Il 68

Materie:Tesina
Categoria:Storia
Download:2202
Data:21.03.2007
Numero di pagine:129
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
68_1.zip (Dimensione: 825.83 Kb)
trucheck.it_il-68.doc     1143.5 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

IL ’68 COME MOVIMENTO SOCIALE
Con l’espressione “il ‘68” si indica un fenomeno storico-sociale vasto e complesso sviluppatosi negli anni intorno al 1968 in varie parti del mondo. Un sociologo americano, Wright Mills, già nel 1960 segnalava come imminente la nascita di un movimento di “giovani intellettuali”, cioè di studenti stanchi del sistema sociale e che erano pronti ad operare con i metodi più radicali. La profezia di Wright Mills si tradusse presto in realtà negli Stati Uniti con le marce contro la segregazione razziale nel Sud del Paese, la rivolta degli studenti dell’Università di Berkeley contro i metodi e l’autoritarismo ivi imperante. Il fenomeno si estese a macchia d’olio in più continenti con il suo apice nella grande rivolta degli studenti parigini, il cosiddetto”maggio francese”.
Carattere ricorrente in tutti questi eventi fu che ovunque i giovani e gli studenti contestavano l’autoritarismo delle istituzioni scolastiche e della società in generale, reclamando radicali riforme, giustizia, uguaglianza, democrazia diretta. Ma, in definitiva, che cosa fu il ’68? Per cercare di rispondere a questa domanda è utile servirsi del concetto di movimento sociale. I movimenti sociali sono forme di azione collettiva che si manifestano in modo relativamente spontaneo, intenzionate a rifondare su basi morali la società attraverso nuove forme di solidarietà sociale. Questi movimenti sono all’origine di grandi eventi storici, quali per esempio le rivoluzioni, i grandi cicli di lotte sociali, le lotte d’indipendenza nazionale e il sorgere di nuove religioni e di processi di profondo rinnovamento nei costumi e nella cultura. Si può ritenere che in ogni situazione storica sia sempre latente l’aspirazione ad una società diversa da quella esistente e che questa potenzialità si traduca in progetto e in azione collettiva, rilevante in presenza di circostanze favorevoli, in particolare in condizioni critiche dell’ordine sociale esistente e degli strumenti di controllo collettivo che lo difendono.
GLI INIZI
Il 22 marzo 1968 alcuni studenti occupano la torre amministrativa di Nanterre.Questo evento segna l’inizio del Maggio ’68.
Essi s’introdussero nella torre amministrativa della facoltà di lettere, alla periferia ovest di Parigi, occupandola. Senza nemmeno saperlo diedero inizio al movimento che si sarebbe espanso, diventando il “Maggio ‘68”. In questo periodo in Francia al potere c’era la monarchia repubblicana di De Grulle, e imperava la crescita economica. Quindi la gioventù s’impossessò della guerra del Vietnam per alimentare il suo desiderio di rivoluzione, il sogno de”l’immaginazione al potere”, ”per cambiare la vita”, ”fare l’amore non la guerra”.

’68 - FISCHIA IL VENTO
Il '68!Un vento di filosofica follia si trasmette dalla costa californiana al mondo: sono i valori borghesi del secolo, le caparbie filosofiche del bempensantismo, l’abbigliamento, la musica, la cultura tradizionale, la superbia e l’altezzosità da ufficio, a venire lacerati, dissacrati e travolti in un’ondata di provocatoria, ubriacante ed irritante giovinezza. Una follia che fece però venire a galla la fragilità della cultura collettiva e la grande insicurezza di molte ideologie schiacciate dagli eventi passati e recenti che avevano impedito di far maturare i popoli negli ultimi anni.
Si è scritto che dopo il ’68 il mondo non fu più quello di prima. E se non fu proprio molto diverso, certamente non era più uguale dopo la “primavera abbagliante” vissuta dai giovani di questa generazione. Non più uguale perché si andò ben oltre la contestazione studentesca che viene sempre ricordata. E di crepe dentro il “sistema” ce ne furono molte e alcune, ma forse tutte, furono epocali, di diritto entrate nelle pagine della storia recente e saranno sempre in evidenza in quella futura. E’ dunque un anno detonatore per tutto il mondo. Quando, dove e come partì la scintilla della rivolta studentesca nessuno lo sa. Forse partì nelle università americane quando iniziarono a reclutare per mandare in Vietnam gli studenti con i voti scadenti(come se un voto basso affrancasse la morte in guerra). In Francia a Nanterre, a Roma, a Pechino, ad Atene, a Praga, a Tokio, in Brasile e in Messico non si andò tanto per il sottile, l’esercito affrontò gli studenti con i bazooka provocando stragi con centinaia di morti nella grande Piazza delle Tre Culture. Il fenomeno fu planetario. Accadde nei Paesi democratici, in quelli fascisti, in quelli comunisti. Quel che è certo è che ogni rivolta fu guidata da capi intellettualmente freschi e provocatori dentro un contesto generazionale costituito da seguaci agitatori altrettanto giovani. Per rimanere in Europa facciamo alcuni nomi, tutti poco più che ventenni: DANIEL COHN BENDIT in Francia, RUDI DUTSCHE in Germania, MARIO CAPANNA in Italia. Una contestazione giovanile che si propagò contagiando il pianeta; tutta l’Europa, e sembrò travolgere le vecchie strutture e i sistemi di pensiero acquisiti.
I partiti comunisti, le sinistre europee e mondiali, ma anche tutti gli altri partiti democratici, guardarono interdetti me non ancora traumatizzati, la “violenza espressiva” del movimento studentesco che li aveva colti di sorpresa, con la guardia abbassata proprio mentre in ogni Paese, era in atto un convulso travaglio ideologico, E come l’occidente capitalista, anche l’oriente marxista entrò in una crisi di profonda riflessione.
ITALIA
Le nuove ideologie sembravano una battaglia anticapitalistica generale, una rivoluzione irrazionale che prende frammenti di idee dalla politica, sia a destra che a sinistra. Rispuntano gli “Arditi repubblichini”, i partigiani, le brigate Gap. Fino a quando, una minoranza politicizzata con obiettivi utopistici si fece strumentalizzare da alcune schegge anomale di una sinistra che cominciava a combattere una parte di se stessa. Questa ed altre minoranze cominciarono a teorizzare lo scontro violento e ad organizzarsi. La lotta oramai era affidata alla spontaneità di studenti, operai, della massa. Non fu un vero terremoto sussultorio, ma ondulatorio poiché le istituzioni non crollarono ma si verificarono molte crepe nel sistema e molte cose cambiarono. Gli italiani infatti non amavano né la guerra, né la rivoluzione. I movimenti degenerarono
nella pura delinquenza e nel teppismo: squadracce, spedizioni punitive hanno pur sempre qualcosa di fascista.
Le inquietudini si rifletterono poi nei partiti di Governo. Anche qui, alcuni apparati e organismi svolgeranno il loro dovere alla luce del sole, mentre altri agirono all’ombra di un’altra legge, quella del tempo di guerra: servizi segreti, spionaggio, controspionaggio, un’Ovra n2.
Tutti i partiti di ogni schieramento furono presi alla sprovvista.
Finita la famosa “Primavera”, alcuni rientrarono nel loro privato, e altri scoprirono che “si poteva”, che “stavano mettendo paura al sistema”. Questi ultimi si trasformarono in deliranti schegge impazzite. Tutti celebravano e invocavano Mao, Ho Chi Min e il “Che”, ma nessuno di loro conosceva la realtà di questi paesi, e chi erano veramente questi personaggi e per che cosa veramente lottavano e conto chi. Lottavano contro le multinazionali americane ma bevevano coca cola. Domina l’eclettismo in ogni movimento soprattutto all’interno delle assemblee. Poi fuori si ritornava alla clava, ai sampietrini, agli istituti triviali, alla “civiltà”.
NEL MONDO
La contestazione studentesca irrompe in America, Giappone, Europa, nei Paesi dell’Est come in Polonia. Le motivazioni erano trasnazionali e dilagarono sul pianeta con rapidità incredibile. Da semplice contestazione si trasformò in certi paesi in una vera rivolta, come a Parigi dove si temette nel “Maggio francese” una nuova “Rivoluzione”quando la capitale fu circondata dall’esercito pronto ad intervenire con i carri armati. In Francia, una parte del Movimento nel momento in cui stava esaurendo motivazioni ed energie, iniziò a politicizzarsi con varie ideologie che li porterà a combattersi fra loro aspramente. I movimenti vari si spostano dalle aule scolastiche ai cancelli delle fabbriche innescando una serie d’autonome contestazioni operaie che coinvolse milioni di lavoratori.
Queste lotte dilagarono culminando nell’”autunno caldo”. Fino ad allora operai e studenti erano due mondi lontani con poche, anzi nessuna ideologia in comune, che non si conoscevano, ma che da questo momento proprio dalle contestazioni e dai vari gruppi rivoluzionari apprenderanno il metodo della lotta per colpire a fondo il capitalismo.
Finirà il “’68” il 31 dicembre, a Marina di Pietrasanta, quando il veglione di fine anno alla Bussola, la contestazione si spegnerà definitivamente nello scontro a fuoco con la polizia.
Ma il “’68” lasciò lungo il suo cammino alcuni gruppi, nel frattempo politicizzati, che daranno vita a delle frange rivoluzionarie e controrivoluzionarie. Nasce la nuova sinistra, Potere Operaio, Gioventù studentesca, Intesa, Nuovo Impegno, gli altri gruppi che sono contro l’abbattimento del sistema borghese, criticano il revisionismo del PCI ed entrano perfino in lotta fra di loro. Persuasi dalla scoperta del “si può” che si può ben fare anche la rivoluzione, rovesciare il sistema, sconfiggere l’imperialismo, gli elementi estremisti trovano una chance che li aiuta ad uscire dal vicolo cieco in cui sono finiti. Infatti a Torino si celebra il primo “matrimonio” in questo ’68 fra il mondo studentesco e il mondo operaio.
il 20 gennaio iniziarono i primi tafferugli
il 26 gennaio iniziarono le prime occupazioni
il 13 febbraio iniziarono i primi insulti e schiaffi
il 23 febbraio iniziarono i primi espliciti striscioni
il 23 febbraio sera s'iniziarono a contare i primi feriti
il 24 febbraio iniziarono i primi fascisti a menar le mani
il 26 febbraio alcuni comunisti iniziarono ad ammirare Mao
il 29 febbraio iniziarono a rompere le vetrine nelle sfilate
il 10 marzo gli estremisti iniziarono a toccarsi con le randellate
il 30 marzo alcuni gruppi iniziarono a chiamarsi extraparlamentari
il 31 maggio iniziarono a parlare di armi e di un attacco allo Stato
l'8 giugno iniziarono a chiamarsi “nazimaoisti” alzando il libretto rosso
Era dunque non solo una “rivolta” ma una “rivoluzione sociale” oggettiva. Il Paese era cambiato e la cecità e l’immobilismo della classe politica vecchia non predisponevano riforme per equilibri nuovi e più avanzati e tutti i problemi accantonati nel passato emergevano; diventava sempre più difficile affrontarli in una mutata condizione del Paese che stava correndo in parallelo con le società liberiste e socialdemocratiche che stavano allargando il loro regno su tutto il pianeta.

I PERSONAGGI EMBLEMATICI DEL PERIODO
Ho Chi Minh, vero nome Nguyễn Sinh Cung, conosciuto come Zio Ho in Vietnam (19 maggio 1890 - 3 settembre 1969) fu un rivoluzionario vietnamita, statista, Primo Ministro (1954) e Presidente (1954 - 1969) del Vietnam del Nord.
HO CHI MINH
Ho Chi Minh ricevette il nome di Nguyễn Tất Thành all'età di 10 anni. Abbracciò il comunismo mentre viveva all'estero, in Inghilterra (dove venne addestrato da chef pasticcere sotto Escoffier) e in Francia, dal 1915 al 1923. Suo padre era uno studioso confuciano, e lo stesso Ho ricevette una forte educazione confuciana. In Francia, nel 1918, Ho Chi Minh cercò di ottenere l'indipendenza dal governo coloniale, ma venne ignorato. Nel 1919, presentò un'istanza per i pari diritti dell'Indocina, alle potenze riunite per i colloqui di pace del Trattato di Versailles. Venne ben presto aiutato dal Partito Comunista e spese molto tempo a Mosca. Si spostò in seguito a Hong Kong, dove fu fondato il Partito Comunista Indocinese.
Dopo aver adottato il nome Ho Chi Minh, cioè "Volontà che illumina", ritornò in Vietnam nel 1941 e dichiarò l'indipendenza della nazione dalla Francia. Ho Chi Minh guidò il movimento indipendentista Viet Minh e diresse azioni militari di successo contro le forze d’occupazione giapponesi e in seguito contro i francesi che volevano rioccupare la nazione (1946-1954).
