione del poeta e del poetare, il Futurismo, invece è un più rivoluzionario movimento d'avanguardia che ha risonanza europea. Il Futurismo, infatti, vuole programmaticamente dare una risposta radicale al “passatismo” della tradizione, coinvolgendo la totalità degli aspetti della cultura e dell’arte: dalla letteratura, alla pittura, alla musica, allo spettacolo, ecc. Vuole porsi come modo di sentire e di vivere, sintonizzandosi con le espressioni tipiche della vita moderna nelle sue variabili più vistose: la tecnica, l'industria, la macchina, la velocità, la massa, la città, la pubblicità, ecc. Nel loro primo proclama, il “Manifesto” del 1909, i Futuristi scrivono: “Noi vogliamo cantare l'amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.”
È evidente il bisogno di vivere globalmente e totalmente, ma spesso acriticamente, la contemporaneità, con una carica dirompente e una furia iconoclasta verso il passato, il vecchio e il tradizionale, con un atteggiamento polemico e provocatorio che faranno del Futurismo il protagonista assoluto e scandalistico del dibattito culturale pubblico tra il 1909 e il 1913.
Il Futurismo nasce ufficialmente quando a Parigi, sulle colonne del “Figaro” del 20 febbraio del 1909, appare il “Manifesto del Futurismo”, a firma di Filippo Tommaso Marinetti.
La scelta della tribuna parigina per il lancio del movimento è azzeccata e si rivela subito una gran cassa di risonanza capace di interessare aree culturali molto lontane, dalla Francia alla Russia dove il Futurismo ebbe altro svolgimento e, a livello letterario, produsse le sue cose migliori.
Nel 1909 esce sul quotidiano parigino “Le Figaro” il primo “Manifesto del Futurismo” contenente i semi fondamentali di questa delirante e fruttuosa esperienza. Punti fondamentali e irrinunciabili della nuova corrente sono l’esaltazione della velocità (“un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia”), la glorificazione della guerra “sola igiene del mondo”, la distruzione “dei musei, delle biblioteche, delle accademie d’ogni specie” per togliere di mezzo una cultura morta che si regge sul “passatismo”, la liberazione dell’Italia “dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologi, di ciceroni e d’antiquarii”. Nessuno ha mai osato dire tanto e così esplicitamente, soprattutto, perché la tribuna dalla quale Marinetti parla non è solo la “provincia” italiana, ma addirittura Parigi. D’altra parte, Marinetti è irriducibile e continua a tuonare provocatoriamente: la violenza e il paradosso estroso delle immagini si reggono su un’estrema pirotecnica del linguaggio, tratto molto spesso dalla nuova realtà industriale del secolo, e reso incalzante da una foga irruente del discorso continuamente arrembante, spiritato, talora profetico e visionario.
Al movimento, accompagnato da fenomeni del gusto e della moda, aderiscono ben presto scrittori e artisti di varia natura e provenienza culturale: i poeti Corrado Govoni e Aldo Palazzeschi, ad esempio, dopo aver attraversato l'esperienza crepuscolare.
Trascurando tutti gli altri innumerevoli campi in cui il Futurismo porta le sue regole della trasgressione e della novità, un ruolo particolarmente significativo svolge il Manifesto del Teatro di Varietà del 1913, ancora una volta firmato da Marinetti. La scelta è di nuovo dissacrante e provocatoria; dopo aver proclamato il proprio “schifo” per il teatro contemporaneo “minuzioso, lento, analitico e diluito, degno tutt’al più della lampada a petrolio”, Marinetti rivela i pregi del Varietà: “distrugge il Solenne, il Sacro, il Serio, il Sublime dell’Arte coll’A maiuscola”. La furia iconoclasta continua, la volontà di cambiare il mondo non si è ancora calmata. “Il Futurismo – scrive ancora Marinetti – vuole trasformare il Teatro di Varietà in teatro dello stupore, del record e della fisicofollia”.
Uno stato di volontaria allucinazione, dunque, che dà frutti buoni e meno buoni. Da un lato una frenetica attività, davvero una passione, che sconvolge l’Europa intera, approdando perfino nella lontana Russia (si pensi a Blok, Esenin, Majakovskij); dall’altro un entusiasmo talora un po’ epidermico per l’esaltazione della forza e della violenza che porta i futuristi, dietro il capofila Marinetti, a impegolarsi con l’esaltazione della guerra “sola igiene del mondo” e con l’avventura fascista che si presenta proprio con i caratteri roboanti così cari al movimento. Tuttavia bisogna osservare che vera e propria adesione politica al verbo mussoliniano si può forse attribuire solo a Marinetti, mentre la “corte futurista” badava probabilmente di più ad ottenere fama e commesse grazie all’illustre amicizia. Certamente un pizzico di opportunismo e qualche illusione da “grandeur” devono aver giocato un ruolo importante nella compiacente adesione al nuovo regime che, capace di ridare a Roma un impero, sembra promettere seriamente di consentire quella “Ricostruzione futurista dell’Universo” teorizzata nel 1915.
Nato in Francia nel 1910 da genitori italiani, il Futurismo ebbe risonanza europea e costituì una nuova ventata rivoluzionaria che scosse l’ambiente dell’arte. Il clima in cui maturò l’avventura futurista era dominato da un rapido sviluppo sia della scienza che delle nuove tecnologie, sotto la pressione dei grandi interessi industriali e finanziari. La realtà del primo Novecento, infatti, appare caratterizzata dalla macchina, dalle masse operaie emergenti, dalla metropoli che si diffonde a “macchia d’olio”; e ancora, dall’automobile e dall’aereo, simboli di una velocità sempre più frenetica, dal telegrafo, dal telefono, dal cinema, simboli delle accelerate comunicazioni di massa.
E sono proprio i modelli di questa nuova realtà ad attirare l’attenzione e la simpatia dei futuristi: le macchine, i grandi complessi industriali, le città moderne, la velocità, il telegrafo, il telefono, il cinema ed, infine, l’automobile, nuovo mito nascente, ne sono alcuni esempi. Il Futurismo celebrò il mito della macchina e della velocità e la concezione della guerra come “sola igiene del mondo”.
È in questo quadro storico che l’intellettuale vive lo “shock della modernità”, cui cerca di reagire con risposte diversificate. Quale la risposta dei futuristi? Essi si fanno banditori e sacerdoti della nuova civiltà nel bene e nel male, esaltandone alcuni vistosi aspetti, quali la velocità, la simultaneità, l’automobile che è il nuovo fascinoso mito destinato a tanto avvenire. Compreso l’inarrestabile sviluppo della nuova realtà portata dalla macchina e l’impossibilità di esorcizzarla, i futuristi aprono la via all’esaltazione, spesso indiscriminata, della civiltà industriale e urbana.
Una volta accettata questa logica, i futuristi promuovono un violento attacco contro l’arretratezza delle strutture socio-economiche del paese, contro la mancanza di un profondo sviluppo tecnologico che, in quegli anni, tanto ancora differenzia il clima nazionale dal clima metropolitano europeo. Scatenano la loro violenza “travolgente e incendiaria”, i loro artifici provocatori contro tutto ciò che è di ostacolo a un nuovo progresso industriale e alla dimensione del moderno. Attaccano anche il vecchiume delle istituzioni culturali e letterarie, lo stagnante culto dell’arte, l’umanesimo antiproduttivo del poeta.
Il Futurismo, contro la cultura e l’arte tradizionale, propugnò una nuova estetica ed una nuova concezione di vita, fondate sul dinamismo come principio – base della moderna civiltà industriale. Marinetti aggredì gli schemi arcaici e vincolanti della cultura tradizionale con violenza ed asprezza e ne attuò una impetuosa corrosione.
I futuristi, quindi, rinnegarono il passato e guardarono alla realtà dell’era meccanica, nella quale tutto si muove, tutto corre. Nacque da ciò l’esigenza di dipingere l’oggetto in movimento, o meglio il movimento stesso degli oggetti nello spazio, creando composizioni in cui sono resi concreti dinamismo, velocità, suoni, odori, rumori; gli oggetti, in tal modo, venivano rappresentati con un procedimento molto simile a quello attuato dai cubisti che, sulla superficie piana della tela, scomponevano l’oggetto nei suoi volumi, in tutte le sue parti, visibili e nascoste, riducendolo quasi ad una sequenza di forme geometriche organizzate in una visione simultanea nel tempo e nello spazio. Si tratta di immagini che si deformano in un turbine di linee, forme e colori, dentro il quale lo spettatore si sente quasi trascinato. (Per rendere evidente questa esplosione di movimento e velocità i futuristi scomposero e costruirono le immagini con un procedimento molto simile a quello adottato dai Cubisti.)
Al di là di ogni pericolosa e ambigua esaltazione, resta comunque che oggi tutta la critica riconosce che il Futurismo italiano è stato il movimento d’avanguardia più innovativo del Novecento anche a livello europeo. Ripulito dalle incrostazioni di regime, esso viene così riconsegnato ad una dimensione artistica più propria, di sicuro più asettica e meno manichea, caratteristica di un processo di rivalutazione che, attraverso un pullulare di mega-mostre e convegni, sembra contraddistinguere questi iperattivi anni Ottanta.
(La rivoluzione formale) Marinetti, eccezionale protagonista-organizzatore-agitatore, fece seguire a quello dei 1909 altri manifesti: il “Manifesto tecnico della letteratura futurista” (11 maggio 1912) e “Distruzione della sintassi - Immaginazione senza fili - Parole in libertà” (11 maggio 1913).
Nel 1912 Marinetti pubblicò il “Manifesto tecnico della letteratura futurista”. Il suo scopo era essenzialmente quello di liberare la poesia dagli schemi e dai modelli arcaici e vincolanti della cultura tradizionale. Rinnegando il passato Marinetti intendeva rivolgere la poesia al futuro: di qui il nome del suo movimento, appunto il “Futurismo”.
Anche il linguaggio deve essere rivoluzionario se si vuole condurre fino in fondo il processo di definitiva rottura con la tradizione: la parola deve essere foneticamente, graficamente e sintatticamente liberata: “Bisogna distruggere la sintassi… si deve usare il verbo all’infinito… si deve abolire l’aggettivo… l’avverbio… anche la punteggiatura… ogni sostantivo deve avere il suo doppio… c’è bisogno di analogie sempre più vaste… non vi sono categorie d’immagini… distruggere nella letteratura l’io”. Questi i capisaldi del “Manifesto tecnico della letteratura futurista” del 1912, secondo i cui principi Marinetti scrive il poemetto parolibero “Zang Tumb Tumb”, l’“Assedio di Adrianopoli”, dove l’ardore e il fragore della battaglia, il crepitare della mitragliatrice, il sibilo delle pallottole, il rombo del cannone sono resi con invenzioni sia fonetiche che grafiche del tutto inedite.
Importante risulta l’operazione futurista nel liquidare i valori culturali della vecchia borghesia preindustriale, già avviata in tono minore dai crepuscolari, e nel prospettare, non senza ambiguità, un orizzonte di valori culturali e letterari aderenti alla nuova realtà industriale. Ma l'operazione più efficace, linguisticamente e letterariamente parlando, i futuristi la svolgono sul piano tecnico-formale. Mentre i crepuscolari prendono, più di quanto non danno, dalla lingua letteraria e dalla lingua parlata, l'esperienza futurista invece incide in maniera più efficace.
Possiamo così riassumere le nuove proposte linguistiche di Marinetti e dei futuristi: distruzione della sintassi, della punteggiatura, dell'aggettivo, in particolare dell'aggettivo qualificativo, dell’avverbio, della letteratura dell'io.
E ancora, i futuristi recuperano e utilizzano l'onomatopea, l'immaginazione senza fili, l'analogia, l'aggettivo semaforico, il verbo all'infinito, il verso libero, le parole in libertà, lo sperimentalismo grafico.
(Il Futurismo predilesse lo sperimentalismo delle onomatopee, ossia quei suoni che imitano la natura, delle immagini e delle parole in libertà.) Nei futuristi troviamo la volontà di rifiutare il passato e l’esigenza di rinnovare il linguaggio artistico per adeguarlo ai tempi nuovi. In letteratura, infatti, i futuristi proposero una rivoluzione formale basata, oltre che sulla distruzione della sintassi, della punteggiatura, dell’aggettivo, dell’avverbio, anche su una nuova disposizione delle parole “in libertà”, anticipando in tal modo il “Dadaismo”. Si tratta di un movimento artistico e letterario d’avanguardia, sorto a Zurigo nel 1916. Siamo nel periodo della prima guerra mondiale: le distruzioni, la morte, il dolore che il conflitto lascia dietro di sé e il crollo di ogni valore spirituale provocano in un gruppo di artisti, poeti e scrittori pacifisti per lo più profughi, provenienti da varie nazioni e di differenti ideologie, tutti impegnati in una intensa propaganda contro la guerra e rifugiatisi a Zurigo, un gesto di protesta violenta, di accusa e di rivolta contro la società ed i miti da essa costruiti come la cultura tradizionale e le convenzioni sociali. Nasce così il movimento Dada la cui parola, probabilmente presa dal linguaggio infantile, nella sua insignificanza, vuole significare il rifiuto radicale di quel gruppo per ogni atteggiamento razionalistico. Il movimento Dada fu dunque il violento disgusto di intellettuali ed artisti per l’assurdità e l’orrore della guerra; fu un preciso impegno anticonformista; fu la rivolta antiautoritaria che divenne nelle opere di quegli artisti violenza provocatoria; fu la rivolta contro una società impositiva ed alienante che tutto valutava in rapporto alla logica del profitto; fu un’intransigente negazione verso l’arte, al fine di costruirne una nuova, in radicale opposizione a quella tradizionale, o meglio una “anti–arte” che fosse contestatrice, provocatoria, ironica.
