Miracolo economico italiano: ottima tesina di storia

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Testo

1. INTRODUZIONE
La seconda guerra mondiale stremò l’Europa e lasciò in rovina la maggior parte dei paesi. I mezzi di produzione, se non erano stati distrutti, erano talmente danneggiati che le industrie ancora in piedi funzionavano a mala pena. Le vie di comunicazione erano state cancellate dai bombardamenti aerei e ciò rendeva difficile il trasporto delle merci. L’attività commerciale era quasi nulla, come del resto gli scambi finanziari. Tutti i paesi erano soggetti ad un grave squilibrio monetario e l’inflazione minacciava ancor di più una popolazione che non aveva né abitazioni né servizi elettrici né erogazione d’acqua potabile. Inoltre nessuno stato sembrava in grado di ricostruire da sé la propria economia nazionale.
2. STATI UNITI E PIANO MARSHALL
Gli Stati Uniti, invece, non soltanto vinsero la guerra, ma erano anche diventati la nuova grande potenza economica mondiale.
Nei mesi successivi alla fine della guerra, i movimenti comunisti dei paesi occidentali avevano acquisito una grande rilevanza, soprattutto in Francia e Italia. Il loro prestigio derivava dal ruolo avuto nella lotta contro il fascismo e il nazismo, mentre l'ancoraggio all'URSS accentuava la loro presa sulle masse popolari. Tutta l'Europa dell'Est era rimasta nella zona di influenza sovietica e il pericolo di un'estensione del comunismo su tutto il continente era ritenuta da parte statunitense più che una semplice possibilità. Per gli Stati Uniti era chiaro che, per il futuro del capitalismo, era necessario un aiuto deciso e massiccio, affinché le indebolite economie europee non provocassero rivolte e rivolgimenti dei sistemi politici.
Il 5 giugno 1947, il segretario di Stato americano, George Marshall, pronunciò un discorso a Harvard in cui espose il suo progetto per la ricostruzione delle infrastrutture economiche, finanziarie e commerciali del vecchio continente. L'URSS, dapprima incerta, rifiutò il “Piano Marshall”. La Spagna ne fu esclusa, per aver mantenuto una posizione vicina ai nazisti e per il suo regime dittatoriale.
Diverso fu l’atteggiamento dei paesi dell'Europa Occidentale. Il 12 aprile si riunì a Parigi la Conferenza dei sedici (dal numero dei partecipanti). Tre giorni dopo fu costituita l’Organizzazione Europea per la Cooperazione Economica (OECE), che si incaricò di redigere un rapporto sul volume degli aiuti, valutati intorno ai 22 miliardi di dollari. Il Piano Marshall si concretizzò nell'European Recovery Program (ERP), approvato dal Congresso degli Stati Uniti nell’aprile del 1948. Per coordinare e organizzare l'ERP furono create due commissioni: l'Economic Cooperation Administration, con sede a Washington, e l'OECE, con sede a Parigi.
Nel luglio del 1948 la struttura produttiva statunitense cominciò a fornire all’Europa soprattutto materie prime ed energia. Il piano consisteva nello sfruttare direttamente tali beni o nel venderli per ricavare denaro da investire in progetti governativi, sempre sotto il controllo e la supervisione delle autorità statunitensi. Come contropartita, gli stati europei dovevano fornire le materie prime eventualmente richieste loro da Washington e agevolare gli investimenti statunitensi.
Il Piano Marshall si concluse nel 1952, senza peraltro aver investito interamente il capitale inizialmente previsto. La somma complessiva si aggirava sui 12 miliardi di dollari. La Gran Bretagna ricevette la maggior parte degli aiuti, circa il 26%; la Francia il 20%; la Germania il 13% (1 miliardo e mezzo di dollari); il 10% l'Italia; il 9% i Paesi Bassi; il 5% il Belgio e l'Austria.
Nel 1953 la produttività europea aveva gia recuperato tutto il suo vigore, ottenendo risultati migliori di quelli degli anni precedenti alla guerra. I grandi investimenti in infrastrutture e in mezzi di trasporto rafforzarono il commercio. L'inflazione fu messa sotto controllo e il consumo e i redditi nazionali crebbero. Il processo di ricostruzione dell'economia europea fu assai più rapido di quanto si potesse prevedere.