Divenne Presidente della Repubblica Democratica del Vietnam (Vietnam del Nord) nel 1954 (si dichiarò presidente il 2 marzo 1946, ma non venne riconosciuto a livello internazionale). Il 6 marzo 1946 Ho Chi Minh firmò un accordo con la Francia nel quale si riconosceva il Vietnam come uno stato autonomo all'interno della Federazione Indocinese e dell'Unione Francese.
Ho fu un moderato, all'interno del Partito Comunista, e perse costantemente influenza nei confronti dei militanti radicali. Fu una forza trascinante nel tentativo di riunire il Vietnam del Nord con il Vietnam del Sud attraverso un'invasione negli anni '60. Ho condusse la quasi continua guerra del Vietnam contro i francesi e, in seguito, contro gli statunitensi che appoggiavano il Vietnam del Sud, fino al momento della sua morte, avvenuta nel 1969.
Durante la sua presidenza, Ho fu al centro di un grosso culto della personalità, che ebbe un incremento dopo la sua morte. Nel 1975 la città di Saigon (Sàigòn) venne ribattezzata Ho Chi Minh City in suo onore. Ho era noto per il suo stile di vita semplice, la moderazione e l'integrità, ed era chiamato affettuosamente "Zio Ho" dai suoi sostenitori.
Il termine culto della personalità si riferisce, generalmente in senso denigratorio, all'adulazione di un singolo leader vivente, prevalentemente in ambito politico.
I culti della personalità caratterizzano di norma gli stati totalitari o le nazioni che hanno sperimentato di recente una rivoluzione. La reputazione di un singolo capo, spesso caratterizzato come "liberatore" o "salvatore" del popolo, eleva questi ad un livello quasi divino. Le immagini del capo appaiono ovunque, così come statue e altri monumenti innalzati alla grandezza e alla saggezza del capo. Slogan del capo ricoprono enormi cartelloni, e libri contenenti i discorsi e gli scritti del capo riempiono le biblioteche e le librerie. Il livello di adulazione può raggiungere vette che appaiono assurde agli estranei. Ad esempio, durante la Rivoluzione culturale cinese, tutte le pubblicazioni, comprese quelle scientifiche, avevano una citazione di Mao Zedong, e tutte le citazioni di Mao apparivano in grassetto e in rosso.
I culti della personalità mirano a far apparire il capo e lo stato come sinonimi, così che diventi impossibile comprendere l'esistenza dell'uno senza l'altro. Aiuta inoltre a giustificare le regole spesso dure della dittatura, e a propagandare nei cittadini la visione che il capo opera come un governante giusto e buono. In aggiunta, i culti della personalità spesso sorgono dallo sforzo di reprimere l'opposizione interna ad una elite dominante. Sia Mao Zedong che Josif Stalin usarono il loro culto della personalità per schiantare i loro oppositori politici.
Il culto della personalità non appare universalmente in tutti i regimi totalitari o le società autoritarie. Alcuni dei regimi più oppressivi della storia, infatti, mostrarono poca o nessuna adorazione del capo.
Il governo dei Khmer Rossi marxisti in Cambogia e il governo teocratico talebano mancavano di molte delle trappole del culto della personalità e i capi di questi regimi rimasero fondamentalmente anonimi. In questi casi, l'assenza del culto della personalità sembra parzialmente motivata dal desiderio di proiettare un'immagine di uno stato senza volto ma onnipresente e onniscente. In altri casi come nella Cina del dopo Mao, le autorità disapprovarono la fondazione di un culto della personalità per paura che potesse turbare l'equilibrio di potere tra i capi all'interno dell'elite politica.
La creazione di un culto così vasto spesso portò alla critica dei regimi di Josif Stalin e Mao Zedong. Durante l'apice dei loro regni, entrambi questi capi apparivano come governanti onniscenti e semi-divini, destinati a guidare la nazione per l'eternità. Gli ordini governativi prescrivevano l'esibizione dei loro ritratti in ogni casa e in ogni edificio pubblico, e molti artisti e poeti venivano istruiti per produrre solo opere che glorificassero il capo. Per giustificare questi livelli di adorazione, sia Mao sia Stalin cercarono di presentare loro stessi come personalmente umili e modesti, e caratterizzavano spesso i loro vasti culti della personalità come niente più che una dimostrazione spontanea di affetto da parte del loro popolo. Stalin in particolare usò questa scusa per giustificare la massiccia campagna del Partito Comunista per ribattezzare le cose in suo onore (come la città di Stalingrado).
Il culto della personalità può collassare molto rapidamente dopo l'estromissione o la morte del capo. Stalin e Mao fornirono entrambi un esempio di questo. In alcuni casi, il capo, in precedenza soggetto al culto della personalità, fu diffamato dopo la sua morte, e spesso seguì un massiccio sforzo nella rimozione di statue e nel ridedicare di cose che gli erano state dedicate in precedenza.
Si deve notare che il termine "culto della personalità" non si riferisce in genere al mostrare rispetto per i defunti (come nel caso dei "padri della nazione"), né si riferisce all'onorare capi simbolici che non hanno un reale potere. L'ultimo caso avviene spesso nelle monarchie, come in quella tailandese, nel quale l'immagine del re o della regina è rispettosamente mostrata in molti luoghi pubblici, ma le convenzioni o le leggi proibiscono di convertire questo rispetto in un reale potere politico.
MAO TSE-TUNG
Le sommosse popolari, avvenuta nella vicina città di Changsha in seguito ad una grave carestia, pongono il giovane Mao in diretto contatto con la realtà cinese degli inizi del secolo. Il suo approccio al pensiero radicale avviene nello stesso villaggio natio, dove arrivano gli echi della critica alla religione buddhista e della denuncia della perdita, da parte del governo cinese, della sovranità su Corea, Taiwan, Indovina, Birmania. Si iscrive nel 1909 ad una scuola dove si insegna la "cultura occidentale" e conosce allora le gesta di Napoleone, Caterina di Russia, Rousseau, Montesquieu e Lincoln.
Dalle pagine di Xiangjiang Ribao trae le prime informazioni sul socialismo e legge in quello stesso periodo vari opuscoli di Jiang Kanghu, il filosofo che nel 1912 fonda il primo partito socialista cinese.
In giovinezza fonda il settimanale Xiangjiang Pinlun: in un suo articolo di allora, "La grande unione delle masse popolari", si profila uno dei temi più importanti del suo pensiero, quello della formazione di una vasta alleanza tra i vari ceti per una grande rivoluzione unitaria.
La protesta contro le potenze occidentali, culminò con il "Movimento 4 maggio" che riunì per la prima volta intellettuali e masse popolari; la Rivoluzione d'ottobre in Russia proponeva una nuova alternativa politica e ideologica, con il suo accento di internazionalismo in una rivoluzione socialista. Il Pcc costituito dal I Congresso del 1921 adotta un documento programmatico di stretta ideologia marxista e di aperta ostilità contro il partito "borghese" nazionalista.
Nel 1925 gli echi della rivolta operaia di maggio-giugno e le difficili condizioni delle campagne favoriscono tra i contadini dello Hunan l’organizzazione di bande armate. Mao intuisce il potenziale esplosivo di questa situazione ai fini rivoluzionari e si getta tra il movimento rivoluzionario dei villaggi.
Nel 1927 Mao riceve l'incarico di organizzare in Hunan e Jiangxi "l'insurrezione del raccolto d'autunno" sotto la bandiera del "potere politico alle associazioni contadine" e l'esproprio dei grandi e medi latifondi.
Mao guida circa 1.000 uomini, sui monti Jinggangshan. È un'impresa alquanto eterodossa rispetto ai canoni marxisti, in quanto avventura militare più che rivoluzionaria e per l'apporto di elementi del sottoproletariato privi di una sufficiente preparazione ideologica. Mao si rivela un grande politico ed originale ideologo nel saperla trasformare in una rivoluzione socialista.
Mao inizia una vasta opera di consolidamento del proprio potere che si conclude nel dicembre 1930, quando un folto gruppo di rivali, vengono eliminati in una purga sanguinosa. D’altra parte, dopo il 1933, Mao subisce una grave eclissi di potere personale, al punto di trovarsi condannato agli arresti domiciliari. La causa diretta sembra sia stata la gradualità nella forma agraria da lui promossa, che colpiva solamente i contadini più ricchi per mantenere un’ampia base di consenso nei confronti del regime comunista.
Dopo essersi ripreso, Mao diventa il personaggio più influente del Pcc, il primo dirigente comunista di un grande Paese salito al potere senza l’istituzione sovietica. In questo periodo egli lavora intensamente e pone i fondamenti teorici e programmatici del socialismo cinese. I suoi scritti di strategia e dottrina militare elaborano gli schemi concettuali della guerra rivoluzionaria. Nei due saggi “La rivoluzione e il Pcc” e “La nuova democrazia”, Mao riprende la sua concezione delle classi oppresse come elemento chiave della rivoluzione ed elabora il progetto di una loro alleanza sotto la direzione del proletariato urbano e rurale per la costruzione di una società nuova.
Nel giugno 1949, Mao pubblica il saggio “Sulla dittatura democratica popolare” in cui definisce il programma di coalizione nazionale: un’alleanza di classe operaia, contadini, piccola borghesia urbana e borghesia nazionale, diretta dalla classe operaia e dal Pcc.
ERNESTO CHE GUEVARA
La morte in combattimento in territorio boliviano nel 1967 contribuì a fare di Che Guevara un simbolo della lotta contro ogni forma di oppressione. Nella primavera del 1967, era stato reso noto un suo appello ai rivoluzionari del mondo. Compito dei rivoluzionari, secondo Guevara, era affiancare il Vietnam con numerosi altri movimenti insurrezionali in tutte le aree del mondo, che vanificassero l’azione “di polizia” della super potenza americana, garantendo la vittoria del Fronte nazionale di liberazione in Vietnam e la sconfitta dell’imperialismo statunitense. La sua tensione ideale divenne un esempio per l’utopia rivoluzionaria che contraddistinse la protesta studentesca europea alla fine degli anni sessanta. Questo libretto è destinato ad iniziare i militanti del partito all'ampio e ricchissimo complesso delle idee marxiste-leniniste.
Il Manuale ci mostra con solare chiarezza che cosa è un partito marxista-leninista: «persone fuse da una comunanza di idee che si uniscono per dar vita alle concezioni marxiste, vale a dire, per portare a termine la missione storica della classe operaia».
Viene indicato il ruolo dirigente e catalizzatore di questo partito, avanguardia della classe operaia, dirigente della «propria» classe, che sa mostrare ad essa il cammino della vittoria e accelerare il passo verso nuove situazioni sociali.
La missione del partito è cercare la strada più breve per arrivare alla dittatura del proletariato, e i suoi militanti più preziosi, i suoi quadri dirigenti e la sua tattica, escono dal seno della classe operaia.
Il pensiero del "Che", una volta compiuta la rivoluzione cubana, strategicamente si articola su due livelli: la rivoluzione latino-americana e la lotta dei popoli contro l'imperialismo.
L'esempio del "Che" ha portato uomini e donne anche in Occidente non a dedicarsi alla riproduzione delle magliette con il volto barbuto del comandante, ma a cercare di creare le condizioni per impiantare una guerra popolare nei loro paesi.
Possono aver commesso errori, ma non certo quello di aver tentato di aprire un processo rivoluzionario nel cuore del dominio imperialista.
Il "Che" dunque ci ha rimesso tre lasciti (oltre a quello, enorme, di aver partecipato come dirigente politico-militare alla rivoluzione cubana e alla costruzione del socialismo a Cuba): l'esempio, la teoria, la strategia. L'esempio: non basta parlare bisogna agire in prima persona, prendere le armi e combattere. La teoria del "foco": non occorre aspettare all'infinito le cosiddette condizioni rivoluzionarie, bisogna contribuire a crearle e l'organizzazione di una banda guerrigliera è il più importante contributo che ciascuno di noi può dare. E la strategia che lui stesso condensò in una frase: "creare due, tre, molti Vietnam".
Dice il "Che" che la rivoluzione nel continente latino-americano ( la "Patria Grande"), pur mantenendo una specificità paese per paese, è un unico processo dato che i tratti comuni sono e restano forti e presenti. Unico è il dominio dettato dall'imperialismo statunitense e dai loro servi che occupano posizioni di potere nelle varie nazioni. Comune è il passato coloniale, le forme di sfruttamento e di oppressione. Comune è, in larga parte, la lingua, la cultura, i valori, la fame e la sofferenza. Come comune fu, in larga parte, la lotta di indipendenza dal dominio coloniale, e ora l'ansia di rivolta e di riscatto. Comune è il senso di appartenenza, ontologico si potrebbe quasi dire, tra i vari popoli e individui che abitano questo grande continente.