Dobbiamo riconoscere a Marinetti e ai futuristi la prospettiva di un nuovo uso del linguaggio poetico e non poetico, il sincero bisogno di rinnovamento formale, oltre che tematico, che veniva a saldarsi con le esigenze dei nuovi linguaggi tecnologici. Lo snellimento sintattico, la tecnica dell'analogia, le parole in libertà segnano uno dei momenti fondamentali nell'evoluzione della poetica moderna e influenzeranno l'evoluzione della lingua fino ai giorni nostri. D'altra parte, però, non possiamo neppure tacere i limiti di un'esperienza che spesso si risolve nei giochi di parole, in smania distruttrice, in puro sperimentalismo grafico. All'efficace azione distruttiva di certi schemi non si affiancò un'altrettanto efficace azione ricostruttrice di schemi diversi. Mancò a questi poeti la coscienza che la lingua, oltre che creazione, è anche costrizione, convenzione necessaria.
FUTURISMO
Il periodo compreso tra l’ultimo decennio dell’800 e gli anni precedenti la prima guerra mondiale, è caratterizzato da una violenta reazione al Positivismo: questo aveva celebrato la fede nella scienza, nel progresso sociale, nella pacifica collaborazione fra i popoli, ma la realtà, fatta di guerre, imperialismi, lotte di classe, era ben diversa da quanto si era sperato. Tale situazione determina nuovi atteggiamenti spirituali: subentra la disillusione, l’angoscia, la sensazione del vuoto e del nulla; in arte si reagisce con la rottura dei moduli naturalistici.
Distrutti i vecchi schemi della cultura positivistica, rinnegati i miti consolatori dell’800, immerso in un mondo sfiduciato nelle prospettive della scienza e della vita politica e sociale, posto di fronte all’ascesa vertiginosa della borghesia capitalistica che impone un modello di società tutto basato sulla logica del capitale e del profitto come unici valori, l’uomo di cultura (europeo) del primo ‘900 vive una profonda crisi d’identità, avverte chiaramente la fine di un’epoca e l’avvento di una nuova e prende coscienza della perdita del suo tradizionale ruolo sociale che era quello del “praeceptor”, del “creatore di valori”. Egli generalmente, al contrario di quanto avveniva nel secolo precedente, proviene dai ceti medi borghesi, una classe sociale che vede compiere il suo declassamento schiacciata com’è tra la forza indiscussa della grande borghesia finanziario-industriale e le emergenti forze del proletariato. Emarginata da questi due colossali protagonisti, la piccola e media borghesia, e con essa l’intellettuale, si sente frustrata, indebolita, disorientata ed, incapace di farsi classe egemone come aspira, si vede ridotta a classe subalterna e strumentale. In questa situazione di inferiorità per gli scrittori scrivere diviene un lavoro come un altro per procurarsi da vivere. In tal modo poeti e scrittori si sentono semplici lavoratori, uomini tra gli uomini, “poveri mortali” come tutti gli altri. Nasce da ciò una situazione di disagio, di noia esistenziale, di malcontento, di provocazione.
La coscienza del disagio esistenziale, del “male di vivere” che travaglia l’uomo contemporaneo è presente in gran parte della poesia e della narrativa dei primi del ‘900.
Lo scrittore avverte con angoscia che sta per compiersi la frattura definitiva, iniziata nell’Ottocento, tra io e mondo, tra artista e realtà e si sente “spersonalizzato”, “disumanizzato”, “disintelligenziato”. Oramai “i tempi sono cambiati”, come dice Palazzeschi, e gli uomini “non domandano più nulla ai poeti”, a quei poeti che altro non sono che “articoli di non prima necessità”, come afferma Gozzano.
Siamo in pieno Decadentismo, periodo che vede un uomo incerto e stanco, sconfitto sul piano politico nella sua libertà e frastornato dalle voci della guerra, che cerca dentro di sé, in un ripiegamento introspettivo, nuovi mondi in cui credere. La faticosa autoanalisi dell’uomo moderno è accompagnata dalla coscienza di quanto sia amaro far parte della storia in un mondo che cerca la propria grandezza nel sopruso, in violenti imperialismi e nazionalismi prevaricatori.
La risposta degli uomini di cultura alla profonda crisi esistenziale, morale e culturale che investe la coscienza dell’uomo agli albori del Novecento e alla crisi che travolge l’intellettuale tradizionale approda a soluzioni diverse e spesso contraddittorie.
Alcuni scrittori si impegnano in una inquieta e tormentosa analisi della malattia dell’uomo moderno nella civiltà industriale e borghese che essi condannano in maniera corrosiva e impietosa. Nelle loro opere questi scrittori parlano di malattia, di eroe in tensione, di inettitudine, di universo labirintico; e ancora di uomo senza qualità, di uomo spersonato nel male del tempo, di male di vivere. Escono dalle loro opere personaggi incapaci di agire, di darsi una consistenza, tesi a smontare la storia dei loro fallimenti e della loro coscienza frantumata. Tali personaggi lottano invano contro i pregiudizi e la morale borghese, contro la città che massifica l’uomo; essi individuano chiaramente i meccanismi alienanti e ripetitivi dell’inferno tecnologico che riduce l’uomo a semplice manovella, rovesciando così i miti imperialistici della macchina in “malattia industriale”. Ma questi personaggi non riescono a configurare pienamente un “uomo nuovo” veramente alternativo; la loro protesta tende a risolversi in se stessa, in una dolente quanto amara impotenza.
L’Italia era stata anch’essa coinvolta dalla crisi di valori che caratterizzò l’intera Europa agli inizi del ‘900; ma la penetrazione della cultura e soprattutto della letteratura decadente, era stata rallentata nel paese dalla persistenza della tradizione aulica. Alcune spie di una nuova sensibilità erano già ravvisabili negli intellettuali futuristi, i quali tendono a risolvere la crisi storica e dell’intellettuale, che pure essi avvertono, in uno sfrenato attivismo, in un’esaltazione incondizionata della civiltà industriale, in una celebrazione della religione della macchina e della velocità. Essi, quindi, come risposta-reazione alla profonda crisi esistenziale, sia morale che culturale, che li travolse agli albori del’900, tesero a liquidare un certo vecchiume culturale, a credere nella positività della rivoluzione industriale e ad esaltare incondizionatamente la civiltà industriale, la macchina, la velocità e la guerra, sentita come azzeramento totale per una nuova ricostruzione, poiché dopo la necessaria distruzione si profetizzava un nuovo mondo guidato da una generazione giovane, forte, vigorosa.
Altri intellettuali e letterati, ossia i Crepuscolari, cercano di risolvere la crisi fuggendo la città, in un impossibile ritorno alla provincia, alla semplicità, all’innocenza ingenua degli affetti sani della campagna o alle “buone cose di pessimo gusto” del tempo passato. Sarà, però, un tentativo tutto programmato e spesso intellettualmente voluto, a cui gli stessi Crepuscolari, in ultima istanza, non crederanno.
La corrente culturale del Crepuscolarismo aveva, quindi, già avvertito, anche se in sordina, la crisi del secolo romantico di fronte ad un mondo sempre più movimentato, a un’Europa sempre più aperta grazie al lungo periodo di pace ed alle Esposizioni Universali che, oltre all’economia, favorivano lo scambio delle idee.
Guido Gozzano è il poeta di maggior spicco e l’interprete più originale della poesia crepuscolare. Dopo un esordio dannunziano, Gozzano si stacca decisamente dal maestro dietro sollecitanti letture di testi simbolisti. D’Annunzio in quegli anni portava ancora avanti la figura del “poeta – vate”, produttore di cultura e guida spirituale, del poeta che pretende di essere la voce del proprio tempo e l’interprete delle esigenze di un popolo, elaborando valori, modelli culturali, paradigmi ideologici. Gozzano invece, e con lui gli altri crepuscolari, si accorge che i tempi sono cambiati, che le certezze della ragione e della scienza sono venute meno, né possono essere sostituite dal culto, inautentico, della “Vita inimitabile” e dei miti ottocenteschi. Si accorge che l’intellettuale, nell’epoca dell’imperialismo trionfante, è schiacciato tra la grande borghesia industriale e le nuove forze sociali del proletariato, ed ha ormai perso il suo ruolo di guida morale e spirituale. Nella nuova realtà il poeta è una figura superata dalla storia, da sottoporre a corrosione critica, a dissacrazione impietosa. L’ironia in Guido Gozzano, si trasforma in coscienza problematica dell’uomo moderno, solo, deluso, sfiduciato in un mondo sospeso tra il ”non essere più” e il “non essere ancora”, oscillante tra le cose che potevano essere e non sono state; un uomo sospeso in una condizione limbale tra un Ottocento che tarda a morire e un Novecento che fatica a nascere, quasi un bruco che non sa divenire crisalide.
E Gozzano esprime la sua delusione di letterato, definendo il poeta un “gianduia”, fino a vergognarsi di “essere un poeta” e rifiutare “la vita sterile del sogno”. La polemica sulla letteratura, sul nuovo modo di essere poeta e di poetare segnano la fine di un’età della cultura, l’esaurirsi di tutta una civiltà delle lettere.
La corrosione polemica contro la letteratura e il “poeta-vate” è rivolta da Gozzano, e qui sta la novità che lo differenzia dagli altri crepuscolari, non solo verso la tradizione letteraria e i suoi interpreti, ma anche verso i temi della propria poesia e, particolarmente, verso se stesso quale personaggio della sua opera. Gli strumenti di questa polemica sono l’ironia, l’atteggiamento critico, il gusto del commento, il prendere le distanze dalla propria materia. Ecco allora che gli oggetti tipici della tematica crepuscolare (topaie, materassi, vasellame, / lucerne, ceste, mobili) sono consapevolmente e lucidamente definiti “ciarpame / reietto, così caro alla mia Musa!” In “Totò Merùmeni” una sottile ironia investe il letterato, la sua tematica e i suoi atteggiamenti comportamentali; ma questa ironia è autoironia, in quanto Totò è la maschera di Gozzano stesso. Attraverso questa maschera, che gli consente il distanziamento critico e ironico, il poeta filtra la polemica ambivalente sia contro la tradizione letteraria che nella mitologia dannunziana aveva un polo di riferimento, fascinoso e nello stesso tempo respinto, sia verso i temi della propria poesia, a cui sentimentalmente Gozzano fatica ad aderire, sia infine verso se stesso come personaggio della propria opera e della propria avventura intellettuale.
Il “veleno” dannunziano, il “sogno di Sperelli”, che, “troppo l'illuse”, rimane una costante della psicologia e del temperamento dello scrittore e, con esso, della generazione crepuscolare. Totò Merúmeni ci appare come l'antieroe, non schematicamente opposto all'eroe dannunziano o estetista in genere, ma problematico perché fatto di attrazione e repulsione verso quel mondo. Infatti Totò, filtrato dalla consapevolezza ironica, mentre dissolve i sogni di “Vita inimitabile" (“Vita” con la V maiuscola) iniettati dal dannunzianesimo, non riesce a sfuggire all'aridità degli affetti, al freddo intellettualismo del ragionatore «sofista». Nelle rovine di un mondo sognato e mai raggiunto Totò non trova che la dimensione consolatoria della scrittura, atto liberatorio in negativo di una coscienza alienata e racchiusa fra le uniche date significative della sua vita: nascita e morte.
Il costante atteggiamento ambiguo e autoironico dell’ispirazione consente al poeta di non identificarsi, come invece succede negli altri crepuscolari, con l'oggetto della rappresentazione; a volte allontana questo oggetto nel tempo e nello spazio, a volte cerca di non prendere troppo sul serio quanto afferma. Alla signorina Felicita confessa: “Mi piaci. Mi faresti più felice / d'un'intellettuale gemebonda... Ed io non voglio più essere io! / Non più l'esteta gelido, il sofista, / ma vivere nel tuo borgo natio, / ma vivere alla piccola conquista / mercanteggiando placido, in oblio / come tuo padre, come il farmacista...” Ma l'inserimento in quel buon mondo provinciale è solo un momentaneo vagheggiamento: “Quello che fingo d'essere e non sono”. All'esteta e al sofista che ha letto Nietzsche, Gozzano contrappone il “borghese buono”, il “buon giovane sentimentale romantico”, all'”intellettuale gemebonda” contrappone la signorina Felicita con la sua dimessa “faccia buona e casalinga”; ma la consapevolezza del cattivo gusto di quelle buone cose e di quel buon mondo, la vigile disposizione ironica impediscono una vera adesione affettiva a questa nuova realtà. L'ironia si trasforma in coscienza problematica dell'uomo moderno, solo, deluso, sfiduciato in un mondo sospeso tra il « non essere più » e il « non essere ancora », oscillante tra le cose che potevano essere e non sono state; un uomo sospeso in una condizione limbale tra un Ottocento che tarda a morire e un Novecento che fatica a nascere, quasi un bruco che non sa divenire crisalide: “non amo che le rose / che non colsi”.
Una costante di Gozzano è allontanare nello spazio e nel tempo gli oggetti e materiali della sua lettura del reale. Nel componimento “L’amica di nonna Speranza” tratto da “I Colloqui” l'occasione per la rappresentazione di un mondo passato è offerta al poeta da una fotografia con dedica ritrovata in un vecchio album di famiglia; la fotografia porta la data “ventotto di giugno del mille ottocentocinquanta”, quando la nonna Speranza e l’amica Carlotta avevano appena diciassette anni. Alla regressione temporale, si accompagna l'allontanamento spaziale nell'intimo del salotto borghese di provincia, ricostruito dal poeta nelle sue suppellettili, nei suoi arredi, nei suoi abbigliamenti, ma anche nei suoi “conversari”, nei suoi gusti letterari, politici, musicali. Nel giardino, di fronte al lago, le collegiali Speranza e Carlotta parlano d’amore sfogliando margherite “per sortilegio sui teneri versi del Prati”, poeta romantico allora di moda.