George Marshall
3. L’ITALIA DEL PRIMO DOPOGUERRA
Per quanto riguarda il nostro Paese, alla fine dal conflitto, esso era profondamente ferito dai bombardamenti anglo-americani e dalle distruzioni lasciate dai nazisti, stanco, sfiduciato, senza prospettive precise, incerto addirittura sulla sua stessa unità. L'economia era prostrata; la società era sostanzialmente la stessa d’inizio secolo, prevalentemente agricola, arretrata e provinciale; la presenza di un fortissimo partito comunista rendeva incerta la sua stessa posizione sullo scacchiere internazionale.
Alla fine dell’ultimo conflitto le differenze tra le varie aree del Paese sono profonde: nell’Italia centrale la guerra di posizione aveva aggiunto distruzioni a distruzioni. Qui infatti si riscontrano i danni maggiori in settori come i trasporti e l'elettricità. Altro fattore di disomogeneità, che peserà in futuro sul diverso tasso di sviluppo di Nord e Sud, è l'importantissimo ruolo del CLN (Il Comitato di liberazione nazionale) ai fini della difesa dell' apparato produttivo e della garanzia della sussistenza della popolazione.
Alla fine del 1945 al governo Parri succede quello del democristiano De Gasperi, che nel giugno del 1946 guiderà il passaggio dalla monarchia alla repubblica. I primi due governi presieduti da De Gasperi furono entrambi di coalizione, sostenuti cioè dalla quasi totalità dei rappresentanti parlamentari.
Vi erano ancora diversi problemi sul fronte economico: bisognava riconvertire la struttura produttiva del paese (arretrata, autarchica, protetta, ostacolata nello sviluppo da troppe posizioni di monopolio) e ridurre il divario tra il Nord e il Sud (questo ultimo obiettivo fu clamorosamente mancato). Altri problemi furono la preoccupante coesistenza dell’inflazione e disoccupazione e una notevole scarsità di materie prime aggravata dalla carenza di mezzi per pagare le importazioni. La fase neoliberale ebbe comunque il non piccolo merito di sconfiggere l'inflazione con misure dure e decise.

De Gasperi,
(presidente del consiglio italiano dal 1945 al 1953)
4. IL DECOLLO INDUSTRIALE ED ECONOMICO
Grazie al Piano Marshall e alla politica intrapresa dal nostro paese, l’Italia conobbe una formidabile crescita economica.
Basti pensare che fra il 1952 al 1970, il prodotto interno lordo degli italiani crebbe più del 130%.
In paesi come Francia e Inghilterra l’aumento nel medesimo periodo fu rispettivamente del 36% e del 32%.
Parallelamente crebbe anche la capacità di spesa ed il tenore di vita. Nel 1958, i possessori di un televisore erano il 12%, nel 1965 erano quattro volte tanto. Nel 1958, solo 13 persone su 100 possedevano un frigorifero e 3 su 100 una lavatrice: nel 1965 le percentuali erano del 55 e del 23.
Come si nota dalla foto, in quegli anni
aumentò notevolmente il consumo dei prodotti alimentari.
Questi risultati erano dovuti alla cooperazione tra gli stati, dall’incremento del volume degli scambi e a una sempre maggiore domanda interna. Inoltre l’industria italiana poté giovarsi di una numerosa manodopera a basso costo resa disponibile dalla crisi del dopoguerra. Nacquero anche strutture industriale modellate sulle esigenze della domanda estera, anch’essa in notevole crescita.
In questo periodo l’aumento di produttività oraria nei settori tessile e alimentare è del 4-5%, in quello chimico, automobilistico e siderurgico varia tra 8,5% e 11%.
L’aumento della produzione risultò sorprendente: nel 1947 la Candy fabbricava una lavatrice al giorno, nel 1967 una ogni quindici secondi. Nel 1951 furono prodotti 18.500 frigoriferi, nel 1957 la cifra era di 370.000 e nel 1967 di ben 3.200.000. L’Italia era diventata il primo produttore europeo di elettrodomestici.