“La liberazione di noi stessi non può essere opera che di noi stessi: Creare due, tre, molti Vietnam", ovvero la seconda lama della forbice della strategia guevarista, è una provocazione (in senso intellettuale) che conserva, a mio parere, tutto il suo significato euristico. Contro l'equivoco umanitarismo delle associazioni, contro il pacifismo ipocrita, contro la solidarietà fasulla, conviene ricordare che l'internazionalismo proletario consiste nell'individuazione del nemico comune, che oggi è sempre lo stesso di ieri: l'imperialismo, in primo luogo nordamericano, e nella lotta mortale contro di esso.
L'aridità intellettuale, l'eterna ingenuità, la mancanza di curiosità portano all'egemonia dei mostri, al regno dell'idiozia.
. ( Ernesto "Che" Guevara: "Creare due, tre, molti Vietnam" ).
MARX E IL SOCIALISMO
Non c'è ideale positivo sostenuto da Marx che non sia anche un contributo validissimo alla migliore tradizione umanista, tradizione che rappresenta l'eredità delle concezioni classica, giudaica e cristiana della condizione umana. Considerati dal punto di vista morale, i principi di Karl Marx rientrano indubbiamente tra i principi animatori della civiltà occidentale. Noi socialisti siamo più liberi perché siamo più integri; siamo più integri perché siamo più liberi. Non è solo lavoro la costruzione del socialismo, non è solo coscienza la costruzione del socialismo: è lavoro e coscienza, sviluppo della produzione, sviluppo dei beni materiali mediante il lavoro e sviluppo della coscienza. La costruzione del socialismo è basata sul lavoro delle masse, sulla capacità delle masse, perché si possa organizzare e dirigere meglio l'industria, l'agricoltura, tutta l'economia del paese.
La tecnica è la base perché l'industria possa svilupparsi e l'industria, che fa la produzione, è la base del socialismo. Il socialismo è un fenomeno economico e anche un fenomeno di coscienza, ma deve realizzarsi sulla base della produzione. Senza una produzione importante non c'è socialismo. Perché il socialismo, adesso in questa fase di costruzione del socialismo e comunismo, non si è fatto semplicemente per avere le nostre fabbriche brillanti, si sta facendo per l'uomo integrale; l'uomo deve trasformarsi congiuntamente alla produzione che avanza e non svolgeremmo un compito idoneo se fossimo solo produttori di articoli, di materia prima e non fossimo insieme produttori di uomini. Il socialismo è un sistema sociale che si basa sull'equa distribuzione delle ricchezze della società, ma a condizione che tale società abbia ricchezze da spartire, che vi siano macchine per lavorare e che quelle macchine abbiano materie prime per produrre quanto è necessario per il consumo della nostra popolazione. E nella misura in cui aumentiamo quei prodotti per distribuirli fra tutta la popolazione andiamo avanzando nella costruzione del socialismo.
il socialismo si basa sulla fabbrica, il socialismo poggia su di una società sviluppata tecnicamente; non può esistere in condizioni feudali, in condizioni pastorali; si sviluppa sulla tecnica. E noi dobbiamo procedere lungo queste due vie dell'aumento della produzione e dell'approfondimento della coscienza.
Bisogna fondare un paese socialista in cui si cancelli ormai totalmente lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, in cui tutti i mezzi di produzione siano in potere dello Stato e dove si dia inizio al gran balzo, l'ultimo e definitivo balzo avvistato finora dall'umanità, che è quello della società comunista, società senza classi. Il comunismo, che è la società perfetta, che è l'aspirazione basilare dei primi uomini che seppero vedere più in là del tempo presente e predire il destino dell'umanità. Nella società socialista o nella costruzione del socialismo il lavoratore lavora perché questo è il suo dovere sociale, perché deve compiere il suo dovere sociale. Questo dovere sociale consiste nel fare uno sforzo medio, conformemente alla sua qualifica e pertanto ricevere un salario individualizzato, conformemente a quella qualifica, in questa fase di costruzione, in questo periodo di transizione e, allo stesso tempo, tutti i benefici che la società gli concede.
Marx interpreta la storia, ne comprende la dinamica, prevede il futuro ma, oltre a prevederlo, dove il suo impegno scientifico sarebbe terminato, esprime un concetto rivoluzionario: che, non solo bisogna interpretare la natura, è necessario trasformarla.
FONTI:
-cronologia del mondo-anno 1968
-Ho Chi Min- Wikipedia
-Mao Zedong
Riccardo Santin!!!!!Alice Corraini??????Miriam Bonafè………….
LA SCUOLA
CONTESTO STORICO
Nella seconda metà degli anni sessanta valori politici e culturali sui quali si erano costruite le società occidentali del dopoguerra entrarono in crisi e aumentarono gli squilibri provocati dall'industrializzazione. La fine del decennio del 1960 fu infatti un periodo di violente rivoluzioni, manifestatesi in grandi movimenti di massa che videro come protagonisti gli studenti, gli operai e le donne. L'obbiettivo comune era la lotta contro l'autoritarismo, contro ogni forma di gerarchia sociale: nella scuola era rappresentata dai professori, nella famiglia dai genitori, nelle fabbriche dai padroni, nella società dal costume etico prettamente maschilistico e nello stato dai politici.
Le lotte sorsero dapprima nelle università e nelle scuole medie superiori di molti paesi industrializzati ed erano inizialmente organizzate contro il comportamento tenuto dai soldati americani nel Vietnam, le regole di comportamento e di educazione nelle Università, il comportamento autoritario del corpo docente. Aumentarono le manifestazioni, iniziarono le diserzioni, si generalizzarono i simboli del pacifismo e divenne celebre in tutto il mondo lo slogan "Made love not war"; si ebbero elementi anarchici, riferimenti culturali e religiosi, pratiche del pensiero libertario e individualista, come il movimento degli Hippy, i quali predicavano la non violenza e la libertà da tutte le costrizioni sociali.
Dapprima la polemica contro le insufficienze e i difetti dell’insegnamento si allargò in un attacco alle stesse basi dell’apparato educativo nella sua globalità; sia la scuola sia l’università furono considerate “classiste”, poiché indirizzate alla trasmissione dei valori della società capitalistica e borghese e alla formazione di quadri integrati nel cosiddetto “sistema”, com’era spregiativamente chiamato quel tipo di società.
In secondo luogo si espressero nei movimenti studenteschi l’aspirazione alla libertà e all’autonomia della persona umana e l’ansia egualitaria per una parificazione reale di tutti gli uomini al di là di ogni differenza di razza e di ceto. E ci furono poi il rifiuto delle gerarchie costituite e del potere delle autorità tradizionali e la ricerca di forme di “ partecipazione integrale”, fondate non più sulla delega ad una classe politica professionista ma sulla democrazia diretta di tipo assembleare; esempio di questa democrazia diretta nelle università fu la partecipazione attiva degli studenti interessati al nuovo modo di fare politica, attraverso un’educazione di tipo autonomo. Questo impegno politico fu stimolato dalla presa di coscienza degli squilibri e delle ingiustizie sociali presenti nei paesi capitalistici e dei drammatici problemi del “Terzo mondo”, dalla suggestione della lotta antimperialista di Fidel Castro e Che Guevara, dal mito della rivoluzione cinese: esperienze che suscitavano la speranza nell’avvento di una società di uomini e donne liberi ed eguali.
Riassumendo, gli obiettivi di questi gruppi organizzati di giovani erano: la riorganizzazione della società sulla base del principio di uguaglianza, il rinnovamento della politica in nome della partecipazione di tutti alle decisioni, l’eliminazione di ogni forma di oppressione, di discriminazione (dovuta alla razza, alla ricchezza, al sesso, alla religione, all’ideologia) e di guerra come tipo di relazione tra gli stati.
La rivolta studentesca partì nel 1964 dalle università degli Stati Uniti ed era collegata al movimento pacifista e a quello per i diritti civili. La guerra in Vietnam aveva infatti cambiato il modo di guardare all’America dei giovani; in questo contesto nacque negli USA il movimento dei cosiddetti Hippy, che vuol dire in gergo “uno che ha mangiato la foglia”, in seguito ribattezzati come “figli dei fiori”, poiché la loro unica arma erano appunto i fiori. Essi si battevano soprattutto contro la guerra nel Vietnam, poiché dal 1962 vedeva impegnati gli Stati Uniti; essi non volevano l’unificazione tra Vietnam del nord e Vietnam del sud: al nord vi era un governo comunista, mentre al sud vi era un governo filoamericano, perciò temevano che con l’unificazione del Vietnam il consumismo si diffondesse anche ad altri stati asiatici. Nel sud filoamericano vi era, però, un nutrito gruppo di comunisti chiamati “Vietcong” che volevano l’unificazione del Vietnam; e perciò con l’appoggio del governo vietnamita organizzavano dal nord atti di guerriglia.
L’opinione pubblica mondiale rimase indignata di fronte a quest’atto di assolutismo da parte degli USA ma questi si ritirarono dal conflitto solo nel 1968, non perché fossero stati influenzati dall’ opinione pubblica mondiale ma perché c’ era il rischio di perdere il conflitto. La guerra, tuttavia, si concluse solo nell’aprile del 1975. In America, però, questo movimento si unì alle battaglie dei neri per la conquista dei più elementari diritti civili.
Le battaglie per il riconoscimento dei diritti civili ai neri si dividevano sostanzialmente in due filoni: quello pacifista, guidato da Martin Luther King, un pastore battista apostolo della "non violenza", che fin da giovane si dedicò alla lotta contro la discriminazione razziale e che, attraverso il suo celebre discorso, auspicava l'uguaglianza tra i popoli. Fu proprio questo discorso a scatenare un’ondata di proteste e di violenze, culminate nel suo assassinio nel 1968; e quello più intransigente del Black Panther Party, che chiedeva la formazione di un potere nero (Black Power), contrapposto a quello dei bianchi. Questo era di orientamento Marxista e chiedeva inoltre libertà e occupazione, case e istruzione per tutti, la fine delle oppressioni anche verso le minoranze etniche. Era guidato da personalità del calibro di Angela Davis, Elridge Cleaver e Malcom X; quest’ultimo era propenso ad un’alleanza tra tutti i popoli neri e lottava per la superiorità razziale del suo popolo. Secondo lui la divisione razziale era inevitabile, ma accusava i bianchi, da lui reputati persone intelligenti ma responsabili della condizione dei neri, di non fare abbastanza o il necessario per risolvere questi problemi.
Già negli anni cinquanta era maturato, nel sud degli USA, un movimento nero per l’eguaglianza, diretto dalle comunità di colore. In appoggio al movimento nero del Sud, gli studenti di molte università del Nord diedero inizio alle "marce al Sud", massicce campagne d'invio di militanti, i “Freedom Riders”, con il compito di proteggere il diritto al voto della popolazione di colore. Come risposta vi furono assassini e linciaggi, mentre i tradizionali leader politici assumevano posizioni di aperto sostegno alla violenza. Nonostante tutto il movimento ottenne significativi successi politici, contribuendo al superamento della segregazione.
Esempi di manifestazioni per l’affermazione dei loro principi, si ebbero inizialmente nelle università di Berkeley a San Francisco e di Columbia a New York; fu proprio qui che iniziarono le prime occupazioni degli atenei, sfruttati come luoghi per dibattere i problemi sociali.
Ben presto nacque un movimento pacifista, appoggiato anche dai movimenti di opinione e dagli intellettuali europei, i cui aderenti si rifiutarono di prestare il servizio militare. Ora si trovavano coinvolti anche i partiti della sinistra storica socialista e comunista, giudicati ormai riformisti e integrati.
La protesta fu particolarmente massiccia in Francia e in Italia, dove gli studenti tentarono, ma senza grande successo, di creare un legame permanete con gli operai, che restarono sostanzialmente fedeli ai partiti e ai sindacati della vecchia sinistra “di classe”.