Nei confronti del mondo rievocato, di quel mondo di “buone cose di pessimo gusto”, Gozzano fa scattare un'affettuosa, divertita ironia. Il poeta, infatti, è troppo disincantato, “chiaroveggente”, come dirà di se stesso, per lasciarsi trascinare e coinvolgere nel gioco della semplice evocazione di oggetti, d’ambienti, di personaggi affioranti dal passato, o per dare la propria adesione sentimentale a quel pur caro mondo di memorie che riaffiorano alla fantasia. L'orizzonte fantastico-evocativo, stimolato dalla foto di Carlotta, trova un approdo finale nella labilità di quell’ingiallito cartone, emblema amaro della vanità dei sogni e dell’inutile evasione in un mondo di memorie accarezzate, ma fatalmente naufragate. L’unica donna che il poeta avrebbe voluto amare è quella della foto, cioè una donna che non esiste più.
La problematicità tematica, il contrasto tra un mondo di cose evocate e ripudiate, amate e derise, trovano conferma nel linguaggio, soprattutto nell'utilizzo frequente dell'aggettivo antitetico: “buone cose di pessimo gusto”, “dolci bruttissimi versi”; Carlotta, nome “non fine ma dolce”; così “goffe ed aggraziate”, così “snelle e tozze” ad un tempo, ecc. Frequente ancora il contrasto tra un lessico banale, sciatto, quotidiano, tipico dell'armamentario crepuscolare (stoviglie, biciclette, rotaie del tram, the, caffè, ecc.), e un lessico aulico, frutto del “veleno” dannunziano assorbito da Gozzano giovane (peplo, rebescare, cornucopia, armillo, ecc.).
Interessante è l'uso del “dialogo” nel testo poetico (“Avvocato, non parla: che cos'ha?”), che diviene una strumentazione espressiva di contrasto e di straniamento tra messaggio poetico ed autore, onde evitare ogni adesione sentimentale o retorica.
La rima è spesso usata contrapponendo parole di diverso livello stilistico e con funzione dissacrante ed ironica: divino/intestino, lusinga/casalinga/fiamminga, Yacht/cocotte, ecc.
Insomma tutta la strumentazione espressiva è da Gozzano giocata su un sapiente dosaggio di prosaico e di sublime, di aulico e di banale; il tutto controllato dalla sottile e vigile ironia che non si smentisce neppure quando il poeta definisce il suo modo di fare poesia: “lo stile di uno scolare / corretto un po' da una serva”.
GUIDO GOZZANO
In un articolo su “Paragone” del 1955 Italo Calvino scrive: “Ritornare a una più calma considerazione del posto delle idee e della ragione nell'opera creativa vorrà dire la fine di una situazione per cui l'io dello scrittore è sentito come una specie di maledizione, di condanna. E questo avverrà forse il giorno in cui l'intellettuale si accetterà come tale, si sentirà integrato nella società, parte funzionale d'essa, senza più dovere sfuggirsi o sfuggirla, camuffarsi o castigarsi”. Si potrebbero utilizzare queste parole per iniziare un commento intorno all'opera dello stesso Calvino. Senza troppe forzature ci si potrebbe vedere, infatti, una velata e forse inconscia confessione della propria condizione di intellettuale continuamente costretto a camuffarsi e a camuffare la realtà, presentandola sotto le spoglie ora comiche ora malinconiche, sempre ironiche, della trasfigurazione fiabesca.
Non si deve intendere per “camuffamento” l'operazione condotta dallo scrittore nel suo primo romanzo, “Il sentiero dei nidi di ragno”, ossia il filtraggio delle avventure partigiane attraverso l'occhio di un bimbo dei bassifondi genovesi, il quale, per quanto già smaliziato dalla vita dura impostagli dai tempi e dalla sua condizione sociale, tuttavia rimane infantile e stupefatto di fronte all'incomprensibile mondo dei «grandi». Questo filtraggio, secondo la testimonianza dello stesso autore, risponde all'esigenza di attuare una “regressione” nell'ottica del racconto, cioè di evitare ogni possibile enfasi nella narrazione di imprese compiute personalmente e perciò ancora calde di vita e facili ad essere esaltate. E l'esaltazione è allora evitata proprio facendole passare attraverso il punto di vista di un ragazzino, pronto a smitizzarle, a vedere e a censurare tutti i loro risvolti negavi, patetici, squallidi e ridicoli.
Si potrebbe affermare che già questo è un modo quasi per non prendere parte agli avvenimenti, per trarsi in disparte, forse nell'impossibilità o nella non volontà di darne un giudizio sicuro e definitivo. Ma è comunque un modo che risponde, in questo caso, soprattutto ad un criterio “estetico”. Invece il vero camuffamento, se vogliamo continuare a definirlo in questa maniera un po' impropria, consiste nel trasformare, come fa solitamente Calvino, ogni aspetto della realtà in gioco, in un arabesco grottesco, in una raffigurazione caricaturale.
Non è detto che ciò implichi di necessità un disimpegno da parte dello scrittore. Anzi, può essere facilmente più disimpegnata una rappresentazione pedissequa e quotidiana del reale che non la sua trasfigurazione e la sua proiezione in un mondo fantastico o mitico, qualora sotto alla fantasia e al mito scorra la fertile vena della denuncia, della chiarificazione di una problematica esistenziale o sociale. Però è indubbio che il camuffamento è di per sé indice di quella crisi di cui parla Calvino, di quella specie di maledizione che incombe sull'io dello scrittore e lo costringe a sfuggirlo, il che significa poi sfuggirsi, rifugiarsi in un luogo ideale, in cui le verità si dicono solo attraverso abili allusioni ed elaborate metafore.
È la crisi dell'intellettuale italiano contemporaneo, il quale non ha più fiducia nell'ideale socialista (e sintomatico è il distacco di Calvino nel 1956 dal partito comunista, nel quale aveva precedentemente militato) e tuttavia non sa togliersi la nostalgia di quella fiducia e ad essa non può sostituire i nuovi modelli avanzati dalla società del benessere, quantunque non riesca neppure di questi a sbarazzarsi completamente, attratto se non altro dal fascino del loro ritmo febbrile ed intenso.
Calvino stesso sa bene esprimere i contorni di tale crisi nei racconti scritti fra il 1945 e il 1958 e suddivisi in quattro sezioni, nei cui titoli ricorre significativamente, come un'ossessione l'aggettivo “difficile”: “Gli idilli difficili”, “Le memorie difficili”, “Gli amori difficili”, “La vita difficile”. In alcuni di essi, specie nella “Speculazione edilizia”, lo scrittore, senza bisogno di decolli verso il fiabesco o l'assurdo, definisce lucidamente il complesso delle insicurezze e delle frustrazioni in cui si dibatte il giovane protagonista, affascinato dall'attività pratica, dalla possibilità di un intervento attivo e fattivo nella società, ma da essa inesorabilmente escluso e deluso.
Lo stesso accade nella “Giornata di uno scrutatore”, romanzo in cui Calvino descrive la giornata di un intellettuale di sinistra, chiamato ad esercitare le funzioni di scrutatore, durante le elezioni, in un seggio al «Cottolengo» di Torino. In esso lo scrittore cerca di rappresentare le persuasioni, le incertezze, le contraddizioni, gli impulsi dell'intellettuale contemporaneo, descrivendoci il labirinto in cui egli si muove, il groviglio dei problemi a cui non sa dare una risposta sicura, ma anche la sua volontà di non adagiarsi nel “labirinto”, di continuare a pensare e a lottare per uscirne.
Tutto questo però non assume il tono del dramma, ma è percorso, come sempre in Calvino, da una sottile vena umoristica, che smorza quasi per pudore il timbro di pensieri e sentimenti, senza tuttavia fargli perdere di incisività.
(Umorismo e simbolismo del fiabesco) L'umorismo, invece, si sfoga a fondo nelle imprevedibili fantasie dei romanzi fiabeschi che compongono la trilogia “I nostri antenati”, tutti percorsi da velate allusioni simboliche: “Il visconte dimezzato” è la storia di Medardo di Terralba, il quale, colpito in guerra da una cannonata, torna in patria dimezzato, e gli resta solo la metà malvagia, con allusione forse alla situazione dell'uomo contemporaneo, sempre alienato e perciò incapace di raggiungere un'integrità; “Il barone rampante” racconta il caso di chi è costretto a vivere sugli alberi per tentare di realizzare se stesso, guardando il mondo da un'altra prospettiva; “Il cavaliere inesistente” narra le vicende di Agilulfo, del quale esiste l'armatura e la volontà che la sostiene, ma non esiste la persona, forse ad indicare che l'uomo attuale non è più che un'astrazione, un vuoto involucro, poggiato su ideali assai precari.
Ci sarebbe infine da accennare alla parte «fantascientifica» della produzione calviniana, sul tipo delle “Cosmocomiche” e di “Ti con zero”, anche questa sostenuta da uno straordinario gusto del racconto e tramata dei sottili arabeschi del favoloso e del ridicolo. Va però detto che il rischio corso dall'autore in questi ultimi casi è quello di chiudersi e di perdersi nell'elaborato artificio delle sue trovate, cadendo nella “maniera”, una maniera abilissima, quasi mai stucchevole eppure spesso inadatta ad esprimere il reale nella sua viva concretezza.
ITALO CALVINO
L'intellettuale prende coscienza della trasformazione
Lo choc della modernità. Verso la fine dell'Ottocento e nei primi anni del Novecento, le scoperte scientifico-tecnologiche, e il passaggio da una economia fondata sulla legge della libera concorrenza al capitalismo moderno dominato dalle grandi concentrazioni industriali e finanziarie, originano profonde e incidenti trasformazioni: nei modi di produzione (introduzione della catena di montaggio con conseguenti fenomeni di alienazione); nei rapporti sociali (accentuazione dei conflitti di classe e ulteriore declassamento dei ceti medi); nell'espansione urbana (nascita delle metropoli e della civiltà di massa); nei mezzi di trasporto e nelle strutture della comunicazione e della spettacolarizzazione (diffusione dell'automobile, dell'aereo, del telegrafo, del telefono, del cinema).
Molti gli intellettuali, artisti e non, che avvertono lucidamente l'incidenza di queste trasformazioni. Filippo Tommaso Marinetti, in un manifesto dei 1913, scrisse che coloro che oggi usano il telegrafo, il telefono, il grammofono, il treno, la bicicletta, la motocicletta, l'automobile, il transatlantico, il dirigibile, l'aeroplano, il cinematografo, il grande quotidiano, sintesi di una giornata del mondo, non pensano che “queste diverse forme di comunicazione, di trasporto e d'informazione esercitano sulla loro psiche una decisiva influenza”.
Cambia pure, tra Otto e Novecento, il modo di percepire la realtà e di concepire la scienza, per la scoperta del tempo come “durata” di Bergson, dell'”inconscio” di Freud, della “relatività” di Einstein; ormai passato e presente, spazio e tempo, causa ed effetto, conscio e inconscio non sono più dati assoluti ma relativi.
La presa di coscienza di una realtà trasformata. Tutte queste trasformazioni travolgono e liquidano gli ormai vecchi valori dell'Ottocento: dalle strutture sociali alle modalità dell'arte e della letteratura ai sistemi filosofici, dai modi di percezione della realtà alle forme dello spettacolo e del costume. Ma cosi dirompenti trasformazioni diffondono pure nell'uomo contemporaneo disagio e malessere che gli intellettuali puntualmente colgono. Fin dal 1893 Luigi Pirandello cosi esprime il disorientamento della coscienza moderna: “Nei cervelli e nelle coscienze regna una straordinaria confusione. Crollate le vecchie norme, non ancora sorte e ben stabilite le nuove, è naturale che il concetto della relatività di ogni cosa si sia talmente allargato in noi, da farci quasi del tutto perdere l'estimativa. Nessuno più riesce a stabilirsi un punto di vista fermo e incrollabile. I termini astratti hanno perduto il loro valore, mancando la comune intesa che li rendeva comprensibili. Mai la vita nostra, eticamente ed esteticamente, fu più disgregata. Da ciò, a parer mio, deriva per la massima parte il nostro malessere intellettuale.”
La risposta dell'intellettuale al « malessere » dei tempi nuovi
Il rifiuto del Positivismo e dei miti dell'ultimo Ottocento. Gli inizi del Novecento segnano la definitiva liquidazione, già avviata col Decadentismo, del razionalismo positivista e delle sue connotazioni letterarie, Naturalismo e Verismo. L'edificio pazientemente costruito dal pensiero positivista, fatto di certezze in un costante e inarrestabile progresso, di fiducia nella scienza e nella ragione capace di leggere e dirigere i comportamenti sociali e la vita dei popoli, viene ora rifiutato totalmente. Diverse però appaiono le motivazioni di questo rifiuto. C'è chi da destra, da una posizione di estrema e superficiale faciloneria, rifiuta il Positivismo mescolando ad esso democrazia, socialismo e altro. C'è chi invece, partendo da sinistra, da posizioni marxiste e socialiste, come nel caso di Antonio Labriola, motiva il rifiuto del Positivismo perché ne scopre i limiti teorici e lo vede come l'ideologia della classe borghese. C'è infine chi, partecipando, consciamente o inconsciamente, del nuovo clima culturale aperto dall'evoluzione del pensiero filosofico e scientifico, dalle nuove teorie relativistiche di Einstein, dalla scoperta dell'«inconscio» di Freud, rifiuta il Positivismo perché si trova immerso in un universo profondamente cambiato. È questo il caso degli autori della nuova narrativa, da Luigi Pirandello a Italo Svevo, da Marcel Proust a Thomas Mann a Franz Kafka a James Joyce, ecc. Pirandello, a questo proposito, avverte che è avvenuto “uno strappo” nel cielo delle certezze positive, aprendo le porte al “dubbio infinito”, alla relativizzata coscienza moderna. Se l'universo positivista fondava le sue certezze nell'assolutezza dei concetti di spazio e tempo, di causa ed effetto, ora le nuove teorie relativistiche e psicanalitiche rimettono tutto in discussione.