L’interno di un negozio di elettrodomestici.
Ma anche la produzione automobilistica costituiva inoltre un grosso fattore propulsivo per l’intera economia e l’industria dell’indotto si sviluppava anche fuori delle grandi città. L’espansione dell'industria manifatturiera cominciava a manifestarsi anche al di fuori del solito triangolo industriale.
Grazie al notevole aumento dei profitti, il periodo 1959-1962 fu caratterizzato dai primi cospicui incrementi salariali nel settore industriale. Attorno al 1962 veniva raggiunta in molti settori la piena occupazione che comportò una diminuzione del potere sindacale (ricordiamo che è del 1948 la frattura del sindacato unitario in CGIL, CISL e UIL). Questo improvviso benessere comportò l’aumento dei consumi dei beni materiali e del turismo.
La spiaggia affollata di Iesolo negli anni ‘60
L'aumento degli investimenti degli anni precedenti, sommato alla notevole tendenza al consumo diede origine - fenomeno nuovo per l'Italia - a un’ inflazione per eccesso di domanda, alla quale la Banca d'Italia rispose con una stretta creditizia. Ulteriore risultato è la stabilità dei prezzi che rappresenta l’ambiente più favorevole al contenimento dei salari, all’investimento produttivo e alla crescita dei consumi.
Tra i principali gruppi del “triangolo industriale”, la FIAT e l’Olivetti furono tra i primi nel dopoguerra ad affrontare un processo di riorganizzazione aziendale con l’apertura verso il mercato internazionale.
FIAT è la sigla della Fabbrica Italiana Automobili Torino, una società automobilistica costituita nel 1899 sotto la guida di Agnelli. A partire dal 1915 la FIAT partecipò attivamente alle forniture belliche, ascendendo in tal modo al terzo posto tra le industrie italiane, dopo l’Ansaldo e l’Ilva. Nel dopoguerra la FIAT intensificò la produzione e l’esportazione di auto, promuovendo il considerevole sviluppo della motorizzazione privata. La possibilità di produrre a costi decrescenti dipendeva, da un lato, dal massimo sfruttamento degli impianti, di pari passo con la sostituzione dei macchinari più vecchi; dall’altro, dall’allargamento del mercato interno, in presenza di un aumento generale del potere di acquisto, e da una graduale liberalizzazione degli scambi. Si può dire, in sintesi, che la FIAT fu un asse portante del modello di sviluppo caratteristico del “miracolo economico” italiano degli anni ‘60, avendo esteso, in quegli anni, la sua presenza all’estero sino a diventare un gruppo multinazionale. All’ inizio degli anni Sessanta, infatti, più della metà della popolazione torinese viveva direttamente del lavoro del gruppo FIAT, ma consistenti frange di addetti alle attività terziarie, al commercio e ai servizi operavano ai margini del vasto giro di interessi alimentato dalla principale impresa motrice e dalle sue affiliate. Inoltre la continua crescita della produzione automobilistica e delle costruzioni accessorie aveva richiamato a Torino e nella sua cintura, fra il 1951 e il 1961, un continuo flusso migratorio, specialmente dalle zone depresse del Mezzogiorno e dalle campagne più povere dell’entroterra regionale.
La “500” fu la macchina simbolo della FIAT.