Qui la protesta assunse toni molto violenti nel maggio del 1968 e parve trasformarsi in rivolta contro lo stato. Essa ebbe origine da un progetto governativo di razionalizzazione delle strutture scolastiche mirante a renderle più rispondenti alle esigenze dell’industria: cosa che significava favorire i settori tecnologicamente più avanzati, facendo pesare l'incremento della produttività sulla classe operaia. Il piano di riforma scolastica prevedeva, al termine degli studi secondari, una severa selezione da effettuarsi attraverso un esame supplementare che avrebbe ridotto considerevolmente il numero degli studenti universitari e consentito l’accesso agli studenti più dotati. In questo modo l'università avrebbe corrisposto meglio alle esigenze di alta qualificazione e specializzazione tecnica previste per i quadri dirigenziali. L'approvazione di questo piano, chiamato Piano Fouchet, provocò un'immediata risposta da parte delle masse studentesche. Contro lo spirito tecnocratico del Piano Fouchet, gli studenti e i professori progressisti dell’università di Nanterre decisero di scioperare. La protesta si allargò rapidamente e il 22 marzo prese il via il movimento più noto tra quelli sorti nella primavera del 1968. Questo movimento era capeggiato da un giovane anarchico, D. Cohn Bendit, e denunciava l'esistenza di un'unica condizione di oppressione che accomunava studenti e operai. L'occupazione alla Sorbona da parte degli studenti (2 maggio) rappresentò il momento di rottura, contrassegnato da scontri con la polizia. In 13 le organizzazioni studentesche proclamarono lo sciopero generale: fu il momento culminante della rivolta ed anche il più pericoloso per lo stato, perché alla protesta aderirono anche milioni di lavoratori in tutto il paese. La Francia era paralizzata. A questo punto prese in mano la situazione Charles De Gaulle e, forte dell'appoggio dell'esercito e raggiunto un accordo con la Confederazione generale del lavoro (CGT), dichiarò la rivolta " una follia estremistica", sciolse il Parlamento e indisse nuove elezioni dalle quali uscirono vincitori i gollisti. La presenza di giovani operai a fianco degli studenti fu la caratteristica anche del Sessantotto italiano, il più intenso e ampio tra tutti quelli dell'Europa occidentale. In Italia la contestazione fu il risultato di un malessere sociale profondo, accumulato negli anni '60, dovuto al fatto che lo sviluppo economico non era stato accompagnato da un adeguato aumento del livello di vita delle classi più disagiate. L'esplosione degli scioperi degli operai in fabbrica si saldò con il movimento degli studenti che contestavano i contenuti arretrati dell’istruzione e rivendicavano l'estensione del diritto allo studio anche ai giovani di condizione economica disagiata. La contestazione fu attuata con forme di protesta fino ad allora sconosciute: furono occupate scuole e università e furono organizzate manifestazioni che in molti casi portarono scontri con le forze dell’ordine. L’occupazione italiana iniziò precisamente nel ’66, e coincise con una radicale modernizzazione complessiva del paese. Casi specifici si ebbero nel 1967, a Torino, con l’occupazione di Palazzo Campana, sede della facoltà di lettere, accompagnata da un manifesto dove appariva un cadavere ossificato con parrucchino e medaglie, ad indicare la sclerosi delle istituzioni accademiche e a suggerire l’urgenza di soluzioni riformatrici. Nel 1968 le occupazioni da Torino, Trento, Pisa, Firenze si estesero e si affermarono ovunque i “controconcorsi” promossi dagli studenti su temi d’attualità (la guerra nel Vietnam, i rapporti tra il Primo e il Terzo mondo, l’economia capitalistica) e allo stesso tempo gli studenti imparavano a proteggere le loro iniziative dalle ritorsioni della magistratura o dall’intervento della polizia. Il 2 febbraio venne occupata l'università di Roma, la più grande d'Italia, la quale inizialmente era stata esentata dalle occupazioni. Nella cultura del movimento confluirono i diversi filoni di pensiero critico e di protesta sociale che avevano costellato gli anni '60: l'elaborazione delle riviste della sinistra non istituzionale e quella dei vari gruppi cattolici dissenzienti; la critica alla società dei consumi elaborata dalla Scuola di Francoforte nel suo celebre "L'uomo a una dimensione" e i fermenti terzomondisti innescati dalle lotte di liberazione dei popoli ex coloniali e dalla guerra nel Vietnam; e il movimento libertario giovanile sviluppatosi negli anni del "beat italiano". Inizialmente meno visibile, ma destinata ad affermarsi sempre di più negli anni successivi, sino a mettere in discussione l'intera impostazione politica del movimento, fu l'originale versione del femminismo impostata da alcune pensatrici italiane (il gruppo Demau). L' inequivoco schieramento all'estrema sinistra del movimento studentesco scatenò i neofascisti che assaltarono la facoltà di lettere a Roma. Messi in fuga si barricarono nella facoltà di legge tirando dalle finestre banchi e armadi. Sfortunatamente, il leader del movimento studentesco restò gravemente ferito e la protesta degli studenti non trovò alcun ascolto nel quadro politico di governo. Da cinque anni l'Italia era guidata da una maggioranza di centro sinistra, che aveva rapidamente accantonato le iniziali promesse riformiste. Offrivano invece una sponda al movimento i partiti di sinistra, ma si trattava di un flirt di breve durata. Il vento della protesta arrivò, senza ancora investirle in pieno, anche nelle grandi fabbriche del nord: migliaia di operai, soprattutto a Torino, in occasione di scioperi generali, affrontavano le forze dell’ordine anche per più di 24 ore. In estate, invece, con le università chiuse, la contestazione si spostò sul terreno delle istituzioni culturali. Artisti e studenti interruppero la mostra del cinema di Venezia. In autunno la palla passò agli studenti medi che occuparono ovunque gli istituti e riempirono le piazze con grandi cortei. A dicembre a Roma sfilavano 30.000 studenti medi. Alla protesta contro l'assetto scolastico si sommò quella contro la polizia, che il giorno prima, Sicilia, aveva aperto il fuoco contro una manifestazione di braccianti uccidendone due. Il 1968 si chiuse nel sangue; ma nel '69 furono gli operai ad impedire che il movimento degli studenti declinasse come nel resto d'Europa. Il conflitto riprese su larga scala in autunno, quando arrivarono a scadenza i contratti di lavoro che riguardavano oltre 5 milioni di operai. L'"autunno caldo" segnò il momento di massimo scontro sociale nell'Italia del dopoguerra. Gli operai rinnegavano la suddivisione della forza lavoro in fasce diversamente qualificate e chiedevano che il salario fosse svincolato dalla produttività. Nacquero in questi mesi i principali gruppi della sinistra extraparlamentare, mentre i sindacati, in un primo momento colti di sorpresa dalle dimensioni dell'agitazione operaia, diedero vita a strutture unitarie di base, i Consigli di fabbrica.
Abbiamo visto come dalla contestazione studentesca, che fu inizialmente sottovalutata dai politici e dalla stampa, si passò repentinamente alla contestazione dei lavoratori. Fu così che si originarono le agitazioni per il rinnovo di molti contratti di lavoro; per i salari, per lo Statuto, per le pensioni, la casa, la salute, i servizi, ecc. Per la prima volta il mondo dei lavoratori e il mondo studentesco si unirono fin dalla prime agitazioni su molte questioni del mondo del lavoro, provocando delle tensioni nel Paese sempre più inquietanti e a carattere fortemente e decisamente rivoluzionarie, sfiorando l’insurrezione, come confermavano i giornali Italia. Ricordiamo il celebre fatto della Fiat di Torino che, dopo alcuni incidenti causati da atti di sabotaggio alle catene di montaggio, dove vennero persino distrutte milioni di auto, reagì e sospese 25.000 operai. Ma questi ultimi ottennero alla fine molti risultati; l'unione dei sindacati fece miracoli: aumenti salariali, interventi nel sociale, pensioni, minori ore lavorative, diritti di assemblea, consigli di fabbrica. E otterranno finalmente anche la promessa dello Statuto dei Lavoratori.
I giornali quotidiani sottovalutavano la contestazione. In generale invitavano gli studenti a cessare le preoccupazioni e le proteste e pubblicavano lettere di giovani che volevano riprendere serenamente gli studi, interrotti forzatamente a causa dell’esuberanza di alcune minoranze. I giornali di parte politica riportavano i fatti secondo il loro punto di vista, di conseguenza ne scaturiva un’immagine fasulla e poco obiettiva del movimento. La Gran Bretagna degli anni Sessanta fu il luogo centrale dove si produssero alcune clamorose novità che interessarono innanzitutto la cultura e il costume dei giovani. Dal movimento degli arrabbiati fino alle prime bande giovanili, i giovani inglesi si ribellano al modo di vivere dei loro padri e trovano nella musica rock e pop il linguaggio capace di esprimere la loro rivolta. Come in altri paesi occidentali, anche in Gran Bretagna nacque negli anni Sessanta l'Università di massa. La popolazione studentesca nel 1965 toccò la quota di 300 mila unità. Il mutamento di funzione dell'università, che non era più luogo riservato alla formazione e alla riproduzione di una élite dirigente, innescò una serie di trasformazioni: la politica cominciò anche qui ad entrare negli atenei, dove si formarono organizzazioni di sinistra tra cui la “Radical Student Alliance “ (Rsa), cui aderirono giovani laburisti e comunisti. La prima conferenza della Rsa si tenne a Londra, presso la London School of Economics nel gennaio del 1967. Gli studenti contestavano l'aumento delle tasse universitarie per gli stranieri e i tagli alle borse di studio, e rivendicavano un salario per tutti gli studenti. L'epicentro della rivolta studentesca tra il '67 e il '69 fu proprio la London School of Economics (Lse), dove gli studenti contestavano il nuovo rettore dell’università Walter Adams per il suo passato come direttore dello University College nella razzista Rhodesia. Gli studenti organizzarono un meeting di protesta, ma le autorità accademiche proibirono loro l'accesso ai locali dell'Università. A marzo ( ’67) la tensione non si era ancora placata: gli studenti della London School iniziano a sperimentare la "libera università", richiamandosi al modello americano. Nel frattempo si sviluppò anche qui il movimento di protesta contro la guerra Usa nel Vietnam: la “Vietnam Solidarity Campaign”, un’organizzazione fondata nel 1966 da esponenti di vari gruppi della sinistra, promosse la prima grande manifestazione di massa a sostegno della lotta del popolo vietnamita, che si concluse con violenti scontri. Parallelamente si sviluppò la campagna contro le armi batteriologice: sotto accusa era il “Centro di ricerche microbiologiche” di Porton Down, che era ritenuto responsabile di aver fornito agli americani il mortale gas CS, usato nel Vietnam. La lotta contro l'imperialismo e il razzismo fu uno dei temi centrali per il movimento studentesco britannico. A giugno la Camera dei Lords bocciò a maggioranza la proposta di sanzioni contro lo stato razzista della Rhodesia. Scioperi di protesta furono organizzati dagli studenti in molte università, e il governo laburista annunciò una serie di progetti di legge finalizzati alla riduzione dei poteri della Camera dei Lords e l'imminente estensione del voto ai diciottenni. Ma a dicembre, molte università inglesi erano di nuovo in lotta, e quella di Bristol occupata. La situazione restò duramente conflittuale per tutto l'anno accademico con scioperi, boicottaggi e invasioni degli uffici amministrativi. Sebbene caratterizzato da punte estremamente radicali, comunque, il movimento di lotta degli studenti in Gran Bretagna non raggiunse l'estensione e l'intensità che caratterizzarono i movimenti in Francia, in Italia e in Germania.
Proprio in Germania il 2 giugno del 1967, durante una manifestazione studentesca contro lo Scià di Persia Reza Pahlevi in visita a Berlino, un colpo, sparato da un ufficiale di polizia, uccideva lo studente Benno Ohnesorg.
L'impressione suscitata da quella morte fu enorme e conferì una potente accelerazione al movimento degli studenti che era andato progressivamente radicalizzandosi lungo l'arco di tutto il decennio. Fin dalla metà degli anni '50 si erano sviluppati attriti tra il partito socialdemocratico e la sua organizzazione studentesca, l'Sds, soprattutto in tema di riarmo della Repubblica federale e di deterrenza atomica.
La protesta contro gli armamenti nucleari e la coscrizione obbligatoria, la lotta contro la legislazione d'emergenza (un pacchetto di misure restrittive dei diritti costituzionali), furono, insieme alla lotta contro l'autoritarismo dell'istituzione scolastica e del sistema accademico, i temi dominanti del movimento degli studenti nella prima metà degli anni '60. Dopo il 2 giugno del '67 il movimento dilagò nelle università e nelle scuole superiori. Il modello di "controuniversità" direttamente gestita dagli studenti, sviluppato a Berlino si diffuse ad altre sedi universitarie. La solidarietà con il popolo vietnamita e la protesta contro la guerra americana in Indocina, divennero un tema dominante del movimento studentesco e si moltiplicarono le manifestazioni e le azioni dimostrative. La rivolta giovanile investì i riti e i miti del consumismo, le gerarchie familiari e sociali, la morale sessuale e sperimentò nuove forme di rapporto come le “comuni” (la prima è fondata a Berlino nel gennaio del’ 67) e, più tardi, gli “asili antiautoritari”. La reazione della destra contro il movimento degli studenti fu virulenta. Il gruppo Springer, che dominava la stampa tedesca, orchestrava contro gli studenti una forsennata campagna di stampa, che li accusava di fomentare il disordine e l'anarchia e di agire al servizio del blocco sovietico.