Nel primo Novecento non si rifiuta solamente la cultura positivistica, ma si rifiutano anche i miti in cui, nell'ultimo Ottocento, si era trascritta e risolta la crisi delle coscienze: ossia il Simbolismo e l'Estetismo e, per quanto riguarda la provincia italiana, il mito del “Santo” di Fogazzaro, del “Fanciullino” di Pascoli, del “Superuomo” di D'Annunzio. Marinetti, teorico e fondatore del Futurismo nel 1912 scrive: “L'Italia retorica, professorale, greco-romana e medioevale di Carducci, l'Italia georgica, piagnucolosa e nostalgica di Pascoli, l'Italia bigotta del piccolissimo Fogazzaro, l'Italia erotomane e rigattiera di D'Annunzío, tutto il passatismo italiano, insomma, è definitivamente morto e sepolto.”
La perdita di ruolo dell’intellettuale.
L’intenso progresso scientifico e tecnologico e il conseguente scientismo, l’ascesa inarrestabile della borghesia e la crescita numerica del proletariato, la nascita delle dottrine che interpretano i problemi del lavoro, quali il socialismo e il marxismo, la diffusione della teoria dell’evoluzionismo di Darwin, applicata non solo alla biologia, ma ai rapporti umani all’interno della società, sono alcune delle cause del sorgere del Positivismo, filosofia che esaltava la scienza come unico strumento della conoscenza e aboliva la metafisica, che non è dalla scienza dimostrabile. Anche la letteratura di tutta Europa si volge al reale. In Francia, dopo il realismo descrittivo di Balzac e l’introduzione della tecnica dell’impersonalità di Flaubert, il Naturalismo di Zola cercò di applicare i metodi della scienza al romanzo: esso doveva essere una “tranche de vie”, una fetta di vita, in cui impersonalmente l’autore doveva esaminare i personaggi alla luce dei fattori che ne determinano il comportamento: ereditarietà, ambiente ed epoca.
Lo scrittore non è più vate, come durante il Romanticismo, ma scienziato, documentarista, testimone e si propone di migliorare la società, denunziandone i vizi. In Italia i concetti del Naturalismo, importati da Capuana, ispirarono il Verismo, che sposava le tesi scientifiche del primo con la realtà insoddisfacente postunitaria delle regioni e degli ambienti più poveri. Gli ambienti studiati non furono più i marciapiedi cittadini, ma i paesi di campagna, l’attenzione degli autori non si accentrò sulle devianze sociali, ma sugli istinti primitivi. La sperimentazione linguistica si estese dalla tecnica dell’impersonalità alla ricerca di una sorta di dialetto tradotto per essere comprensibile, ma che conservasse la coloritura folcloristica tramite proverbi, soprannomi, discorsi indiretti. La crisi del Positivismo iniziò a manifestarsi intorno al 1890 e fu determinata da diversi fattori: lo scientismo non aveva saputo impedire il capitalismo, l’imperialismo, il colonialismo e gli aspri conflitti sociali all’interno dei singoli stati.
Nuove correnti di pensiero spiritualistiche e irrazionalistiche spostavano l’indagine dal corpo allo spirito.
Henry Bergson affermava che la vita è evoluzione creatrice continua, per cogliere la quale non serve la ragione, ma l’intuizione; Friedrich Nietzsche credeva in un superuomo che fosse al di là del bene e del male, della morale comune; Sigmund Freud scoprì la realtà del subconscio e la dissociazione della personalità in Io, Es e Super-Io.
La nuova corrente letteraria che ebbe caratteri antirazionalisti, spiritualisti, estetizzanti prese il nome di Decadentismo.
Decadenza di cosa? Di tutti i valori dell’800, ma soprattutto di quelli positivisti.
Il periodo compreso tra l’ultimo decennio dell’800 e gli anni precedenti la prima guerra mondiale, infatti, è caratterizzato da una violenta reazione al Positivismo: questo aveva celebrato la fede nella scienza, nel progresso sociale, nella pacifica collaborazione fra i popoli, ma la realtà fatta di guerre, imperialismi, lotte di classe era ben diversa da quanto si era sperato. Tale situazione determina nuovi atteggiamenti spirituali: subentra la disillusione, l’angoscia, la sensazione del vuoto e del nulla; in arte si reagisce con la rottura dei moduli naturalistici.
Le trasformazioni economiche, sociali e politiche avvenute nella cosiddetta «età dell'imperialismo» e i profondi mutamenti che avvengono nel clima culturale complessivo sono riconducibili, quindi, in gran parte alla crisi del Positivismo, di cui cadono le formulazioni più illusorie e divulgate, come la concezione deterministica, che mortificava la libertà dell'individuo considerandolo totalmente condizionato dall'ambiente naturale e sociale, o lo scientismo, rivelatosi troppo ottimistico nelle speranze di risolvere i problemi dell'uomo.
Si diffonde, in tal modo, la sfiducia nella scienza e nella ragione, e, quindi, nella capacità dell'uomo di comprendere la realtà. Il mondo esterno appare senza nessuna oggettività e organicità, senza nessuna legge che lo governi e può essere rappresentato solo da un punto di vista soggettivo, come lo vede l'occhio dell'artista. Ma un'uguale disorganicità dimostra il mondo interiore, non meno privo di principi generali a cui ancorarsi, e che può ritrovare il suo collegamento con l'“altro da sé”, ossia quel collegamento fondato sulla distinzione dell’Io col non-Io, del soggetto con l'oggetto, senza il quale la vita dell'individuo si disgrega, solo in una zona dell’animo oscura, misteriosa, inconoscibile con i normali strumenti della ragione e raggiungibile solo attraverso l'intuizione poetica. A questa tendenza è connesso anche il conseguente rifiuto delle tecniche letterarie, sia in poesia che in prosa, fondate su elementi logici e discorsivi e, invece, la ricerca di tecniche che, proprio attraverso l'alogicità e la suggestione fonica, riescano a penetrare nella zona misteriosa e inconoscibile dell’animo umano.
Distrutti i vecchi schemi della cultura positivistica, rinnegati i miti consolatori dell’800, immerso in un mondo sfiduciato nelle prospettive della scienza e della vita politica e sociale, posto di fronte all’ascesa vertiginosa della borghesia capitalistica che impone un modello di società tutto basato sulla logica del capitale e del profitto come unici valori, l’uomo di cultura del primo ‘900 vive una profonda crisi d’identità, avverte chiaramente la fine di un’epoca e l’avvento di una nuova e prende coscienza della perdita del suo tradizionale ruolo sociale che era quello del “creatore di valori”. Egli generalmente, al contrario di quanto avveniva nel secolo precedente, proviene dai ceti medi borghesi, una classe sociale che vede compiere il suo declassamento schiacciata com’è tra la forza indiscussa della grande borghesia finanziario-industriale e le emergenti forze del proletariato. Emarginata da questi due colossali protagonisti, la piccola e media borghesia, e con essa l’intellettuale, si sente frustrata, indebolita, disorientata ed, incapace di farsi classe egemone come aspira, si vede ridotta a classe subalterna e strumentale. Nasce da ciò una situazione di disagio, di noia esistenziale, di malcontento, di provocazione.
La coscienza del disagio esistenziale, del “male di vivere” che travaglia l’uomo contemporaneo è presente in gran parte della poesia e della narrativa dei primi del ‘900.
Lo scrittore avverte con angoscia che sta per compiersi la frattura definitiva tra io e mondo, tra artista e realtà iniziata nell’Ottocento, e si sente “spersonalizzato”, “disumanizzato”, “disintelligenziato”. Oramai “i tempi sono cambiati”, come dice Palazzeschi, e gli uomini “non domandano più nulla ai poeti”, a quei poeti che altro non sono che “articoli di non prima necessità”, come afferma Gozzano.
Siamo in pieno Decadentismo, periodo che vede un uomo incerto e stanco, sconfitto sul piano politico nella sua libertà e frastornato dalle voci della guerra, che cerca dentro di sé, in un ripiegamento introspettivo, nuovi mondi in cui credere. La faticosa autoanalisi dell’uomo moderno è accompagnata dalla coscienza di quanto sia amaro far parte della storia in un mondo che cerca la propria grandezza nel sopruso, in violenti imperialismi e nazionalismi prevaricatori.
La risposta degli uomini di cultura alla profonda crisi esistenziale, morale e culturale che investe la coscienza dell’uomo agli albori del Novecento e alla crisi che travolge l’intellettuale tradizionale approda a soluzioni diverse e spesso contraddittorie.
Alcuni scrittori (Svevo, Pirandello, Mann, Musil, Kafka, ecc.) si impegnano in una inquieta e tormentosa analisi della malattia dell’uomo moderno nella civiltà industriale e borghese che essi condannano in maniera corrosiva e impietosa. Nelle loro opere questi scrittori parlano di malattia (Svevo e Mann), di eroe in tensione (Mann), di inettitudine (Tozzi e Svevo), di universo labirintico (Kafka); e ancora di uomo senza qualità (Musil), di uomo spersonato nel male del tempo (Rebora), di male di vivere (Montale). Escono dalle loro opere personaggi incapaci di agire, di darsi una consistenza, tesi a smontare la storia dei loro fallimenti e della loro coscienza frantumata (Pirandello). Tali personaggi lottano invano contro i pregiudizi e la morale borghese, contro la città che massifica l’uomo; essi individuano chiaramente i meccanismi alienanti e ripetitivi dell’inferno tecnologico che riduce l’uomo a semplice manovella, rovesciando così i miti imperialistici della macchina in “malattia industriale”. Ma questi personaggi non riescono a configurare pienamente un “uomo nuovo” veramente alternativo; la loro protesta tende a risolversi in se stessa, in una dolente quanto amara impotenza.
L’Italia era stata anch’essa coinvolta dalla crisi di valori che caratterizzò l’intera Europa agli inizi del ‘900; ma la penetrazione della cultura e soprattutto della letteratura decadente, era stata rallentata nel paese dalla persistenza della tradizione aulica. Alcune spie di una nuova sensibilità erano già ravvisabili negli intellettuali futuristi, i quali tendono a risolvere la crisi storica e dell’intellettuale, che pure essi avvertono, in uno sfrenato attivismo, in un’esaltazione incondizionata della civiltà industriale, in una celebrazione della religione della macchina e della velocità. Essi, quindi, come risposta-reazione alla profonda crisi esistenziale, sia morale che culturale, che li travolse agli albori del’900, tesero a liquidare un certo vecchiume culturale, a credere nella positività della rivoluzione industriale e ad esaltare incondizionatamente la civiltà industriale, la macchina, la velocità e la guerra, sentita come azzeramento totale per una nuova ricostruzione, poiché dopo la necessaria distruzione si profetizzava un nuovo mondo guidato da una generazione giovane, forte, vigorosa. Ma non c’è nei Futuristi italiani una sufficiente coscienza critica della nuova realtà; di conseguenza, se essi pur liquidano un certo vecchiume culturale, finiscono per bruciare una carica di rottura e di rivolta alleandosi alla spregiudicata borghesia industriale con i loro miti tecnicizzati, i loro feticci metallici, la loro “modernolatria”. Gli intellettuali futuristi altro non sono che la versione tecnologizzata del “superuomo” dannunziano ed esaltano la macchina, la guerra, le folle da dominare. Tutti tesi ad emergere, a darsi un ruolo egemone di guida culturale della borghesia, diventano invece produttori, con maggiore o minore originalità, di un’ideologia funzionale ma subalterna alla grande borghesia nella sua fase imperialistica, inevitabilmente destinati, quindi, ad essere assorbiti nell’esperienza fascista.
Altri intellettuali e letterati, ossia i Crepuscolari, cercano di risolvere la crisi fuggendo la città, in un impossibile ritorno alla provincia, alla semplicità, all’innocenza ingenua degli affetti sani della campagna o alle “buone cose di pessimo gusto” del tempo passato. Sarà, però, un tentativo tutto programmato e spesso intellettualmente voluto, a cui gli stessi Crepuscolari, in ultima istanza, non crederanno. Ricordiamo infine chi vive la crisi facendo appello alla dignità morale e intellettuale, come Benedetto Croce, o polemizzando aspramente contro la corruzione politica, come Gaetano Salvemini, contro la retorica di sinistra e di destra; chi fa appello alle idee socialiste che dovrebbero trovare nelle masse la sanità morale e la forza rigeneratrice di una nuova umanità, ma a volte con scarsa chiarezza ideologica e con scarsa capacità di porsi obiettivi e strategie precise.
Il Decadentismo si potrebbe, pur nella sua complessità, riassumere in una sola frase sulla quale tutti i critici concordano: “crisi storica, crisi globale”.
Le parole “Decadentismo” e “decadente” furono dapprima applicate a un fenomeno circoscritto e usate in senso spregiativo, poi invece vennero usate in senso più vasto e complesso ad indicare una civiltà. Il termine «decadenza» venne impiegato per la prima volta, e non senza compiacimento, dal poeta Paul Verlaine in un suo famoso verso: “Io sono l'impero alla fine della decadenza”. Inizialmente usato, quindi, con connotazioni negative, dato che con esso si intendevano indicare le manifestazioni letterarie di un periodo di decadenza, ha finito col significare l'insieme assai complesso di fenomeni culturali, letterari e artistici di un'epoca ricca di contraddizioni politiche e sociali. Oggi il termine “Decadentismo” non deve più essere recepito nel suo valore semantico, cioè come decadenza delle arti e della cultura, ma nel suo valore storico, ad indicare un periodo, una stagione della cultura e dell’arte, una civiltà nei suoi aspetti positivi e nei suoi aspetti negativi, come del resto tutti gli “ismi” della storia e della cultura.