Altrettanto intensa fu la trasformazione dell’Olivetti. Poste le basi fra il 1946 e il 1947 per un’opera costante di rinnovamento dei sistemi di lavorazione e di controllo, l’azienda di Ivrea si avvalse degli aiuti governativi e di quelli americani per progettare nuovi impianti e inaugurare un tipo di produzione standardizzata per categorie differenziate di consumatori e per una più ampia gamma di impieghi. Fu merito di Adriano Olivetti l’elaborazione di un piano di sviluppo complessivo, che teneva conto sia dei risultati già raggiunti dopo il 1937 nel campo delle macchine da scrivere e delle calcolatrici, sia delle nuove potenzialità offerte dal settore dell’attrezzaggio (rettificatrici, macchine multiple e speciali, impianti di lavorazione automatizzati). Sotto il profilo economico la sua espansione si svolse più o meno negli stessi tempi e con le stesse cadenze di quella della FIAT. Dopo la pausa di "raccoglimento" del 1952-53, in coincidenza con una breve fase recessiva, il periodo centrale degli anni Cinquanta rappresentò per l’impresa di Ivrea un momento cruciale. Anche in questo caso, a innescare uno sviluppo quantitativo senza precedenti e a costi decrescenti, fondato sul binomio ad ogni livello di tecnica e organizzazione, fu l’impetuosa crescita della domanda di nuovi beni di consumo durevoli. Fra il 1946 e 1958 il numero delle macchine da scrivere di tipo standard si moltiplicò per più di quattro volte e mezzo, quello delle portatili di quasi nove, e quello delle macchine da calcolo e contabili per più di sessantasei volte.
Una speciale macchina da scrivere prodotta dall’Olivetti.
(Olivetti Restisuma – 1950)
5. ASPETTI CARATTERISTICI E PROBLEMI DELLA CRESCITA ECONOMICA
Uno degli aspetti più caratteristici del “miracolo economico” fu il suo sviluppo spontaneo e incontrollato. La politica non fu in grado di indirizzarlo e di correggerne i maggiori squilibri. Ciò prese il nome di “distorsione dei consumi”.
Infatti, mentre i consumi privati si erano molto sviluppati, altrettanto non si poteva dire per i consumi pubblici, cioè per i servizi sociali, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, ecc.
Altri fenomeni segnarono in maniera negativa questo periodo: l’urbanizzazione incontrollata e l’immigrazione interna, che coinvolse milioni di persone. L'esodo dalle campagne, fenomeno comune a tutta la penisola, rappresentò uno degli aspetti più critici del passaggio da un’economia agricola a una industriale. Dal 1951 al 1971 più di dieci milioni di italiani furono coinvolti in migrazioni interregionali. Le città si gonfiarono a dismisura: gli interventi di edilizia popolare furono insufficienti.
Le periferie si allargavano disordinatamente, molto spesso al di fuori di ogni piano regolatore, diventando veri e propri quartieri dormitori. Inoltre diventarono presto terreno di ingiustizie sociali, dove cresceva a sua volta la criminalità urbana.
Determinante alla cattiva gestione del territorio fu anche la mancata costruzione di una adeguata ed efficiente rete di trasporti.
Strettamente legato al problema della urbanizzazione fu quello dell’immigrazione, fenomeno generato a sua volta, dallo squilibrio tra Nord e Sud che il boom economico aveva decisamente acuito. Tra il 1951 e il 1974 l'esodo fu impressionante: 4,2 milioni di meridionali (su un totale di 18 milioni) emigrarono nel Nord Italia e molti altri nel Nord Europa.
La “questione meridionale” aveva attraversato la storia d'Italia fin dall'Unità. Nel dopoguerra l'economia meridionale soffriva di un’industria scarsamente sviluppata e tecnologicamente arretrata, di una generale bassa produttività del lavoro, di una troppo alta percentuale della popolazione dedita all’agricoltura, che la poneva in balìa delle fluttuazioni dei prezzi. La capacità di accumulazione di capitale era scarsa e le infrastrutture totalmente insufficienti. La classe dirigente mancava di mentalità imprenditoriale: nel Sud più che altrove la sopravvivenza della vecchia classe fascista o prefascista era risultata più facile. Nell’ottobre del 1950 veniva istituita la Cassa del Mezzogiorno, il cui nome evoca oggi sprechi immani di denaro pubblico, ma che fu concepito cime un tentativo molto serio e ben elaborato di affrontare i problemi del Meridione. Nasce, infatti, in questi anni l’espressione “cattedrali nel deserto”, a designare alcuni immensi insediamenti industriali sia pubblici (ad esempio l’Italsider di Taranto) che privati (le raffinerie di Siracusa, la Montecatini di Brindisi) costruiti con la più sofisticata tecnologia d’allora e inutilizzati perché privi di connessione col tessuto economico e sociale circostante.