La destra considerava Berlino e il Sudvietnam affratellati in quanto bastioni del mondo libero contro il comunismo. Il 1968 si aprì in febbraio con un congresso e una grande manifestazione contro l'aggressione Usa in Vietnam, cui sarebbe stata seguita una contromanifestazione organizzata dal senato berlinese, dal sindacato e dal gruppo Springer. In seguito all’attentato ad un leader della Sds da parte di un giovane di destra, a Berlino scoppiò immediatamente la rivolta, dove i manifestanti si scontrarono violentemente con la polizia e tentano l'assalto alla sede del gruppo Springer.
Nei giorni seguenti la rivolta si estese ad altre 27 città, prendendo di mira le sedi e i furgoni dell'editore, ritenuto responsabile del clima di odio che aveva ispirato l'attentatore. I cosiddetti "disordini di Pasqua" furono considerati i più gravi dai tempi della Repubblica di Weimar. Alla fine si registrarono centinaia di feriti e arresti e due morti. In maggio un vastissima mobilitazione cercò di impedire l'approvazione della legislazione d'emergenza. Ma, dopo il cedimento dell'opposizione sindacale questa venne approvata dal parlamento con la richiesta maggioranza dei due terzi. Da questa sconfitta cominciò il declino dell'Sds e alla fine dell'anno vennero fondati i primi partitini comunisti. Il movimento si spostò dalle università ai quartieri, ad alcune realtà operaie e sindacali, al settore degli apprendisti, mentre nel settembre del 1969 anche la Repubblica federale fu investita da scioperi operai spontanei contro la firma sindacale dei contratti.
Nella Cina comunista il "sessantotto" rappresentò il momento più acuto della rivoluzione culturale avviata nel 1966. Tutto il sistema di potere di questo paese venne completamente trasformato. Partito dai gruppi di studenti universitari che protestavano contro i privilegi culturali ancora presenti nella società cinese, il conflitto fu subito appoggiato da Mao e dai suoi sostenitori, che lo radicalizzarono come strumento di pressione contro l’opposizione interna. Nell’estate del 1967 e agli inizi del 1968 lo scontro sembrò raggiungere un tale livello di acutezza da precludere una guerra civile. Successivamente però la tensione si allentò, numerosi dirigenti giovanili furono allontanati dalle città e inviati nelle zone rurali. Si imposero ovunque i "comitati rivoluzionari" che recuperarono i vecchi dirigenti. Infine gli avversari di Mao vennero emarginati.
Il regime maoista aveva rappresentato un punto cardine tra le ideologie politiche che, all’inizio degli anni sessanta, si stavano diffondendo in tutto il mondo e in particolare in Cina, a tal punto che alcune citazioni tratte dai discorsi di Mao Zedong furono pubblicate nel 1966 in una raccolta, comunemente chiamata “il Libretto Rosso”. Il titolo gli fu dato in occidente a causa del colore della copertina e dal formato, adatto ad essere infilato in una tasca superiore della giacca cinese: la cosiddetta "giacca maoista". Durante la Rivoluzione culturale il libro godette di un'enorme popolarità, fu tradotto in numerosissime lingue e inviato gratuitamente all'estero a chiunque ne facesse richiesta. Studiare il pensiero del presidente Mao divenne un obbligo civico, anche se mai sancito ufficialmente, tanto che vi furono casi di pestaggi per chi ne fosse trovato sprovvisto. Sempre durante la Rivoluzione culturale lo studio del Libretto Rosso divenne materia scolastica in tutti i gradi di istruzione così come in tutti i luoghi di lavoro, oltre che nell'esercito, cui era originariamente rivolto. Il libro divenne presto anche un topos iconografico, rappresentato in ogni dipinto e manifesto, fu agitato in ogni manifestazione e persino rappresentato in oggetti di uso quotidiano come le sveglie. Curiosamente non esiste un singolo Libretto Rosso, ma una intera classe di pubblicazioni con lo stesso titolo e piccole variazioni grafiche in copertina. Infatti sia le fazioni delle Guardie Rosse, rigorosamente contrarie al Partito Comunista Cinese, che il Partito Comunista Cinese stesso pubblicarono edizioni in cui si dava risalto ora alla "dialettica in seno al popolo" ora al ruolo determinante del partito per l'edificazione del socialismo in Cina, in genere privilegiando le citazioni dalle opere di Mao degli anni 30.
Nonostante fosse diffusa in tutto il mondo, la protesta giovanile si spense, all’inizio degli anni '70, ovunque senza aver riportato risultati significativi. I movimenti studenteschi si richiamarono dunque alle idee di Mao Zedong, ma anche di Lenin, Che Guevara e Ho Chi Minh e diedero vita a gruppi politici extraparlamentari, criticando la posizione dei partiti di sinistra e dei sindacati. Nonostante le numerose manifestazioni di protesta, però, i governi occidentali non attuarono le riforme richieste e attaccarono più volte gli studenti con le forze di polizia.
La principale ragione di questo fallimento va ricercata nell’incapacità di quei giovani di tradurre le aspirazioni in programmi concreti e in strutture organizzative in grado di realizzarli. Il Sessantotto, quindi, si caratterizzò come una rivolta morale dei giovani contro la società, piuttosto che come un insieme di movimenti politici finalizzati alla realizzazione di un qualsiasi programma. Merito del movimento giovanile di quegli anni fu, soprattutto in Occidente, quello di mettere al centro dell'attenzione valori che fino a poco tempo prima erano stati interesse di pochi. Temi come il pacifismo, l'antirazzismo, il rifiuto del potere come forma di dominio, i diritti delle donne e l’interesse per l’ambiente, entrarono a far parte stabilmente del dibattito politico e socio-culturale del mondo intero. Va inscritto anche il fatto che le lotte studentesche acuirono la sensibilità collettiva dei confronti di alcuni delle contraddizioni di fondo della società occidentale: come la separazione tra il gratificante lavoro intellettuale e l’alienante lavoro manuale o il contrasto tra i valori spirituali e la massificazione e mercificazione consumistica.
È da osservare che dopo il Sessantotto il mondo non è cambiato poi molto, ma anche che non sarebbe stato mai più lo stesso.
IL MOVIMENTO FEMMINISTA DEL ‘68
Negli anni 60 si sviluppò un’ondata di femminismo che mise in discussione tutti i modelli basati su ideali maschilisti, esaltando i valori profondamente legati alla donna.
Fino a questo momento la donna era considerata un essere totalmente dipendente dal “maschio” perché inferiore o, addirittura, era chiamata “Tota mulier in utero” per le sue caratteristiche fisiche e per il suo ruolo biologico.
In altre parole, l’uomo moderno aveva forti inibizioni verso la donna perché veniva ritenuta solo semplice macchina da riproduzione. Anche la Chiesa Cattolica concordava con quest’idea e, infatti, fece tutto il possibile per persuadere la donna al dovere di sottostare a ciò che ha ordinato Dio riguardo alla riproduzione.
Inoltre, oltre alla questione del maschilismo, anche altri argomenti erano alla base dell’interesse del sesso femminile, quali il problema della prostituzione (in Italia) e, a livello mondiale, del problema della figura della donna all’interno del mondo del lavoro e della società del tempo.
Una delle principali battaglie del movimento femminista fu quello per l’eliminazione della legge riguardante l’adulterio da parte della donna, la violenza sessuale subita, il divorzio, la contraccezione, la pace e i diritti civili. In questo periodo, infatti, l’adulterio femminile, diversamente da quello maschile (che era punibile, secondo la legge del periodo, soltanto se i due amanti vivevano sotto lo stesso tetto) prevedeva il delitto d’onore che comportava pene minime.
Invece, per quanto riguarda l’atto di violenza sessuale subito, soprattutto su minorenni, il matrimonio riparatore poteva evitare la condanna e il divorzio non esisteva, inoltre la legge non ammetteva né l’aborto né la contraccezione.
La pillola anticoncezionale fu un gran motore di cambiamento che venne introdotta negli Stati Uniti alla fine degli anni ‘50 e prescritta in Italia solo nel ’64.
Per questo si riteneva necessario riprendere le argomentazioni maschiliste, i problemi citati in precedenza per ribaltarne le conseguenze, celebrare l’importanza e la superiorità della donna e ottenere importanti traguardi per un futuro migliore per il mondo femminile.
Esempi eclatanti li possiamo trovare in tutto il mondo grazie ad importanti femministe (che vedremo in seguito) che si adoperarono all’interno dei vari movimenti femministi in America e in Europa (Italia, Francia, Germania) e a persone, come l’italiana Franca Viola, che ebbero il coraggio di rivoltarsi contro le ingiustizie subite (vedi paragrafi precedenti). Inoltre, il 7 settembre 1968 è la data ufficiale della nascita di questo nuovo e moderno femminismo e vedremo il perché nel paragrafo riguardante il femminismo americano.
IL FEMMINISMO AMERCANO
Il 7 settembre 1968, alle elezioni di Miss America, un gruppo di cento donne si diede appuntamento, incoronò una pecora e gettarono tutti gli oggetti che rappresentavano l’essere femminile. Nella “pattumiera della libertà” infatti, finirono ciglia finte, reggiseni, bigodini e prodotti di bellezza. Era il debutto della New York Radical Women che aveva avuto una notevole esperienza di lavoro nella nuova sinistra o nel movimento per i diritti civili.
Le femministe americane erano convinte che gli uomini pensassero che le donne dovessero sottostare (come i coloni e gli schiavi) alle dipendenze dell’uomo e proprio questo fatto rappresentava la chiave per fare del femminismo un movimento di massa e un motivo valido per coinvolgere in ciò le compagne.
Una delle maggiori esponenti del femminismo americano del ’68 è, sicuramente, KATE MILLET. Ella distinse “sesso” e “genere”: il primo è determinato biologicamente e il secondo un concetto psicologico che si riferisce ad un’identità sessuale acquisita culturalmente. Questa distinzione deve essere vista in polemica con l’atteggiamento diffusosi per cui le donne e gli uomini sono definiti in contrasto tra loro secondo stereotipi “naturali” (donna passiva, uomo attivo). La sua politica sessuale, inoltre, è un’investigazione della figura femminile nell’ottica maschile e una forte critica all’ordine patriarcale.
Altra femminista americana di grande importanza è BETTY FRIEDAN: con il suo celeberrimo libro intitolato “La mistica della femminilità” che suscitò grande scalpore perché fece crollare il mito della felice realizzazione femminile della famiglia americana che venne denominato “il comodo campo di concentramento”. Ella, infatti, intellettuale borghese, a partire dalla sua esperienza colse la frustrazione delle donne della sua classe e denunciò la convinzione che la massima aspirazione per le donne fosse sposarsi, abitare in una bella casa e mettere al mondo figli e su queste basi aumentavano le crisi esistenziali e psichiche causate da profonde insoddisfazioni e frustrazioni.
La Friedan, inoltre, in questo periodo promuove un’organizzazione, denominata Now (National Organization of Woman) che rivendica il diritto ad una professione e alla carriera e una maggiore presenza delle donne nelle istituzioni e nell’amministrazione.
IL FEMMINISMO FRANCESE
Il femminismo francese è stato fortemente influenzato dalle teorie psicoanalitiche, specialmente nell’interpretazione che LACAN ha dato delle opere di Freud. In particolar modo le femministe francese sono rimaste colpite dal suo particolare punto di vista. Infatti, egli crede che il bambino giunge ad un senso di identità entrando nell’ordine “simbolico” del linguaggio, che si costituisce sulla base di somiglianze e differenze. Soltanto accettando un sistema di esclusioni imposte dalla legge del Padre il bambino può entrare nello spazio in cui cominciano le distinzioni sessuali, dove trovare la propria identità. Qui, il ruolo del padre è inteso in senso metaforico: egli detiene il potere della Legge non perché ha una funzione superiore di procreazione, ma semplicemente come un effetto del sistema linguistico. La madre riconosce il linguaggio del padre perché ha accesso al significante della funzione paterna, che regola il desiderio in maniera “civilizzata”. Soltanto accettando la necessità della differenza sessuale e del desiderio regolato un bambino si può considerare “socializzato”.
Il femminismo francese, dunque, ha obiettato subito questo modo di vedere perché la posizione della donna rimane di subordinazione rispetto all’uomo.
Ciò che però è di notevole importanza nella teorizzazione lacaniana, per le femministe, è la proiezione di tematiche freudiane quasi strettamente psicologiche e biologiche nella sfera sociale, attraverso il sistema linguistico.
Nel femminismo francese si può individuare, inoltre, a grandi linee una critica femminista che deriva principalmente dal presupposto che la percezione della donna sia come quella di un “altro”, rispetto all’uomo.