Di origine francese, se ne colloca l’inizio verso il 1885 mentre non si riesce a dire, ancora oggi, quando si possa considerarlo concluso; alcuni studiosi vogliono protrarlo fino al termine della seconda guerra mondiale. Nell'accezione oggi prevalente, il termine “Decadentismo” indica le tendenze letterarie e artistiche che si sono diffuse nelle letterature europee dal 1870 alla Prima guerra mondiale.
Il termine e la nozione di “crisi”, con le varianti filosofiche e letterarie “decadenza”, “tramonto”, “crepuscolo”, pervadono la cultura del Novecento. (E’ consuetudine novecentesca pensare al proprio tempo in termini di decadenza o declino.) Troviamo, nel primo Novecento, un complesso insieme di atteggiamenti e posizioni intellettuali che muovono uniformemente dal riscontro di una certa crisi in atto nella cultura occidentale, ma variano dall’accettazione disincantata all’assecondamento cinico, dall’elaborazione di metodi reattivi o di sopravvivenza al riconoscimento delle trasformazioni positive che tale crisi sembra implicare. Inoltre, si può parlare di “cultura della crisi” tanto in riferimento alle teorie e riflessioni sistematiche sull’argomento, dalle considerazioni di Nietzsche e di Spengler sulla decadenza alle osservazioni di Freud sul “disagio della civiltà”, quanto in relazione al diffuso pessimismo culturale che inizia a manifestarsi nell’estetismo e nel decadentismo di fine Ottocento e che raggiunge la massima concentrazione negli anni tra le due guerre.
Sul finire dell’800, Nietzsche aveva descritto lo stato d’animo tipico della decadenza, e che iniziava a diffondersi nella cultura europea, utilizzando la nozione di “nichilismo”. Il nichilismo è l’atteggiamento proprio dell’uomo moderno, che sperimenta la perdita delle categorie di senso, di totalità, di verità, e la crisi dei valori sui quali si fondavano i sistemi filosofici del passato. Nell’incerta situazione della filosofia assumono un nuovo rilievo quelle discipline che le erano un tempo legate e che avevano iniziato a rendersi autonome alla fine del 700: le “scienze umane”. Il fenomeno più importante a questo proposito è la nascita della psicoanalisi, il cui programma, avanzando l’esigenza del tutto nuova di un’indagine “scientifica” dei processi inconsci, appare dotato di un’ampiezza tale da sostituirla, come nuova disciplina totale, alla filosofia.
Si affaccia, in alcune tendenze di questi anni, il culto della violenza, sia collettiva (la guerra, con la quale una nazione affronta i suoi rapporti con le altre, per affermare il suo predominio), sia politica (la dittatura, che agli occhi di molti deve porre fine all'imbelle regime parlamentare), sia individuale (il Superuomo, che si pone al di sopra della morale e delle leggi comuni). Per contro, in molti altri scrittori si afferma una reazione opposta, connessa comunque ad analoghe matrici storico-culturali: l'evasione dalla società in cui si vive, e che si sente estranea, evasione che non conduce soltanto alla solitudine come condizione esistenziale, ma anche al vagheggiamento di un'oasi di originaria innocenza, dei luoghi, dei costumi, delle condizioni di vita ai margini della civiltà, quali la campagna o le zone inesplorate della Terra, l'infanzia o i popoli primitivi con le loro usanze; oppure induce alla fuga nell'eccentrico e nel patologico, nella nevrosi e nell'ossessione sessuale.
La crisi storica che dà origine al Decadentismo è determinata dall’esperienza delle guerre, dall’automazione e meccanizzazione crescenti del mondo tardo-industriale: traspare, in letteratura, nella raffigurazione dell’impotenza e della malattia, nella diffusa e intensa percezione di una prossima fine del mondo, nelle visioni apocalittiche di distruzioni e massacri, nella rappresentazione di dinamiche sociali dominate da crudeltà e cinismo.
Il rapido estendersi, in molti paesi europei, del sistema di produzione industriale, il grande sviluppo urbano, la crescente potenza economica e politica della borghesia, tutti fenomeni già avvertiti, con straordinaria sensibilità, da Baudelaire, furono vissuti dagli artisti e scrittori degli ultimi tre decenni dell’Ottocento con crescente disagio e con reazioni di vario tipo, fra cui, molto diffusa, quella di difendere, sublimandoli al massimo, i valori della loro “arte”, rispetto ai “bassi” valori prevalenti nella nuova società. Le trasformazioni economico-sociali, inoltre, insieme con gli straordinari progressi tecnici e industriali (e anche questo aveva già pienamente avvertito Baudelaire) toccano direttamente e immediatamente l’artista e il poeta, agiscono sul suo rapporto con il pubblico, trasformano “mercificandoli” i prodotti stessi del suo lavoro. Né vanno trascurati gli entusiasmi o al contrario i profondi timori provocati in molti artisti e intellettuali da grandi fatti sociali come la rivoluzione della Comune parigina del 1870, le sollevazioni popolari sparse qua e là nei decenni seguenti, le repressioni e il rafforzarsi degli apparati polizieschi e militari degli Stati, la diffusa consapevolezza di come il grande sviluppo produttivo della società industriale rischiasse di relegare le classi povere o subordinate in situazioni di vita e di lavoro sempre più disumane.
L'Ottocento era sorto sotto il segno di quella «ragione» che la cultura illuministica del secondo Settecento aveva sacralizzato ed esaltato come un mito, capace di risolvere i grandi problemi dell'umanità; la sua vitalità non era venuta meno neppure durante la civiltà romantica, seppur in forme meno esasperate e per canali più sotterranei e complessi.
Nella civiltà del Positivismo-Realismo la ragione diveniva “ratio scientifica”, “scienza”, culto dell'utile e del dato oggettivo scientificamente sperimentabile e verificabile. La mentalità scientifica dell'epoca dava agli intellettuali una concezione stabile dell'universo, ritenendo i rapporti di “causa-effetto” e i principi di “spazio-tempo” dati certi e assoluti; credeva poi ai “fatti” come unici elementi veri e concreti di riferimento. Con queste categorie gli intellettuali erano convinti di leggere, conoscere e trascrivere correttamente la realtà, quella sociale e individuale, di riuscire a cogliere le leggi che le stanno alla base.
Queste convinzioni, però, erano spesso naufragate in concezioni deterministiche, fatalistiche, come la “rassegnazione” verghiana. Per altro verso poi la mentalità scientifica e il Positivismo erano diventati ben presto l'ideologia delle classi dominanti borghesi e se in un primo tempo avevano avuto una funzione laica e progressiva, ben presto erano state curvate a legittimare le istanze, tutte borghesi, dell'attivismo, dell'industrialismo, della produzione e del profitto; persino le progressiste teorie darwiniane venivano utilizzate a giustificare le logiche imperialistiche. A ben guardare, poi, sotto quelle strutture mentali impregnate di scientismo, di culto del progresso e del dato oggettivo, dell'ottimistica fiducia positivista, si mascheravano, e ben presto cominciarono a fermentare, dubbi e incertezze. Già la rivelazione delle “crepe e delle travi marce” della società, operata da Zola, e la dissacrazione dei miti progressivi della borghesia capitalistica operata da Verga mostravano chiaramente anche l'altra faccia dell'ottimismo positivista e borghese; mostravano la sua incapacità, la sua impotenza a risolvere le insufficienze e le contraddizioni della società, che, anzi, andavano allargandosi ed esasperandosi.
(Crisi della scienza e rifiuto della società contemporanea) La fiducia incondizionata nella scienza doveva, dunque, entrare ben presto in crisi. Gli intellettuali del Positivismo avevano largamente predicato di utilizzare la scienza per cogliere le leggi della natura e della società nello stadio positivo, e una volta conosciutele avrebbero agito su di esse per modificare gli squilibri sociali e biologici. Non aveva forse detto Zola che “quando si possederanno le leggi basterà agire sugli individui e sugli ambienti per arrivare al miglior stato sociale” e che sulla base di queste leggi si poteva “essere padroni del bene e del male, regolare la vita, regolare la società, risolvere a lungo andare tutti i problemi del socialismo, soprattutto offrire solide basi alla giustizia risolvendo con l'esperimento i problemi di criminalità”? Ma di fronte alla fabbrica che aumentava sempre più lo sfruttamento, l'alienazione, e allargava le disuguaglianze sociali, di fronte alla selvaggia urbanizzazione che aumentava la criminalità, la prostituzione, la nevrosi, di fronte a nuove ricerche che mettevano in dubbio tutti i presupposti su cui si era retta la scienza fino ad allora, di fronte a tutto ciò il mito della scienza, che era stato il tratto più caratteristico dell'Ottocento positivista, a fine secolo si incrinava irreversibilmente. Nel 1893 Gabriele D'Annunzio, in un articolo su Zola, scriveva: “La scienza è incapace di rendere la felicità alle anime in cui ella ha distrutto l'ingenua pace. È finito il tempo del suo trionfo ingannevole. Bisogna ch'ella si faccia umile, già che non può tutto sapere, tutto guarire”. E Pascoli in un discorso letto a Messina nel 1898: “La scienza ha fallito!... A morte dunque la scienza!” Più netta non poteva essere la sfiducia con cui si guardava alla scienza e ai suoi miti. Gli intellettuali avvertivano di essere alla soglia di un nuovo mondo. E i tempi nuovi a molti incutevano un angoscioso senso di paura e di smarrimento, la paura della “fine”, e di una prossima “catastrofe”.
(Crisi del liberalismo e avvento dell'imperialismo) Alla crisi della mentalità positivista e della scienza, si accompagnava, negli ultimi decenni del secolo XIX, il tramonto dell'economia e della borghesia liberale. Dal 1870 in poi veniva maturando una profonda svolta nei rapporti sociali sotto la pressione di grandi vicende storiche. Da un lato l'ascesa del quarto stato metteva paura alla sicurezza della borghesia, sempre più gretta e retriva a difesa della sua egemonia appena conquistata. D'altro lato la «grande depressione» rendeva agonizzante sia l'ordine economico sia la cultura della borghesia liberale e veniva affermandosi una nuova organizzazione sociale, l'imperialismo, basato su un gigantesco processo di concentrazione industriale-finanziaria, sul protezionismo e sulla ricerca di nuovi mercati coloniali.
Nella nuova organizzazione sociale di tipo imperialistico iniziava la lunga crisi dei “ceti medi” e il loro progressivo schiacciamento tra le grandi forze dell'alta borghesia imperialistica e del proletariato. Gli intellettuali, provenienti in genere dai ceti medi, perdevano così il loro retroterra sociale, prima legato alla borghesia in ascesa. Si sentivano spiazzati, sradicati, spesso incapaci di aderire o all'una o all'altra delle grandi forze antagoniste della nuova storia; e la fuga dalla società diventava la soluzione di molti artisti alla loro alienazione. Era dunque nel passaggio dall'economia liberale all'economia imperialistica, con tutte le sue conseguenze, che maturava negli intellettuali il senso di una profonda crisi storica, e il Decadentismo fu la risposta degli intellettuali, artisti e letterati, al tramonto della borghesia liberale.
(La nevrotica ricerca di identità alternative) Il tramonto della borghesia liberale era vissuto dagli intellettuali come “fine” della borghesia stessa e della storia, fra ansie e timori di un “domani” tutto da inventare. C'era in molti il presentimento o la consapevolezza di vivere una crisi storica, una decadenza, una dissoluzione irreversibile; e ciò portava gli intellettuali a ripiegarsi su se stessi, a ricercare oltre la fenomenologia delle apparenze e dei fatti una realtà più profonda, l'essenza delle cose e della vita, insomma a discendere verso «l'interno paese sconosciuto».
Si ebbe allora un vistoso passaggio dal terreno storico-sociale, dove operava l'intellettuale di formazione positivista-naturalista, alle inesplorate zone dell'«io». E se l'intellettuale positivista aveva creduto alle «magnifiche sorti e progressive» dell'umanità, l'intellettuale decadente, sfiduciato e sradicato, senza più punti fermi in cui credere, all'interno di una degradazione urbana insopportabile ed emarginante, tendeva a progettare un'orgia (grande quantità) di miti irrazionalistici: Mistero, Bellezza, Patria, Sogno, Arte, Vita, ecc. La società appariva un territorio inautentico, un inferno da cui occorreva fuggire per nuovi paradisi artificiali, per nuovi esotismi e nuove avventure dell'anima vissute in solitudine, lontano dalla storia, dalla meschinità del quotidiano. Allo scienziato, al medico, all'ingegnere, al maestro, al capitano d'industria, esaltati dalla cultura positivista, si sostituivano l'“intellettuale bohémien”, come Baudelaire, il ribelle e il veggente, come Rimbaud, l'esteta, come Huysmans o D'Annunzio, il dandy, come Wilde, il superuomo, come D'Annunzio, il fanciullino, come Pascoli, il santo, come Fogazzaro. Alla tematica popolare e sociale si sostituiva la tematica del barbarico, del primitivo, dell'esotico, del titanico, del satanico; all'arte per l'utile, l'arte per l'arte.
La cultura e la letteratura del Decadentismo, in tutte le sue svariate componenti, fu mossa da spirito polemico nei riguardi della borghesia, di cui condannò la falsa morale, la grettezza intellettuale, la vita appiattita senza slanci; eppure a ben guardare molta di quella cultura finì per essere funzionale alla nuova borghesia imperialistica, proprio perché bandiva dal proprio orizzonte i problemi reali, cioè l'economia e i nuovi rapporti di produzione, che erano la causa prima dello sradicamento dell'intellettuale.