I miliardi di vecchie lire stanziati per il Sud tramite la Cassa del Mezzogiorno furono 1280: 910 nell’Agricoltura, 190 nella viabilità, 30 nei Servizi.
Gli interventi nel Mezzogiorno si orientarono in quegli anni in quattro fondamentali direzioni: una politica di costruzione di infrastrutture, agevolazioni all’impresa privata, una politica agraria e l’intervento diretto dello Stato. Il fallimento (anche se non totale) di questi tentativi è storia nota.
Altra conseguenza dell’adesione al modello di vita consumistico fu un declino della religiosità davvero marcato. Soprattutto nelle città, in primis nelle periferie, il distacco dal modello religioso tradizionale si tradusse fatalmente in un abbandono progressivo della pratica religiosa.
Un'altra importante trasformazione, prodotto combinato di tanti fattori (emigrazione nelle città, imposizione del modello consumistico, maggior reddito disponibile, secolarizzazione) fu il mutato rapporto uomo-donna. Per le donne (del Sud in particolare) l'entrata nel mondo del lavoro - per quanto in posizione ancora svantaggiata rispetto agli uomini - rappresentò la prima forma di emancipazione dalla gerarchia familiare, rigidamente maschilista. Rispetto al resto d'Europa, tuttavia, il destino di casalinga era quello che continuava a toccare alla maggior parte delle donne italiane: un effetto collaterale del benessere era infatti che a mantenere la famiglia bastava spesso solo il reddito del marito.
Se da una parte l’urbanizzazione distruggeva tutto il positivo della vita sociale rurale (le festività collettive, gli stretti rapporti interfamiliari e così via), per i giovani diminuivano le costrizioni e si allargavano alcuni spazi di libertà.
Quanto all’istituzione famiglia, comincia proprio con il boom economico la progressiva disgregazione della famiglia allargata a scapito di quella mononucleare e della gerarchia interna per cui le autorità dei genitori sui figli e del marito sulla moglie si faceva meno opprimenti.
Infine, un problema che allora non è stato valutato ma che ora è più che mai al cento dell’attenzione è quello legato all’inquinamento.
È bene infatti ricordare che in questo periodo avvennero vere e proprie distruzioni ambientali. In particolare, le coste furono le più danneggiate a causa del continuo afflusso di turisti e, quindi, della costruzione di infrastrutture apposite.
Dalla fine degli anni ‘50 ad oggi la fascia costiera è stata utilizzata senza tener conto del fragilissimo equilibrio che governa questo ambiente, dove l’intervento sconsiderato dell’uomo può causare una rapida erosione con grave danno economico e ambientale. Si è cioè usato, in questo delicato settore, uno sfruttamento di “rapina” a tappe successive, senza curarsi delle conseguenze, invece di amministrarlo come un bene prezioso. A questo va aggiunto il crescente degrado delle città, il crescente inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo.
Fascia costiera intensamente antropizzata in corrispondenza di Pesaro
6. L’ITALIA DI OGGI
Oggi l’Italia è uno dei otto Paesi più industrializzati del mondo, saldamente integrato nel sistema occidentale di mercato; il tenore di vita dei suoi cittadini si può a buon diritto definire tra i più elevati. Il volto dell’Italia è dunque decisamente cambiato da allora, e per certi aspetti è addirittura irriconoscibile, trasformato da un processo d’accumulazione, d’urbanizzazione e di secolarizzazione così rapido e profondo da avere pochi altri riscontri nella storia europea del dopoguerra.
Il grattacielo Pirelli fu uno dei simboli della rinascita economica italiana: è qui rappresentato insieme all’ingegnere che lo ha progettato.
BIBLIOGRAFIA DA LIBRI:
- Roberto Balzani, Storia 3 il Novecento, Archimede edizioni.
- Giulio Einaudi, Storia dell’Italia repubblicana, Edizione Mondolibri
BIBLIOBRAFIA DA INTERNET:
- www.webscuola.tin.it
- www.cronologia.it
- www.area.it
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Esempio



  


  1. cristian

    macroeconomia classica e neoclassica