Questa percezione si accompagna di opposizioni stereotipe e binarie come uomo/donna, logica/natura, opposizioni, cioè, manipolate culturalmente o socialmente in maniera da far esercitare il potere di un gruppo su un altro gruppo. Questo è ciò che pensa SIMONE DE BEAUVOIR, scrittrice ed esempio importante di “donne in movimento”.
Beauvoir nei suoi scritti dimostra una grande autonomia e una straordinaria capacità di analisi. Nel suo libro intitolato “Il secondo sesso”, analizza attentamente la condizione presente e passata della donna, rileggendo e discutendo molti dei miti e delle false interpretazioni operate dagli uomini sulla figura femminile.
Per questo motivo si possono considerare tre capitoli del suo libro come i più significativi del suo pensiero.
La prima parte intitolata “i dati della biologia” parla di come gli uomini abbiano sempre considerato la donna come un “spregevole nemico” e come essi abbiano tentato di giustificare questo loro sentimento attraverso lo studio della biologia, considerando la distinzione tra i sessi come un fatto irriducibile e contingente, senza mai cercare, però, di dare una spiegazione scientifica.
Nella seconda parte “il punto di vista psicoanalitico” critica la descrizione Freudiana del destino femminile, accusando il padre della psicoanalisi (Freud) di aver ricalcato tale descrizione sul modello maschile, senza aver realmente considerato la libido femminile nella sua originalità.
Nel terzo punto, infine, critica la visione di Engels che riteneva l’oppressione femminile come conseguenza dell’oppressione economica, dovuta alla nascita della proprietà privata.
IL FEMMINISMO TEDESCO
Per quanto riguarda la situazione in Germania negli anni ’60 sorse il desiderio di confrontarsi con il passato nazista. Così, con grande successo, le manifestazioni di massa in questo momento reclamano una nuova Germania ed è soprattutto la nuova generazione a richiedere ciò.
Quindi, di seguito, grazie a questo grande desiderio nascono nuovi e importanti movimenti, tra i quali il movimento ambientalista, antinazionalista e femminista (fondamentale per le donne per i motivi citati all’inizio). Questi movimenti, inoltre, diventano parti fondamentali dell’identità tedesca occidentale.
IL FEMMINISMO ITALIANO
In Italia nasce a Milano nel 1966 il gruppo Demau (demistificazione autoritarismo) che definisce l’esigenza di una struttura autonoma. Questo gruppo è impegnato sul terreno teorico e parte dalla critica verso tutte quelle associazioni e movimenti femminili che si limitano solamente a rivendicare l’emancipazione della donna e del suo inserimento nelle attività extrafamiliari.
Ciò che questo gruppo vuole fare è di opporsi all’inserimento della donna nella società così come era considerata finora. Qui la donna deve prendere coscienza del proprio ruolo, analizzare tutti i campi della vita umana (teorizzazioni scientifiche, diritti giuridici, rapporti sessuali, rapporti familiari e lavorativi) per capire come in questi si manifesti l’oppressione dell’uomo sulla donna e partire da qui per lavorare una teoria che emancipi quest’ultimo dalla sua condizione di oppressore.
Le questioni poste da questo gruppo sono di grande valore, ma sono messe a dura prova perché esse comprendono che non possono elaborare una cultura nuova isolandosi ed estraniandosi dalla necessità di lottare con un movimento operaio atto al rovesciamento del capitalismo. Il gruppo, infatti, tolte le altisonanti aspirazioni teoriche, realizzano l’opportunità di un’equa redistribuzione fra i due sessi, del lavoro e educazione dei figli. Tuttavia, queste teorizzazioni furono oggetto di dibattiti su molteplici riviste dell’epoca e coinvolsero in prima persona molti intellettuali con risultati notevoli ma alquanto risicati.
Questo gruppo di femministe, dunque, dopo una serie di contestazioni e movimenti, sono riuscite ad ottenere una serie di risultati importanti, quali la prima vera conquista al femminile (19/12/68) dove l’adulterio non venne considerato più un reato e, nel frattempo, venne riconosciuto il diritto di separazione se l’adulterio veniva fatto dal consorte (anche se il diritto di divorzio manca ancora).
Altro aspetto fondamentale è la pillola come raggiungimento della liberazione della razza umana dalla sua immemorabile subordinazione. Le donne, infatti, fiere, ora dichiarano “il ventre è mio”. Il movimento, quindi, si muove su un territorio che è tutto suo, privato, intimo. La donna sa di essere “sola” e di dover affrontare il suo problema per una tematica radicale dove non teme d’imboccare la strada più impopolare, quella, cioè, che va contro la bimillenaria morale della Chiesa, prima con il divorzio, poi con la pillola, e infine con quello che già la stessa Chiesa ha iniziato a chiamare “il macigno delle coscienze”: l’aborto.
Inoltre, sempre per merito di queste donne, le scuole hanno cominciato a diventare più sensibili al problema di dare un’educazione sessuale alle ragazze interessate per renderle maggiormente informate e più responsabili.
Uno dei maggiori esponenti del movimento femminista italiana è CARLA LONZI, scrittrice femminista definita come “prima femminista dell’autocoscienza e della differenza sessuale”. Ella scrisse “Il Manifesto di rivolta femminile” e per comprendere meglio le sue convinzioni, si possono leggere alcuni passi di questo libro:
“(…) la donna non va definita in rapporto all’uomo. L’uomo non è il modello a cui adeguare il processo della scoperta di sé da parte della donna”.
“(…) della grande umiliazione che il mondo patriarcale ci ha imposto noi consideriamo responsabili i sistematici del pensiero: essi hanno mantenuto il principio della donna come essere aggiuntivo per la riproduzione dell’umanità, legame con la divinità o soglia del mondo animale; sfera privata e pietas. Hanno giustificato nella metafisica ciò che era ingiusto e atroce nella vita della donna”.
Questa scrittrice nel suo libro si avvale di uno slogan forte ma efficace per rendere giustizia alla figura della donna. Infatti, essa si esprime con toni pacati sostenendo:
“unifichiamo le situazioni e gli episodi dell’esperienza storica femminista: in essa la donna si è manifestata interrompendo per la prima volta il monologo della civiltà patriarcale”.
Anche nel mondo della musica possiamo trovare tracce di ideali femministi, o, almeno, il desiderio di avere più libertà (sotto tutti i punti di vista) da parte delle cantanti italiane. Basti pensare alla giovanissima CATERINA CASELLI che con uno dei suoi brani più famosi “ Nessuno mi può giudicare” (canzone considerata ribelle per il contenuto) ha voluto dimostrare che le donne avevano libero arbitrio sulla scelta del proprio fidanzato che potevano talvolta cambiare.
Ecco qui la canzone:
La verità mi fa male, lo so… Se ho sbagliato un giorno ora capisco che
La verità mi fa male, lo sai! L’ho pagata cara la verità,
io ti chiedo scusa e sai perché?
Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu Sta di casa qui la felicità.
(la verità ti fa male, lo so) Molto,molto più di prima io t’amerò
Lo so che ho sbagliato una volta e non sbaglio più in confronto all’altro sei meglio tu
(la verità ti fa male, lo so) ed ora in avanti prometto che
Dovresti pensare a me quel che ho fatto un dì non farò mai più
e stare più attento a te
C’è già tanta gente che Ognuno ha il diritto di vivere come può
Ce l’ha su con me, chi lo sa perché? (la verità ti fa male, lo so)
Per questo una cosa mi piace e quell’altra no
Ognuno ha il diritto di vivere come può (la verità ti fa male, lo so)
(la verità ti fa male, lo so) Se sono tornata a te,
Per questo una cosa mi piace e quell’altra no ti basta sapere che
(la verità ti fa male, lo so) ho visto la differenza tra lui e te
Se sono tornata a te, ed ho scelto te
ti basta sapere che Se ho sbagliato un giorno ora capisco che
ho visto la differenza tra lui e te l’ho pagata cara la verità,
ed ho scelto te io ti chiedo scusa, e sai perché?
Sta di casa qui la felicità.
Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu!
IL FEMMINISMO SOCIALE/MARXISTA
Il femminismo sociale/marxista è molto forte negli anni ’60, in particolar modo in Inghilterra. Esso vorrebbe estendere l’analisi delle classi condotta da Marx ad una storia dell’oppressione materiale ed economica delle donne, soprattutto per quanto riguarda il lavoro casalingo e la divisione sessuale del lavoro. Il marxismo, infatti, come molte altre dottrine “maschiliste”, ha ignorato le attività e le esperienze prettamente femminili.
Lavoro realizzato da Magagnato Ilaria e Sattin Alexia.
BIBLIOGRAFIA
Femminismo nel 1968: www.filosofiaedintorni.net, www.wikipedia.org, rivista “Focus Storia” (edizione maggio 2006)
Femminismo americano: www.letturefantastiche.com
Femminismo marxista: www.letteratour.it
Femminismo italiano: www.universitadelledonne.it
Kate Millet: www.psicolinea.it
Betty Friedan: www.sapere.it
Simone de Beauvoir: www.sapere.it, www.wikipedia.org
Jacques Lacan : www.wikipedia.org
Lina Merlin e Franca Viola : www.martaboneschi.net
Carla Lonzi: www.filosofico.net
Caterina Caselli: www.wikipedia.org

IL VIETNAM
Repubblica Socialista del Vietnam, Việt Nam Cộng Hòa Xá Hội Chú Nghiâ, dal 1976
Bandiera nazionale, mercantile e della marina da guerra ufficiale dal 30 novembre 1955, fu confermata per lo stato unitario il 2 luglio 1976 ed è tuttora in uso. Le cinque punte della stella simboleggiavano gli intellettuali, gli operai, i contadini, i giovani e i soldati.
Sommario:
- Caratteristiche territoriali, climatiche e culturali del Vietnam nel XXI secolo….Pagina 1
- Storia del paese fino alla seconda guerra mondiale………………………...........Pagina 3
- La storia fino alla seconda Guerra Mondiale…...………………………………..Pagina 4
- Guerra del Vietnam………………………..………………….………………….Pagina 5
- Opposizione alla guerra……………….……………………………………….…Pagina 8
- Documenti storici: estratti dal Corriere della Sera.................................................Pagina 11
- Le immagini più significative della guerra del Vietnam…………………………Pagina 13
Cartina Politica Cartina Fisica
1) Il Territorio
Il Vietnam si estende per 331,689 Kmq. nella parte sud-est della penisola indocinese e confina a nord con la Cina, ad ovest con il Laos e la Cambogia, mentre a sud e ad est si affaccia rispettivamente sul Golfo del Siam e sul Mar Cinese Meridionale. Al nord del paese si trovano i rilievi dello Yunnan, che si innalzano oltre i 3000 m, di cui le cime più elevate sono il Fan Si Pan (3143 m) e il Phu Luong (2985 m); la parte che raggiunge il golfo del Tonchino raramente raggiunge i 1000 m.; queste formazioni montuose proseguono anche nel mare formando circa 1200 isolotti. Verso ovest i rilievi dello Yunnan tendono ad abbassarsi, fino alla cosiddetta Porta dell’Annam oltre la quale inizia la catena Annamita e la parte centrale del Vietnam. Nella parte a nord della regione dell’Annam, la montagna segue la linea della costa e fa da spartiacque tra i fiumi affluenti del Mekong e i fiumi che sfociano nel Mar Cinese Meridionale, nella parte a sud la linea della cresta montuosa si separa creando varie creste tra le quali si formano valli fluviali o isolando bacini intermontani. Nel sud del Vietnam la catena Annamita si abbassa fino agli altipiani Moi e alla grande pianura della Cocincina bassa e uniforme.
2) I Fiumi
I fiumi principali che attraversano il Vietnam sono il Mekong e il Fiume Rosso, che sfociano rispettivamente nel Mar Cinese Meridionale e nel Golfo del Tonchino. Il Mekong nasce nei monti Tsinghai in Cina, attraversa Cambogia e Laos e sfocia nel Mar Cinese Meridionale; attraversa per circa 320 Km. la Cocincina, giunge al mare suddividendosi in molte diramazioni. La piena annuale del Mekong raggiunge il massimo fra ottobre e novembre, in modo graduale le acque ricoprono la pianura senza rovinare le colture. L’altro fiume importante è il fiume Rosso che nasce nell’altopiano cinese dello Yunnan, attraversa la regione del Tonchino e scorre in territorio vietnamita solo per 500 Km. dei suoi 1200 complessivi. I suoi principali affluenti sono il Fiume Chiaro e il Fiume Nero. Entrambi i fiumi hanno una portata molto irregolare, a causa dei Monsoni. In Vietnam scorrono molti altri fiumi ma più piccoli.
3) Il clima
Il clima della penisola Vietnamita è monsonico; è caratterizzato da inverni secchi e estati piovose. La stagione estiva, è sempre preceduta da periodi caldissimi e afosi. Durante l’estate le regioni meridionali sono spesso colpite da tifoni, e l’escursione termica è abbastanza moderata, grazie all’azione mitigatrice del mare, e le temperature non superano mediamente i 30°.