(Ripresa in termini nuovi di motivi romantici) Come la cultura del Positivismo si rifà a quella dell'Illuminismo, così la cultura del Decadentismo riprende temi, esperienze, motivi del Romanticismo, seppur filtrati attraverso il gusto bohemienne e scapigliato, e li rielabora in modi completamente nuovi e autonomi. Per verificare quanto detto, è sufficiente l'analisi, anche se schematica, di due concetti: individualità e amore.
Mentre, infatti, nel Romanticismo il concetto di “individualità” trovava un suo equilibrio e un suo contrappeso in quello di «popolarità» (il Naturalismo lo aveva eliminato sostituendolo con il concetto di “impersonalità”), nella cultura decadente l’individualità non ha più alcun contrappeso, anzi si esaspera in rapporto a tutto ciò che può essere popolare e quotidiano, in nome di un individuo superiore slegato dalla morale comune e dalla massa anonima. Il filosofo tedesco Nietzsche sarà il teorico di questo nuovo modo di sentire. L'eroe romantico emergeva dal popolo e la sua avventura individuale era pur sempre e fondamentalmente un modo di interpretarne le esigenze; l'individualità esasperatamente solitaria e superomistica del decadente è, invece, sdegnoso e sprezzante distacco dalla morale del popolo.
Così l'«amore» che presso i romantici era spesso passione travolgente e assoluta, ma pur sempre entro i limiti di una naturale sanità (nel Naturalismo veniva materialisticamente ridotto a «soddisfacimento di un bisogno»), nel Decadentismo tende a degenerare in voluttà, gusto del proibito, del morboso, dell'ambiguo, o a intorpidirsi nel vizio, nella corruzione e nella depravazione. Insomma il Decadentismo è anche il tempo dei «fiori dei male», dell'omosessualità e del sadismo.
Il Decadentismo fu specificatamente letterario ed artistico, caratterizzato da una visione irrazionale ed estetizzante della vita, da una rappresentazione introspettiva in tutti i suoi aspetti, in particolare in quello dell’inconscio e delle sue manifestazioni. Caratteristiche dominanti sono il simbolismo della poesia (Verlaine, Rimbaud, Mallarmè e del nostro Pascoli), il misticismo (fuga nell’irrazionale, nell’occultismo, nella religiosità morbosa) intrecciato alla sensualità di Fogazzaro, di Wilde, di D’Annunzio; l’estetismo, ossia l’esaltazione dell’arte come valore assoluto, dei personaggi di Huysmann, di Wilde e di D’Annunzio e dei loro stessi autori; il superomismo di D’Annunzio, Nietzsche e Wagner; lo scetticismo e l’agnosticismo, ossia il dubbio portato alle estreme conseguenze di sospensione di ogni giudizio, di scoperta del relativismo di ogni verità, di angoscia di fronte al mistero, di un mondo senza più coordinate di Svevo e di Pirandello.
Il Decadentismo fu appunto l’espressione della crisi di fine ‘800 e si sviluppò nella reazione al Positivismo in filosofia, al Naturalismo in letteratura ed infine all’Accademismo nelle arti figurative.
D’ora in poi il poeta si ripiegherà nel suo intimo ed indagherà nella profondità dell'io, per esprimere verità e conoscenze dalle quali lo scienziato è escluso. La poesia ritorna, quindi, in auge come unico mezzo per illuminare la vita che è considerata un insieme di simboli da intuire e non più da spiegare.
Questa poesia, oltre a ripudiare la razionalità ed il metodo scientifico, rifiuta anche i temi cari alla poesia romantica ed eroica: il poeta non sarà più “vate”, celebratore della propria società e delle sue esigenze, ma “veggente” ed esprimerà con misticismo le esperienze della propria anima. Il poeta muta, quindi, ancora ruolo: non più vate, non più scienziato, ma veggente che mediante l’intuizione percepisce il mistero dell’universo e prova a decifrarne i geroglifici senza curarsi di essere capito, usando un linguaggio iniziatico, simbolico e onirico.
Questa crisi globale creerà anche un nuovo modo di vivere e di concepire l’esistenza: saranno esaltati gli aspetti creativi dello spirito, il culto della sensibilità, l’affannata ricerca di esperienza libera e staccata da ogni convenzione morale tradizionale; ma l’isolamento del poeta dalla vita comune e la sua contrapposizione non assumono la caratteristica del titanismo romantico. Nell’artista decadente, anzi, si esprime l’angoscia del non sapersi inserire nella vita pratica, del sentirsi diverso.
Una nuova sensibilità esige anche un linguaggio adatto: la poesia si libera quindi da schemi fissi e diventa aderente alla vita interiore. Anche nell’ambito artistico si sviluppa un modo nuovo di fare arte; nascono così l’art nouveau, il liberty, l’impressionismo ed infine tutte quelle correnti che esprimono il rifiuto della tradizione naturalistica come il cubismo, l’astrattismo e l’espressionismo.
Il romanzo decadente privilegia la riflessione, l’abbandono alla memoria, il monologo interiore, la proiezione in chiave simbolica degli incubi e delle angosce, delle sensazioni piacevoli ed, infine, l’intrecciarsi di storie e personaggi paralleli. Anche il teatro cercherà le esasperazioni, le angosce, le scene grottesche.
L'arte di questo periodo, se per un verso subisce l'influsso dei miti della società borghese dell'età dell'imperialismo, per un altro verso se ne sottrae e li respinge. Entro questo quadro, i suoi aspetti caratterizzanti si dispongono su linee spesso divergenti. Così, in primo luogo, è propria di questa stagione la coscienza esasperata di una frattura profonda tra la nuova arte e quella ottocentesca, frattura che non esclude, s'intende, ogni elemento di continuità fra l’Ottocento e il Novecento - cosa del resto impossibile - ma che, rispetto alla continuità, esalta e sottolinea la novità. Un altro tratto caratterizzante è l'atteggiamento anticonformista diffuso tra gli artisti, il rifiuto cioè delle abitudini, delle leggi, dei gusti, dei valori della società costituita. A questo è connessa l'esasperazione dell'individualismo, nel duplice aspetto di esaltazione dell'individuo particolarmente dotato nei confronti di quello che viene considerato il gregge dei propri simili, o di sofferenza per la condizione di solitudine dell'uomo, per la sua incapacità di comunicare con gli altri uomini, di mettersi in rapporto con la società, con la storia. L'uomo, così, non è più un «animale politico», ma una «monade senza porte e senza finestre». I grandi ideali egualitari del secolo precedente, l'impegno sociale e politico dello scrittore, la fiducia nella trasformazione profonda della società e nella creazione di un mondo più giusto e umano, appaiono, da questo punto di vista, definitivamente tramontati.
La società europea di fine ‘800, mentre vive un periodo di sviluppo industriale e di espansione politica, è pervasa dalla consapevolezza di essere giunta al culmine della sua esistenza.
E’ il Decadentismo francese ad esprimere per primo questa crisi, esprimendo una sensazione diffusa di stanchezza, di tristezza, di sfiducia.
Il termine “décadet” nasce, con significato spregiativo, dai borghesi benpensanti, per poi diventare definizione ben accetta e utilizzata dagli stessi intellettuali che ne facevano parte.
L’origine del movimento è da localizzare a Parigi, nell’ambito dei cenacoli artistici bohémien e annovera tra i suoi esponenti principali Paul Verlaine, Huysmans con “A Rebours”, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé.
Tra i poeti anticipatori del Decadentismo bisogna annoverare Baudelaire con “Le fleurs du mal” e i Parnassiani per il loro culto della bellezza e soprattutto per il concetto di “arte per l’arte” che sfocerà poi nell’estetismo decadentista.
Da questo movimento ben presto si staccherà il Simbolismo che si concentra sull’esigenza di un linguaggio specifico per la poesia, fondato su colori ed immagini. Come tutta l’Europa, anche l’Italia viene influenzata dalla nuova corrente e risente del clima di crisi politica, economica e sociale tra gli ultimi decenni del XIX secolo e la prima guerra mondiale.
Nel Decadentismo italiano confluiscono in un intreccio complesso gli influssi del Decadentismo europeo e gli elementi predominanti della tradizione culturale letteraria, così come si erano configurati all’indomani dell'unificazione tra conservazione letteraria e innovazione, costituita in particolare dal fenomeno della Scapigliatura: il tutto sullo sfondo del particolare clima sociale e politico che si determinava tra la fine del secolo e i primi anni del Novecento. Gli orientamenti imperialistici agiscono in Italia, più che sul piano delle strutture economiche, sulle scelte degli intellettuali, alimentando nelle nuove generazioni la coscienza di quella che è stata definita la «delusione post-risorgimentale» e il rifiuto dell'Italia ufficiale, come si presentava dopo la raggiunta unità, con la sua grettezza, arretratezza e il pesante apparato burocratico; in contrapposizione a essa avanzava il progetto di un'Italia «ideale». In questo contrasto con l'Italia ufficiale si svilupparono e prevalsero orientamenti di tipo «interventistico» e nazionalistico. Ma al nazionalismo italiano mancarono le basi economiche e strutturali che giustificassero una politica di potenza e di espansione simile a quella dei grandi paesi europei.
Il Decadentismo nostrano, a differenza di quello francese, quindi, non nasce solo dalla crisi del Positivismo: esso, infatti, ha negli scapigliati lombardi e in alcuni risvolti del parnassianesimo i suoi diretti anticipatori.
Alcuni critici, tra cui il Binni, hanno affermato che il tentativo degli Scapigliati è da considerarsi staccato dal movimento decadentista; essi giungono solo ad un deteriore Romanticismo, per cui lo stesso Carducci non può trovare un posto nell’ambito del Decadentismo, perché nel suo mondo poetico non si trovano spunti di una nuova sensibilità o comunque di una sorta di sensibilità che superi quella romantica italiana.
Alla diffusione del nuovo movimento in Italia contribuirono alcune riviste di fine secolo come il “Fanfulla della Domenica”, “La Cronaca Bizantina”, “Il Marzocco”. Con gli inizi del secolo è Firenze il centro di scambi intellettuali, con la maggior rivista letteraria “La voce”, tra le moltissime esistenti.
Con la produzione poetica di Fogazzaro, di D’Annunzio e di Pascoli il Decadentismo trova piena adesione, partecipazione e sviluppo in Italia.
Il Decadentismo è un fenomeno complesso, polivalente nella sua multiforme tematica, nei suoi esiti artistici, nei suoi valori e disvalori; pertanto non c'è, come nel Romanticismo o nel Naturalismo, una poetica che faccia da punto di riferimento comune al variare delle singole esperienze. Abbiamo piuttosto varie direzioni di ricerca, una proliferazione di poetiche, che possono in parte legarsi a due movimenti culturali della letteratura europea: il Simbolismo e l'Estetismo. Anche in Italia non è possibile ritrovare una corrente letteraria unificante, ma piuttosto poetiche individuali: quella del “superuomo” in D'Annunzio, del “fanciullino” in Pascoli, del “santo” in Fogazzaro. Accomuna queste esperienze il rifiuto della sciatteria stilistica dell'ultimo romanticismo, con conseguente ricerca di nuovi strumenti espressivi, il rigetto della cultura positivistica e il rifiuto spesso aristocratico della società contemporanea in ciò che essa ha di abitudinario, di etica comune, di valori diffusi a livello di massa.
Con lo scopo di reagire alla decadenza romantica, al suo sentimentalismo e alla sua stanchezza stilistica, attorno agli anni Sessanta in Francia si afferma il «movimento parnassiano». Per i parnassiani il poeta deve rifuggire da ogni effusione sentimentale e da ogni approssimazione stilistica; la poesia deve operare un freddo controllo delle passioni e delle emozioni, una calibrata esattezza delle parole e del disegno compositivo, celebrare una marmorea bellezza calata in forme nitide con una tecnica artigianale scaltrita e raffinata.
Questa sterilizzazione delle emozioni, questa fredda impassibilità viene rifiutata dal Simbolismo (siamo attorno agli anni '70-'80), che dai parnassiani accoglie solo l'esigenza di un estremo controllo stilistico. Col Simbolismo siamo di fronte ad una grande stagione poetica, particolarmente in Francia, che da Baudelaire passa attraverso le esperienze di Verlaine, Rimbaud e Mallarmé che ne diede anche la base teorica. La poesia simbolista vuole celebrare quel mondo di misteriose presenze che si trovano attorno e dentro gli oggetti e l'uomo; vuole celebrare non la realtà in sé, non l'oggetto in sé, ma la sua essenza, la sua anima, attraverso il suo magico potere di suggestione, di evocazione. I simbolisti invitano ad andare oltre i sensi e le apparenze, per cogliere quelle zone indefinite ed inesprimibili delle emozioni che la parola nella sua corposità denotata e logica non riesce ad afferrare. La realtà è per Baudelaire una “foresta di simboli”, e il poeta è chiamato a decifrarli, a coglierne le essenze, attraverso le evocazioni incrociate di suoni, colori, profumi, di echi e di risonanze, attraverso un gioco di rilevamenti simbolici, fonosimbolici, cromatici, attraverso tutta una serie di mezzi conoscitivi, quali l’intuizione, e tecnico-espressivi, quali la sinestesia, l’analogia, l’uso connotativo della parola, ecc.
La tendenza ad evadere dalla prosaica realtà della vita, già presente nei parnassiani e nei simbolisti, si radicalizza nell'Estetismo che si afferma negli ultimi decenni dell'Ottocento ed ha nel romanzo “À rebours” di Huysmans il suo manifesto. Per gli esteti ogni forma di industrializzazione, di pacifismo borghese, di positivismo, di democrazia, di socialismo, porta ad una nuova barbarie fatta di volgarità, di banalità, di mercificazione profanatrice dell'arte. Allora l'arte diventa l'unico rifugio, l'unica difesa dalla volgarità della vita normale. L'Estetismo vuol essere anche modello comportamentale, oltre che artistico. La vita stessa dell'intellettuale esteta deve essere coinvolta nell'arte, farsi arte essa stessa. Arte e vita vengono così identificate e all'esteta viene affidato il compito di tendere alla raffinatezza, all'eroismo, alla gloria, ad un ideale supremo di bellezza. Non, ovviamente, una bellezza come la intendono i comuni mortali, ma una bellezza insolita, preziosa, ambigua, perversa, lussuriosa.
L'identità di arte e vita è perfettamente resa nel romanzo “Il ritratto di Dorian Gray” dello scrittore inglese Oscar Wilde. Dorian Gray è il tipico «dandy» aristocratico, bellissimo, raffinato; ama il paradosso facile, è ambiguo sessualmente, accomuna grazia femminile e virilità maschile; il suo ideale è realizzare una vita inimitabile (vita=arte), fatta di civetteria, di eleganza, di squisita raffinatezza, di aristocratico distacco, di predilezione per l'esotismo e l'arte decadente.
Molta produzione dannunziana si rifà a questi esemplari di esteti, di dandy, con le loro donne fatali e lussuriose, i loro amori ambigui e innaturali. L'Estetismo è uno sdegnoso quanto reazionario rifiuto della realtà, della democrazia, della società borghese per rifugiarsi in uno sprezzante isolamento, in una vertiginosa solitudine che ha però come conseguenza la sconfitta dei suoi freddi intellettualizzati eroi.
(Nuovi strumenti conoscitivi) Gli scrittori del Naturalismo si erano affidati a due strumenti conoscitivi: la ragione e la scienza; li avevano sentiti onnipotenti, unici strumenti capaci di leggere la realtà, di codificarla in leggi, di quantificarla. Gli scrittori del Decadentismo, invece, ritennero che quegli strumenti avessero fallito il loro compito conoscitivo e liberatorio. La realtà, infatti, rimaneva sfuggente, lasciando zone d'ombra, di mistero, pieghe insondabili; le strutture profonde dell'uomo e del reale non si lasciavano cogliere. La ragione e la scienza, operando con categorie logiche quali i rapporti di causa-effetto, potevano cogliere della realtà solo il “fenomeno”, ossia ciò che appare, e qui arrestarsi, ma mai sarebbero riuscite a cogliere il “noumeno”, ossia l'essenza, l'anima delle cose, né la vita intima degli oggetti e dell'uomo, né quelle segrete corrispondenze e quell'inesprimibile mondo di suggestioni e di rapporti tra le cose che pullulano sotto la fenomenologia delle apparenze. Si potevano sì cogliere i caratteri ereditari, la fisiologia, la fenomenologia dei comportamenti dell'uomo, come avevano fatto i naturalisti, ma rimaneva pur sempre inesplorato e non leggibile con la logica tradizionale quel magma fermentante e brulicante di pulsioni che dominano il mondo inconscio, il sogno, e il loro legame con l'ignoto e con il mistero cosmico.
Da Baudelaire fino a Mallarmé, gli artisti andranno allora alla ricerca di nuovi strumenti conoscitivi da sostituire alla ragione e alla scienza, e li troveranno nell’“intuizione” e nell'“arte”. Per capire la realtà bisogna penetrarla piuttosto che rifletterla, essi diranno; solo l'intuizione può mettere in diretto contatto l'artista con l'anima delle cose, con le zone della vita irrazionale e inconscia, col mistero della vita universale. L'intuizione salterà i vari piani delle conoscenze della logica e penetrerà direttamente nelle essenze delle cose molto più in profondità di quanto non riesca a fare la più analitica descrizione scientifica e la più precisa riproduzione fotografica. L'arte, usando l'intuizione, si farà strumento di conoscenza, diventerà conoscenza autentica del reale; l'irrazionale, l'istintivo, l'inconscio si potranno captare solo per quelle illuminazioni istantanee, per quelle folgorazioni improvvise che solo l'arte è in grado di esprimere.
Attribuire, come fanno i decadenti, fini conoscitivi all'arte comporta fondamentalmente questo: ridare autonomia creativa all'artista, ridotto dal Naturalismo a freddo e impersonale registratore del dato reale; ora il poeta, non più scienziato e impassibile registratore, si fa veggente, esteta, fanciullino, santo, superuomo.
Le Avanguardie
(Rottura col passato e tensione verso il nuovo) I movimenti di avanguardia rappresentano sempre un'ansia di ricerca, di rottura col passato e di tensione verso il nuovo. “Avanguardie storiche” vengono definite quei movimenti che operarono all'inizio del Novecento: Futurismo, Cubismo, Espressionismo, Dadaismo, Surrealismo, ecc. e, in ambito più provinciale e tipicamente italiano, il Crepuscolarismo. "Neoavanguardie”, invece, vengono chiamate le riprese di quei movimenti negli anni successivi alla seconda guerra mondiale.
Le Avanguardie storiche furono impegnate a demolire il passato nelle sue forme e nelle sue istituzioni, a rifiutare il mondo borghese, a progettare un nuovo mondo: distruzione, dunque, e ricostruzione. E le avanguardie lo fecero con eccezionale carica rivoluzionaria, con un atteggiamento di rivolta che spesso assunse toni di scherno e persino di cinismo: «scandalizzare il borghese, giocargli dei tiri mancini, fare lo sgambetto al filisteo, mettere alla berlina il benpensante, ridere ai funerali e piangere alle nozze, diventò una pratica comune agli artisti d'avanguardia». La provocazione era nei gesti, negli insulti, negli atteggiamenti polemici, nelle opere sia artistiche che letterarie. Le «serate futuriste» spesso terminarono fra clamori assordanti e risse furibonde. Max Jacob dipingeva i suoi quadri servendosi di materie fisiologiche, per poi venderli ai turisti di lusso. Nel 1913 Marcel Duchamp prese un portabottiglie e una ruota di bicicletta e, dopo averle firmate, le espose come “opere” sue. Di fronte a queste manifestazioni il pubblico benpensante restava scosso, turbato, reagiva indignato; definí «belve del colore» i pittori che nel 1905 esposero le loro opere al Salon d'automme di Parigi; vide nella propaganda dei pittori cubisti, futuristi, post-impressionisti «non soltanto una minaccia diretta all'arte, ma anche un grave pericolo per la pubblica morale». Secondo la critica accademica, il pittore francese Matisse sceglieva le modelle più laide, le metteva nelle pose più oscene e quindi le dipingeva come avrebbe fatto un bambino selvaggio o perverso. Era insomma l'indignazione di chi sentiva che le sue convinzioni estetiche più solide e tranquille erano messe brutalmente a repentaglio da un pugno di iconoclasti che non rispettavano più né la grandezza della tradizione né il sacro tempio dell'arte.
Ma dietro le bizzarrie, le stravaganze, le eccentricità delle avanguardie, che tanto stupivano e scandalizzavano, c'erano profonde motivazioni storiche, esistenziali e culturali. C'era un sentimento tragico dell'esistenza, un disagio incolmabile, una profonda inquietudine per i tempi bui che si addensavano all'orizzonte, la condanna di una borghesia ipocrita, falsa ed egoista, di una civiltà deformante. C'era la rivolta dell'artista “deraciné”, oramai solo un “rifiuto” della società, che tendeva lui stesso a farsi “segno di contraddizione”, di fronte alle contraddizioni e al disagio di un mondo privo di certezze positive. D'altra parte le avanguardie storiche, con il loro ossessivo desiderio di cercare e di sperimentare nuove vie d'espressione, spazzarono via le vecchie idee e i tradizionali modi del fare artistico, investendo tutti i settori della cultura: le arti figurative, la poesia, il teatro, il cinema, la musica.
NOVECENTO: GLI ORIENTAMENTI DELLA CULTURA
Il programma letterario di Pier Paolo Pasolini appare sin dall’inizio caratterizzato da una piena disponibilità verso uomini e cose, tutti degni di offrirsi al suo sguardo e di essere trattati dalla sua penna, indipendentemente dai rischi della caduta in schemi, di volta in volta, censurabili come «borghesi» o «di partito» o condannabili come superati dalle neoavanguardie.
E di polemiche, in effetti, Pasolini ne ha sempre suscitate molte, spesso facendosene egli stesso deliberato provocatore. È il caso della sua accusa contro la critica e la cultura marxista di “prospettivismo”, ossia di pretendere che i testi letterari si facciano portatori dei valori di quel mondo futuro che la società progressista si sforza di creare; laddove invece, a suo dire, “in una società come la nostra non può venire semplicemente rimosso, in nome di una salute vista in prospettiva, anticipata, coatta, lo stato di dolore, di crisi, di divisione”.
A questo “stato di dolore” e alla classe che se ne fa esemplare protagonista, ossia il sottoproletariato urbano respinto ai margini dell'organizzazione sociale, lo scrittore ha costantemente rivolto, invece, un interesse pronto a trasformarsi in adesione viscerale, irriflessa, talora feticistica, nella convinzione che sia per lui necessario “restare/ dentro l'inferno con marmorea/ volontà di capirlo.”, senza ricorrere ad edulcorazioni e senza precorrere i tempi in una vana speranza di un mondo pacificato. Il «limite» però di tale visione consiste nel fatto che il “popolo” è sempre visto da Pasolini come natura, vitalità, forza potente e originaria, capace sì di rinnovare la storia, ma in modo incosciente, per la sua stessa esuberanza che si fa motrice di un progresso non preordinato. Pasolini riconosce la scissione esistente tra l’intellettuale, l’“Uomo” violentato dalle sue memorie, preda dell’ansia di giustizia, e il mondo popolare, nella cui “felicità” e inconsapevolezza soltanto si può porre la speranza di un riscatto. Pasolini, quindi, non riesce a vedere nella classe operaia “la millenaria sua lotta”, che egli non considera evidentemente una reazione spontanea allo sfruttamento, ma piuttosto indotta dall’esterno, dalla consapevolezza degli intellettuali. Non sa vederla né amarla, come non amerà poi il suo tendenziale imborghesimento, mentre ama invece la sua dimensione di vitalità primitiva, di ardore sessuale, di tendenziale anarchismo, il suo dolore sempre pronto a mutarsi in allegria incosciente e barbarica: non a caso i suoi protagonisti non sono adulti-lavoratori, ma fanciulli-vagabondi.
È chiaro che una concezione siffatta rischia facilmente di cadere nella contraddizione. Tutta la produzione di Pasolini è, infatti, divisa tra l’aspirazione al razionalismo, ossia l’aderenza all’ideologia marxista, a Gramsci, con l’astratta intelligenza, e l’adesione irrazionalistica e sentimentale ad una sorta di “decadentismo”, che è insieme estetico e morale, e che si traduce, da un lato, nel gusto del primitivo e del barbarico (il ceto popolare visto come gagliardìa intatta, utopisticamente fedele al retaggio dell’antica cultura contadina) e dall’altro nel compiacimento, magari involontario ma nondimeno operativo, dell’individualismo, della soggettività dello scrittore; una soggettività che, facendosi metro di giudizio, non può rispondere, in ultima analisi, che agli schemi dell’etica borghese. Ne deriva una sostanziale, disperata incapacità di scelta: un rifiuto anarchico del vecchio mondo, non suffragato dalla prefigurazione costruttiva di uno nuovo.
Va detto, comunque, che gli stessi limiti di questo atteggiamento contraddittorio si possono considerare, in buona parte, superati dalla costante tensione verso una sempre maggiore consapevolezza, che si rivela il tratto culturale distintivo di Pasolini e che ha il suo massimo rilievo nella realizzazione artistica, sempre fondata sulla certezza che l’“espressione vive solo a patto di tenersi legati alla realtà per un cordone ombelicale”. Ed è in tale ottica che si spiegano le scelte linguistiche e tematiche dello scrittore, proiettate proprio verso questa aderenza totale al reale.
In questa direzione “mimetica” Pasolini si muove fin dalla sua prima prova: quelle “Poesie a Casarsa”, scritte in dialetto friulano, che vogliono proprio significare un perentorio distacco dalla lingua convenzionale e aristocratica della tradizione letteraria e una protesta contro l’accentramento nazionalistico del regime. Da questa attenzione verso il mondo “dialettale” nascono i primi suggerimenti al Pasolini scrittore, messi poi definitivamente a fuoco nei romanzi “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”. In questi, oltre al gusto del recupero del dialetto, c'è la ricerca di una tematica materiata dì calda vitalità, che dalla lingua trae non uno strumento ma l’essenza stessa della sua sopravvivenza.
Cosí, il gergo romanesco, composto dalle ascendenze dialettali più diverse secondo le varie provenienze degli abitanti delle borgate, quale lingua arcaica preborghese contrapposta all’italiano culto dei reazionari, diventa l’espressione «pura» della vita, non ancora contaminata dal morbo della società civile e consumistica; di una vita raffigurata anche nei suoi aspetti più negativi e addirittura delinquenziali, ma vera, colta in atto, fuori da ogni proposta di programmatico e aprioristico mutamento. Di qui la polemica, condotta sulle pagine della rivista «Officina», oltre che contro talune tesi marxiste, contro certo «facile» e frettoloso impegno del Neorealismo; cosi come, per altro verso, polemica sarà la posizione pasoliniana anche nei confronti della Neoavanguardia, tesa, invece, a sondare la “tensione industriale” delle zone di capitalismo avanzato; mentre a sua volta a questa egli si offre come bersaglio per quelli che sono definiti il suo pascolismo poetico e il suo naturalismo narrativo.