4) Flora e fauna
Il clima monsonico del Vietnam favorisce la crescita di una vegetazione pluviale a sud, e a nord dei boschi decidui. Lungo i fiumi si trovano delle fitte formazioni di mangrovie che rendono difficoltoso l’accesso alle sponde dei fiumi; purtroppo questo bene ambientale è stato danneggiato dall’uso in guerra di armi chimiche come il Napalm. La fauna è caratterizzata nelle foreste pluviali da: elefanti, cervi, orsi, tigri e leopardi; mentre nel resto del paese vivono principalmente scimmie, lepri, scoiattoli, lontre, coccodrilli, serpenti e molte specie di uccelli.

Sapa, circa 1.700 metri sopra il livello del mare, una delle località più fredde del Vietnam, sia d'inverno, dove può anche nevicare, sia d'estate visto che è soggetta a costanti e violente piogge che fanno abbassare notevolmente la temperatura.
Sapa è una delle località turistiche del Nord Vietnam più conosciuta. In questi ultimi anni il turismo la sta rivalutando, grazie ai suoi paesaggi, unici in Vietnam e alla sua accogliente popolazione, che per buona parte, soprattutto nelle campagne, appartiene alle minoranze etcniche. Qui ci si trova a pochi chilometri dal confine con la Cina.
5) Popolazione
Il Vietnam è costituito da 79.939.000 ab. con una densità di 241 ab. per kmq. . La popolazione si concentra nelle città costiere e nella regione della Cocincina; la popolazione è molto giovane, infatti nel 1989 il 39% di vietnamiti aveva meno di 15 anni, e uno degli scopi del governo è quello di ridurre il tasso di crescita demografica. La popolazione è composta dall’84% di vietnamiti, e il restante 16% è composto da cinesi, e da altre minoranze che vivono nelle zone montuose.
6) Le città principali
La maggior parte dei centri urbani è localizzata nel Vietnam meridionale. Tra le città più importanti soltanto la capitale Hanoi (3.057.000 ab.) non sorge sulla costa ma sorge al centro del delta del Fiume Rosso, ed è un importante centro commerciale ed industriale. Altre grandi città sono Ho Chi Minh (3.925.000 ab.) nota in passato come Saigon; è un importante centro commerciale e durante il periodo coloniale fu il centro politico più importante per l’Indocina francese. Le altre città sono Da Nang (371.000 ab.) situata nelle vicinanze della città di Huè (212.000 ab.) e infine Hai Phong (1.448.000 ab.).
7) Lingua e religione
Il vietnamita, lingua ufficiale, è parlato dalla maggioranza della popolazione. Il francese, residuo dell’epoca coloniale, è parlato da una minoranza, mentre nelle regioni interne del paese è diffusa la lingua Khmer. La maggioranza della popolazione vietnamita è di religione buddista, conseguentemente all’influenza cinese. Alla tradizionale religione del buddismo Mahayana si sono aggiunti i culti più recenti di Cao Dai e Hoa Hao. Vengono praticati anche il Confucianesimo, il Taoismo e le relative religioni cinesi, mentre i cattolici sono una minoranza.
8) Istruzione e cultura
In Vietnam tutte le scuole sono state nazionalizzate dopo la riunificazione del paese e l’istruzione è stata resa obbligatoria e gratuita. Le università più importanti sono quella di Hanoi e quelle di Ho Chi Minh e Ban Me Thuot; all’inizio degli anni 90’ si contavano nel paese oltre cento università e istituti di istruzione superiore ai quali erano iscritti circa 129.600 studenti. Il 94% della popolazione adulta è alfabetizzata. La vita culturale del Vietnam ha subito le influenze cinesi fino alla dominazione francese del XIX secolo, che ha introdotto nel paese elementi della cultura occidentale.
Una veduta della baia di Halong (nord del Vietnam)
La storia del Vietnam fino alla Seconda Guerra Mondiale
Nei secoli XVII e XVIII si era sviluppata nella regione indocinese la penetrazione francese, prima sulla traccia delle notizie sulla regione offerte dall'opera di Marco Polo, dai viaggiatori europei e dai missionari cattolici, poi per diretta azione della Compagnia francese delle Indie.
Nel 1887 fu costituita dalla Francia l'Unione indocinese formata dalla colonia della Cocincina e dai protettorati della Cambogia, dell'Annam e del Tonchino. Nel 1893 venne a essi aggregato il Laos strappato al Siam. Lo sfruttamento delle ricchezze indocinesi fu dopo di allora intensificato e l'opera di molti scienziati ed esploratori, fra cui Auguste Pavie, fu messa a frutto per meglio conoscere il paese e le sue possibilità.
L'unione era all'inizio una forma di organizzazione assai approssimata. La ridisegnò nel 1897, trasformando tutti i protettorati nell'unica colonia dell'Indocina francese, Paul Doymer (1857-1932), che ne fu il primo governatore generale fino al 1901. Il Partito comunista indocinese fu subito in testa di un importante rivolta contadina scoppiata nel Vietnam centrale tra il 1930 e il 1931, ma subì una pesante repressione fino al 1936, quando fu legalizzato dal governo di fronte popolare francese.
Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale la Francia si adoperò per mantenere il controllo di tutta la penisola, reputandola vitale sia per le materie prime (gomma, riso, tungsteno), sia per la sua posizione strategica, necessaria a mettere in discussione il predominio britannico in Estremo Oriente.
Nel corso della seconda guerra mondiale l'Indocina francese fu occupata dai giapponesi, contro cui si sviluppò la lotta del movimento di liberazione Viet-Minh: si crearono così le premesse per la vittoriosa offensiva contro il colonialismo francese lanciata dal Viet-Minh nel dopoguerra.
L'azione imperialistica del Giappone tra l'inizio degli anni trenta e la fine della seconda guerra mondiale ebbe come effetto la sostituzione della potenza asiatica alla Francia e all'Inghilterra nel controllo dei possedimenti coloniali nel Sud Est asiatico. Il militarismo giapponese diede così un decisivo impulso al processo di decolonizzazione dell'area asiatica, poiché ridusse il potere coloniale degli stati europei favorendo il sorgere di movimenti nazionalisti e indipendentisti nelle colonie. La precocità del processo di decolonizzazione dell'Asia rispetto al continente africano si spiega anche con la diversa organizzazione politico-sociale dei paesi asiatici, che a differenza di quelli africani, ancora basati su realtà tribali arretrate, si erano dati in passato strutture statali sofisticate e strategie politiche di grande respiro e potevano, nel presente, avvalersi di elevati livelli di istruzione che facilitavano la formazione dei futuri quadri dirigenti.
La decolonizzazione dell'area asiatica si realizzò, comunque, in tempi e con modalità diverse nei singoli paesi: così la forza del movimento indipendentista guidato da Gandhi, portò nel 1947, all’indipendenza dell'India, divisa per ragioni confessionali in due diverse entità statali (l'Unione Indiana e il Pakistan). In Cina l’assenza del controllo europeo, unita alla lotta antigiapponese e alle promesse di autonomia e di indipendenza formulate dagli Alleati nel corso del secondo conflitto mondiale, produsse la riscossa del sentimento nazionale, subito collegandosi all'esigenza di un parallelo riscatto sociale assunto come bandiera dai comunisti di Mao Tse-tung vittoriosi nella guerra civile con i nazionalisti di Chiang Kai-shek. In Indocina l'incapacità francese nel comprendere il mutato corso del mondo fu all'origine di un lungo conflitto armato con le forze nazionaliste (1946-54), che terminò con la sconfitta dei colonialisti a Dien Bien Phu. Ancora nel 1954, gli accordi di Ginevra stabilirono l'indipendenza del Vietnam, dal Laos e dalla Cambogia e la divisione del Vietnam in uno stato ad orientamento comunista a Nord e in uno filo-occidentale a Sud; l'equilibrio estremamente instabile della situazione avrebbe determinato, tra il 1964 e il 1975, la sanguinosa guerra del Vietnam.
Guerra del Vietnam
La guerra che si combatté per oltre dieci anni – fra il ’64 e il ’75 – nel Vietnam rappresentò uno degli strascichi più drammatici del processo di decolonizzazione, ma anche uno dei momenti di scontro più acuto fra gli Stati Uniti, coinvolti direttamente nel conflitto e il mondo comunista, allora diviso dallo scisma russo-cinese ma unito nel sostegno, in armi e aiuti economici, alle forze “anti-imperialiste”.
Gli accordi di Ginevra del ’54 avevano diviso il Vietnam in due Repubbliche: quella del Nord era retta dai comunisti di Ho Chi-minh; quella del Sud era governata dal regime semidittatoriale del cattolico Ngo Dinh Diem, appoggiato dagli americani che cercavano di sostituire la loro influenza a quella francese. Sempre nel Sud si era sviluppato un vasto movimento di resistenza armata, organizzato dal locale partito comunista e denominato Fronte di liberazione nazionale (movimento dei Vietcong), che grazie anche all’invio di armi da parte dei nord-vietnamiti (e, in misura minore, dei cinese e dei sovietici) era riuscito ad acquisire il controllo di numerose regioni del paese.
Di fronte al pericolo di un collasso del regime sud-vietnaminita e preoccupati dalla prospettiva di un’Indocina comunista, gli Stati Uniti decisero di intensificare il loro intervento diretto inviando nel Vietnam del Sud un contingente di “consiglieri militari” che, durante la presidenza Kennedy, si ingrossò fino a raggiungere la consistenza di 30.000 uomini. Sotto la presidenza Johnson, la presenza Usa in Vietnam, compì un vero salto qualitativo, trasformandosi in aperto intervento bellico. A partire dall’estate del ’64, il corpo di spedizione americano fu continuamente rinforzato, fino a contare, nel ’67-68, oltre mezzo milione di uomini.
Le amministrazioni Kennedy e Johnson, nell’impossibilità di dare il via ad una rappresaglia massiccia, che avrebbe scatenato una guerra atomica su vasta scala coinvolgendo Cina e Urss, adottarono una politica basata essenzialmente sull’utilizzo delle forze armate convenzionali.
Il governo di Washington era convinto che la schiacciante potenza militare americana avrebbe travolto rapidamente la resistenza vietnamita e dei suoi alleati. Nel corso delle varie fasi del conflitto, iniziato nel 1963, gli Stati Uniti mobilitarono poco meno di 3 milioni di soldati e sganciarono sul Vietnam una quantità di bombe tre volte superiore a quella impiegata contro la Germania durante la seconda Guerra Mondiale. In realtà la guerra si rivelò, come riconobbe più tardi un alto dirigente americano, “probabilmente il più grande errore compiuto dall’America nella sua storia”. Di fatto dal punto di vista puramente militare gli Stati Uniti non subirono aperte sconfitte, ma dovettero constatare la crescente inefficacia della loro strategia. Tra il 1965 e il 1969 i massicci bombardamenti e le sempre più frequenti operazioni di terra contro il Vietnam del Nord, con l’obiettivo di tagliare i rifornimenti di armi e bloccare l’infiltrazione di nuovi guerriglieri, non riuscirono a indebolire il movimento vietcong che, al contrario, sotto l’abile direzione di un brillante stratega, il generale Giap, riuscì nell’estate 1968, a sferrare un offensiva contro le città sud-vietnamite. La difficoltà maggiore per le truppe americane derivò dal fatto che non combattevano contro un esercito regolare ma dovevano fronteggiare una guerriglia estremamente mobile e inafferrabile, che godeva del largo sostegno della popolazione contadina, e quindi si trovarono intrappolate in una guerra priva di fronti precisi e senza obiettivi strategici chiari.
Il ricorso a metodi sempre più violenti e atroci, come l’utilizzo massiccio di armi chimiche (napalm) o gli attacchi contro villaggi ritenuti centri di organizzazione della guerriglia, non fece che aumentare i costi della guerra in termini di vite umane (si contarono alla fine circe un milione di morti tra i vietnamiti e 60.000 tra i militari americani) e accrescere l’impopolarità degli Stati Uniti senza però volgere a favore degli americani le sorti del conflitto.