Ma se il «pascolismo» della poesia di Pasolini deve intendersi come riadozione di modelli tradizionali al fine di un uso antitradizionale e sperimentale, per la realizzazione di quella che giustamente è stata definita una poesia «onnivora d'ogni suggestione che la realtà possa offrire», il suo «naturalismo» narrativo risponde a un'esigenza «rivoluzionaria». O almeno tale doveva essere per Pasolini la sua scoperta del sottoproletariato come società alternativa, portatrice di un inconscio messaggio di umiltà e povertà da contrapporre a quello edonistico e nichilista della borghesia.
Questo intento gli riesce senza dubbio meglio nel primo romanzo, “Ragazzi di vita”, in cui con capacità evocative non comuni lo scrittore dipinge a tinte crude la vita di un gruppo di adolescenti che spendono l'esistenza tra l'ammazzare il tempo e il puro sopravvivere, nel giro dell'infernale periferia romana.
Nel secondo, “Una vita violenta”, dotato di un più solido impianto narrativo, si scopre maggiormente l'intenzione «sociale» attraverso la rappresentazione della presa di coscienza politica da parte del protagonista, Tommasino, che finisce col pagare con la vita la sua raggiunta maturità: perisce, infatti, in un'inondazione, tentando di salvare dei baraccati. Ma appunto in questo presupposto, per dir così, «edificante» sta il limite del testo, nel quale, contrariamente a quanto Pasolini teorizza in sede critica, pare giocare un ruolo predominante proprio l'ideologia: segno anche questo di quell'atteggiamento contraddittorio che percorre tutta la sua opera e che costituisce, d'altro canto, gran parte della sua fervida vitalità.
PIER PAOLO PASOLINI
Il percorso poetico di Salvatore Quasimodo si apre con la raccolta “Acque e terre”, che contiene alcuni temi fondamentali della successiva produzione. La raccolta oscilla tra la celebrazione di una mitica e serena infanzia nella lontana Sicilia e un senso di sofferta, ma a volte ricercata, condizione di sradicato; tra il senso di debolezza e caduta della carne e il rimpianto di una primitiva innocenza e di una perduta comunione con le cose. L'oscillazione si concretizza in alcuni motivi di fondo: malinconia e pena dell'esule, senso del male di vivere, angosciosa solitudine esistenziale, ansia di infinito e di assoluto, assalto dei sensi, preghiera di ascesi e di purezza.
Il nucleo tematico della lirica “Vento a Tindari” nasce, infatti, dalla conflittualità, sempre presente in Quasimodo e spesso anche ricercata, tra la memoria che ha bloccato nell’animo paesaggi e ricordi della terra siciliana e l’“aspro esilio” lontano dall’isola. Dal dissidio tra memoria e realtà germinano altre conflittualità: tra la fanciullezza cara e la maturità pensosa, tra l’amore di un tempo e la tristezza del presente che è “ansia di morire”, amarezza e fatica.
In questo mondo poetico, fondato sull'amore della terra d'origine e sui ricordi d'infanzia e della famiglia, risuonano, ma con accenti personali, cadenze pascoliane, echi dell'“Alcyone" di D'Annunzio, suggestioni della “poesia nuova”: dalla tecnica dell'analogia all'uso di forme ellittiche.
Con “Oboe sommerso” (1932) ed “Erato e Apollion” (1936), Quasimodo si adegua al gusto e alla sensibilità di tanto Ermetismo fiorentino, spesso esasperando la ricerca della parola essenziale, scarnificata e suggestiva, fino al limite dell'abuso di forme ellittiche e di analogismi. Il Quasimodo di queste opere traduce tutto, anche l'universo privato e dei ricordi della mitica Sicilia, in eleganze formali che mascherano però l'approssimazione e i limiti di tale esperienza. Esemplare in questo senso l'uso di immagini-formule, quali: nuvole, colombe, angeli, isole, fiumi, cielo, vento, aria, ecc.; e della parola-tema “luce” che diventa, anche per la solarità mediterranea dell'ambiente siciliano, un vero polo aggregante di analogie. Certe formule poi non hanno autenticità poetica, ma appaiono piuttosto come una forzatura intellettualistica: “Sono un uomo solo / un solo inferno”.
L'ermetismo dominante di “Oboe sommerso” e di “Erato e Apollion” ha indotto molti critici a giudicare Quasimodo uno dei rappresentanti più qualificati di quella scuola. Ma Carlo Bo, esponente della critica ermetica e in un certo senso il teorico della scuola, afferma che molto arbitrariamente Quasimodo è stato ritenuto il responsabile maggiore dell'ermetismo, o, per lo meno, il rappresentante poetico più equilibrato. Oggi a distanza di tempo, secondo il critico, le cose hanno preso un altro rilievo e Quasimodo ci appare come un compagno di strada dell'ermetismo, come uno che vi si è trovato a vivere in un dato momento e per spirito di cameratismo ha creduto di dover condividere motivi critici e posizioni che, in fondo, contrastavano con la sua vera natura. L'ermetismo, dunque, non apparterrebbe alla più autentica fisionomia di Quasimodo; l'ermetismo, come qualcun altro ha sottolineato, sarebbe stato per il poeta siciliano un « equivoco ».
(La Sicilia-Eden) La poesia di Quasimodo trae un elemento di chiarificazione dalla traduzione dei “Lirici greci”, apparsa nel 1940. (Traduce anche Omero, i tragici greci, i poeti latini Catullo, Virgilio, Ovidio, e poi Shakespeare, Neruda e altri). Lo stesso Quasimodo spiega che non ha inteso restituire alla poesia greca le sue forme originarie, bensì rivestirla di una forma moderna. Queste versioni, pertanto, devono collocarsi nell'area creativa di Quasimodo, perché il poeta riesce a conferire al testo originale una nuova “scrittura” che risente del gusto ermetico del tempo. Ma la nuova retorica ermetica, applicata a sentimenti e situazioni poetiche sciolte da ogni contesto contemporaneo, vi raggiunge la massima purezza. È razionale perciò la diffusa persuasione che in esse il poeta tocchi il suo punto più alto; comunque è certo che quelle versioni esercitarono sul linguaggio poetico medio e medio-alto un influsso pari e forse superiore e più duraturo della lirica “originale” del loro autore. L'esito felice di queste traduzioni, con la raggiunta purezza e trasparenza espressiva dopo tanta oscurità allusiva, influisce anche sulla contemporanea produzione poetica di Quasimodo, soprattutto sulle “Nuove poesie” che concludono il volume “Ed è subito sera” del 1942, caratterizzata da un più ampio respiro espressivo, da una resa musicale più sciolta, dal recupero di forme metriche tradizionali. Il sapore e i colori della sua terra, ossia la Sicilia dell'infanzia fermentante di umane presenze e di struggenti memorie, l'“alta malinconia dell'esiliato” trovano ora accenti e forme più autentiche. Di fronte allo sgretolarsi del vivere, alla monotonia dell'esistere, al dolore e alla disgregazione senza scampo che il poeta ha scoperto nella vita, la Sicilia, e con essa l'infanzia, mitizzate e favolose, divengono un rifugio, un paradiso perduto di una beata comunione con la natura, un Eden nostalgicamente contemplato nella memoria e a cui il poeta di tanto in tanto approda pacificato.
(La poesia «sociale» del dopoguerra) La parabola creativa di Quasimodo riflette la storia della nostra poesia contemporanea: dall'Ermetismo al bisogno di un colloquio più aperto con gli uomini. L'irrompere tragico della guerra, infatti, porta il poeta a una revisione dei suoi modi di fare poesia, soprattutto incidendo sui contenuti. Con le raccolte “Giorno dopo giorno” (1947) e “La vita non è sogno” (1949) si ha, almeno apparentemente, il rifiuto del passato alla ricerca di un più marcato impegno civile e sociale. Per Quasimodo la guerra ha interrotto una cultura e proposto nuovi valori dell'uomo; e se le armi sono ancora nascoste, il dialogo dei poeti con gli uomini è necessario, più delle scienze e degli accordi tra le nazioni che possono essere traditi. Nella nuova realtà dunque c'è bisogno di poesia sociale che aspira al dialogo più che al monologo. C'è bisogno soprattutto di “rifare l'uomo”: questo è il problema capitale, questo è l'impegno, secondo Quasimodo. A coloro i quali credono che la poesia sia solo un gioco letterario e che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita Quasimodo risponde che “il tempo delle speculazioni è finito”.
Sono dichiarazioni che si sintonizzano con l'impegno propugnato dalla narrativa neorealistica che si andava affermando e dibattendo in quegli anni post-bellici, e che testimoniano una volontà di rinnovamento, lo sforzo di uscire dalla solitudine aristocratica della “lirica pura”. La voce del poeta si leva sulle rovine e sui dolori della guerra, condanna la barbarie consumata e la violenza dell'uomo diventato peggiore di Caino. Ma su questo deserto di morte e di distruzione sembra intravedersi un raggio di speranza: sulla legge dell'odio trionferà quella dell'amore, l'umanità risorgerà dalle rovine della guerra come è risorto Lazzaro dalla tomba. Di fronte alla nuova poesia «impegnata» di Quasimodo la critica si è divisa, e sostanzialmente lo è tuttora. Alcuni vedono una continuità di ispirazione tra il poeta ermetico e il poeta della realtà della storia vera e attuale, e insistono sull'unità del cammino artistico rivendicandone il valore morale. Altri, forse i più, nella tematica umanistico-sociale avvertono, al di là di alcune zone di intensa significazione e di felice resa poetica, un sapore di insincerità e di retorica, anche se di nobile retorica.
“Uomo del mio tempo” è l’ultima lirica di “Giorno dopo giorno” e, come le altre che compongono la raccolta, riflette la “svolta impegnata” di Quasimodo, la sua intenzione di “rifare l’uomo” attraverso una poesia che affondasse la tematica nella realtà e nelle condizioni dell’uomo del suo tempo. Il compito era indubbiamente alto, forse troppo per gli strumenti a disposizione di Quasimodo, e la poesia approda spesso a risultati di nobile retorica, di alto magistero morale, ma distante da un felice esito artistico.
“Uomo del mio tempo” è un implacabile atto di accusa contro l’agghiacciante disumanità della guerra, contro la ferocia, bestiale e razionale allo stesso tempo, a cui si sono abbandonati gli uomini nella seconda guerra mondiale. Agli occhi del poeta appare un’umanità mostruosa che inizia il suo cammino col più belluino dei suoi gesti: il fratricidio. Su di un piano morale, l'uomo dell'epoca attuale non si discosta dall’uomo dell’età della pietra, che scaricava la sua istintualità selvaggia contro i suoi simili con il sasso scagliato dalla fionda. Il progresso della civiltà non ha certamente mutato quegli istinti primordiali: l’odio è rimasto uguale e insaziabile.
L'insistita ripetizione nella poesia del verbo “uccidere” vuole, infatti, sottolineare la continuità della violenza e di una condizione dell'uomo che, dalle origini a oggi, non ha mutato i suoi animaleschi istinti aggressivi. L’uomo ripete ancora oggi il fratricidio della « Genesi », quasi a scontare la maledizione biblica di quell'originaria colpa.
Quasimodo rimprovera all’uomo del suo tempo non solo di essere ancorato ancora alla dimensione morale della preistoria, ma anche di aver costretto la sua scienza così superbamente perfezionata a divenire strumento di sterminio, piuttosto che di civile progresso, senza curarsi di un sia pur minimo sentimento di solidarietà e d’amore per i suoi simili, senza Cristo, simbolo d’amore oltre ogni fede e ogni ideologia. Non solo, quindi, non è mutato nulla da allora, ma l'uomo ha mirato a perfezionare sempre di più gli strumenti dello sterminio; ha rivestito la guerra di ideali, legittimando perfino gli assassini. La cosiddetta “civiltà”, quindi, invece di rendere gli uomini più buoni, li lasciò fermi nei loro istinti di primitivi, di uomini-belva, alla barbarie di Caino. Ma le nuove generazioni devono avere ora il coraggio di vergognarsi dei loro padri e di dimenticarli, piuttosto che vergognarsi di essere uomini, e devono sostituire, finalmente, la legge di Caino con quella di Cristo.

SALVATORE QUASIMODO
(Un «povero fanciullo che piange») La vicenda biografica ha rischiato di fuorviare il giudizio critico su Sergio Corazzini, portando a considerare la sua poesia come una semplice testimonianza di private sofferenze e di speranze troppo presto stroncate. In realtà, quella poesia, alla luce delle vicende della lirica italiana del Novecento, si rivela una delle voci più autentiche del « crepuscolo » poetico. Ritroviamo in Corazzini un mondo di oggetti umili e quotidiani, un paesaggio triste e solitario continuamente rievocato e che ben si addice alla sua malinconica natura (gli organetti di Barberia, gli smorti fanali nelle vie deserte, le corsie d'ospedale, i piccoli interni domestici, ecc.). Ritroviamo la reazione a tutto il clangore carducciano e dannunziano, il rifiuto della funzione del poeta-vate; ritroviamo infine il clima culturale in cui sorse la poesia crepuscolare, come pure le soluzioni stilistiche e linguistiche da essa adottate. La poesia di Corazzini appare come un monologo, un continuo colloquio con se stesso, dai toni dimessi ed estenuati, espressione della sua profonda tristezza di fanciullo che, sentendosi morire, si attacca alle povere cose che vede sfiorire assieme alla sua persona. Il poeta vive l'esperienza crepuscolare con totale abbandono; ma gli manca la consapevolezza ironica di Gozzano, il rovesciamento della poesia tradizionale nel ridicolo e nel burlesco.
SERGIO CORAZZINI

Esempio



  


  1. Gianna

    Ciao! cerco un tema sulla sociologia della salute..che tocchi il pensiero di vari sociologhi dell'8