Nonostante le forti pressioni dei militari che chiedevano una ulteriore “escalation” della guerra, la nuova amministrazione Nixon, sotto la guida del segretario di Stato Kissinger, iniziò nel 1969 il ritiro graduale dei contingenti militari americani dal Vietnam, lasciando la condotta delle operazioni di terra alle truppe sud-vietnamite. Contemporaneamente vennero avviati negoziati di pace a Parigi, che si protrassero per lunghi mesi mentre la guerra lo seguiva e anzi si intensificavano i bombardamenti americani sul Vietnam del nord, estesi poi anche a Cambogia e Laos. Un accordo di cessate il fuoco tra Vietnam del Nord, Vietnam del Sud e Stati Uniti venne raggiunto soltanto nel gennaio 1973, ma il conflitto di fatto continua fino all’aprile del 1975, quando vietcong e nord-vietnamiti occuparono il Vietnam del Sud e la capitale Saigon, costringendo alla fuga precipitosa le residue truppe americane. La guerra del Vietnam fu un autentico trauma per la società americana che a tutti i livelli ne ha risentito per decenni. Emblematico è il caso dei reduci, giovani appartenenti ad una generazione educata negli agi della società opulenta e tornati in patria con profondissime ferite materiali (si contarono oltre 100.000 mutilati) e psicologiche. Questi fattori contribuirono a spingere Stati Uniti a imboccare con decisione la strada di una politica di “ distensione” delle relazioni internazionali.
I seguenti estratti, riguardanti la guerra del Vietnam, ci fanno comprendere differenti punti di vista.
• “PER NOI ERA UNA GUERRA D’INDIPENDENZA”
Le Ly Hayslip aveva 13 anni quando cominciò la guerra del Vietnam. Era figlia di contadini e visse tutte le atrocità di quella guerra. Con estrema lucidità analizza le motivazioni americane, così lontane dai problemi del suo paese, e l’intricata situazione vietnamita.
Dopo queste lezioni “propedeutiche”, i quadri ci presentavano i due capi vietnamiti che personificavano le diverse posizioni, i poli contrapposti del nostro minuscolo mondo. Al polo meridionale c’era il presidente Ngo Dinh Diem, fedele alleato dell’America, che era cattolico come i francesi. Al Nord, all’altro polo, c’era Ho Chi Minh, che ci incitava a chiamare Bac Ho, “zio Ho”, come si parla di un vecchio amico di famiglia. Non sapevamo niente del suo passato, se non ciò che raccontavano della sua dedizione e del suo amore per il nostro tormentato paese, alla cui indipendenza, ci dicevano, aveva dedicato la sua vita.
Considerate le differenze tra questi due papi, anche qui la scelta di quello che avremmo appoggiato appariva scontata. Ma per conquistare l’indipendenza, insegnava Ho Chi Minh, dovevamo ingaggiare una guerra totale. I suoi quadri ci arringavano: “Dobbiamo essere uniti e combattere l’impero americano! Niente è più prezioso della libertà, dell’indipendenza e della felicità!”.
La storia degli americani è stata diversa: sono venuti in Vietnam, volenti o nolenti, perché il loro paese glielo chiedeva. La maggior parte di essi non conosceva o non comprendeva del tutto le guerre diverse che il mio popolo aveva combattuto. Per loro si trattava di una cosa molto semplice: la democrazia contro il comunismo. Per noi, non era questa la nostra guerra. Come poteva esserlo? Conoscevamo ben poco la democrazia, e meno ancora il comunismo. Per noi era una guerra d’indipendenza, come lo è stata la rivoluzione americana.
Le Ly Hayslip, Quando cielo e terra cambiano posto
• NAPALM U.S.A. SUI VILLAGGI VIETNAMITI
Bertrand Russel promosse una campagna internazionale contro la guerra del Vietnam e un tribunale internazionale sui crimini di guerra.
La grande maggioranza dei contadini appoggia i guerriglieri. Nell’intento di combattere quest’appoggio concesso dalla popolazione, Diem (presidente del governo del Vietnam del Sud dal 1954) e gli americani avevano istituito i cosiddetti “villaggi strategici” nei quali gli abitanti delle zone rurali e dei villaggi già esistenti venivano trasferiti senza preavviso con procedimento crudele. I “villaggi strategici” erano i realtà delle prigioni. Chi era costretto a entrarvi non poteva più uscirne. I “villaggi”, circondati da palizzate, da fossati e da reticolati, venivano pattugliati da guardie accompagnate da cani. Questi agglomerati hanno tutte le caratteristiche dei campi di concentramento. Secondo l’Observer, il sessantacinque per cento della popolazione, qualcosa come sette milioni di persone si trovava in questi villaggi alla metà del 1963.
Il Dipartimento di Stato smentì l’impiego dei prodotti chimici nel Vietnam e il New York Times ammise che erano stati usati degli erbicidi, precisando peraltro che il napalm non veniva impiegato dagli americani, ma soltanto dalle forze armate del governo vietnamita.
Il New York Times dimenticava per altro le notizie da esso pubblicate che parlavano della distruzione di quasi millequattrocento villaggi da parte delle forze governative. Nel corso di quest’azione distruttiva erano stati impiegati napalm e prodotti chimici.
B. Russel, Crimini di guerra nel Vietnam
Opposizione alla guerra
Un'opposizione alla guerra su piccola scala iniziò nel 1964 nei campus delle università. Ciò avvenne durante un periodo senza precedenti di attivismo politico studentesco di sinistra, e con l'arrivo all'età dell'università, della numerosa generazione dei cosiddetti "Baby Boomers". La crescente opposizione alla guerra è attribuibile in parte al più ampio accesso alle informazioni sul conflitto, disponibile agli americani in età universitaria, se confrontato con quello delle generazioni precedenti, soprattutto grazie all'estesa copertura televisiva.
Migliaia di giovani americani scelsero l'auto-esilio in Canada o in Svezia, piuttosto che rischiare la coscrizione. A quel tempo, solo una frazione di tutti gli uomini in età di leva venivano effettivamente chiamati alle armi; gli uffici del sistema di reclutamento, in ogni località, avevano ampia discrezionalità su chi arruolare e chi dispensare, in quanto non c'erano delle linee guida chiare per l'esonero. Le accuse di ingiustizia portarono all'istituzione di una "lotteria di leva" per l'anno 1970, nella quale, il giorno di nascita di un ragazzo, determinava il rischio relativo di essere arruolato.
Allo scopo di guadagnarsi l'esenzione o il rinvio, molti ragazzi ottennero un rinvio studentesco frequentando l'università, anche se ci dovevano rimanere fino al compimento del 26° compleanno, per essere sicuri di evitare l'arruolamento. Alcuni si sposarono, il che rimase motivo di esenzione per tutto il corso della guerra. Altri trovarono dei dottori accondiscendenti che sostenevano le basi mediche per una esenzione "4F" (inadeguatezza mentale), anche se i medici dell'esercito potevano dare, e davano, un loro giudizio. Altri ancora si unirono alla Guardia Nazionale o entrarono nei Corpi della Pace, come sistema per evitare il Vietnam. Tutte queste questioni sollevarono preoccupazioni sull'imparzialità con cui le persone venivano scelte per un servizio non volontario, in quanto toccava spesso ai poveri o a quelli che non avevano appoggi, di essere arruolati. Un’esenzione certa veniva data da una convincente dichiarazione di omosessualità, ma in pochi tentarono questa strada, a causa dell'etichettatura che tale dichiarazione comportava.
Gli arruolati stessi iniziarono a protestare, quando il 15 ottobre 1965, l'organizzazione studentesca "Comitato di coordinamento nazionale per la fine della guerra in Vietnam", inscenò la prima manifestazione pubblica negli USA, in cui vennero bruciate le cartoline di leva. La prima "lotteria di leva" negli USA, dalla seconda guerra mondiale, si tenne il 1 dicembre 1969 e fu accolta da grandi proteste e controversie; l'analisi statistica indicò che la metodologia di estrazione svantaggiava involontariamente i ragazzi nati verso la fine dell'anno. La questione venne trattata estesamente in un articolo del New York Times del 4 gennaio 1970 intitolato: "Gli statistici accusano che la lotteria di leva non è casuale".
Molti di quelli che non ricevettero mai un rinvio o un'esenzione, non prestarono servizio. Questo semplicemente perché il parco degli eleggibili era enorme, se comparato al numero di persone richieste per il servizio, e gli uffici di leva non si ponevano il problema di arruolarli o perché era disponibile una nuova annata di leva (fino al 1969) o perché avevano un numero della lotteria troppo alto (dal 1970 in poi). La popolazione statunitense si polarizzò attorno alla guerra. Molti sostenitori della guerra ritenevano corretta quella che era conosciuta come la "Teoria del domino", la quale sosteneva che se il Vietnam del Sud cedeva alla guerriglia comunista, altre nazioni, principalmente nel Sud-est Asiatico, sarebbero cadute in rapida successione, come pezzi del domino appunto. I militari critici verso la guerra puntualizzarono che il conflitto era politico e che la missione militare mancava di obiettivi chiari. I critici civili argomentarono che il governo del Vietnam del Sud mancava di legittimazione politica, o che il supporto alla guerra era immorale.
Le agghiaccianti immagini di due attivisti pacifisti che si diedero fuoco nel novembre 1965, fornirono un simbolo di quanto fortemente alcune persone ritenessero che la guerra era immorale. Il 2 novembre il 32-enne Quacchero, Norman Morrison si diede fuoco davanti al Pentagono e il 9 novembre il 22-enne cattolico Roger Allen LaPorte fece lo stesso davanti al palazzo delle Nazioni Unite. Entrambe le proteste erano consapevoli imitazioni di proteste simili condotte in precedenza da monaci buddisti nel Vietnam del Sud.
Il crescente movimento pacifista allarmò molti all'interno del governo statunitense. Il 16 agosto 1966 il Comitato della Camera sulle Attività Antiamericane iniziò le indagini sugli americani che erano sospettati di aiutare i Viet Cong, con l'intenzione di introdurre una legislazione che rendesse queste attività illegali. I dimostranti pacifisti interruppero l'incontro e in 50 vennero arrestati.
Il 1 febbraio 1968, un sospetto ufficiale Viet Cong venne giustiziato sommariamente da Nguyen Ngoc Loan, un capo della polizia nazionale sudvietnamita. Loan sparò in testa al sospettato, sulla pubblica piazza, davanti a dei giornalisti. L'esecuzione venne filmata e fotografata e fornì un'altra immagine simbolo che aiutò a far spostare l'opinione pubblica statunitense contro la guerra.
Il 15 ottobre 1969, centinaia di migliaia di persone presero parte alla dimostrazione pacifista a livello nazionale detta "National Moratorium".
Gli USA realizzarono che il governo sudvietnamita necessitava di una solida base di supporto popolare, se voleva sopravvivere all'insurrezione. Allo scopo di ottenere questo obiettivo di "vincere i cuori e le menti" dei vietnamiti, unità dell'esercito statunitense, indicate come unità per gli "Affari Civili", vennero utilizzate estensivamente, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale. Queste unità, pur rimanendo armate e sotto diretto controllo militare, si impegnarono in quella che venne definita la "costruzione di una nazione": costruendo (o ricostruendo) scuole, edifici pubblici, strade e altre infrastrutture fisiche; conducendo programmi medici per i civili che non avevano accesso alle strutture mediche; facilitando la cooperazione tra i vari leader civili locali; conducendo corsi di formazione per i civili e attività simili.
Questa politica del cercare di vincere i "cuori e le menti" del popolo vietnamita, comunque, si scontrò spesso con altri aspetti della guerra che servirono ad inimicarsi molti civili. Questi comprendevano l'enfasi sulla "conta dei corpi", come mezzo per misurare il successo militare sul campo di battaglia, il bombardamento di villaggi (simboleggiato dalla famosa frase del giornalista Peter Arnett, "fu necessario distruggere il villaggio, allo scopo di salvarlo"), e l'uccisione di civili in incidenti come il Massacro di My Lai. Nel 1974 il documentario "Hearts and Minds" ("cuori e menti") affrontò questi problemi, e vinse un Premio Oscar al miglior documentario tra notevoli controversie. Anche il governo sudvietnamita si inimicò molti cittadini con la soppressione delle opposizioni politiche, attraverso misure come la detenzione di molti prigionieri politici, e il tenere elezioni presidenziali con un solo candidato nel 1971.
Nonostante le notizie sempre più deprimenti sulla guerra, molti americani continuarono ad appoggiare gli sforzi del Presidente Johnson. A parte la teoria del domino, precedentemente menzionata, era diffuso il sentimento che impedire una conquista del governo filo-occidentale sudvietnaminta, da parte dei comunisti, fosse un obiettivo nobile. Molti americani erano anche preoccupati di "salvare la faccia" in caso di un disimpegno dalla guerra o, come venne successivamente detto da Nixon, "ottenere la pace con onore".
Comunque anche i sentimenti contro la guerra iniziarono a crescere. Molti americani si opposero alla guerra per questioni morali, vedendola come un conflitto distruttivo contro l'indipendenza vietnamita, o come un intervento in una guerra civile straniera; altri la opposero perché sentivano che mancava di obiettivi chiari e appariva come non vincibile. Alcuni attivisti pacifisti erano essi stessi veterani del Vietnam, come evidenziato dall'organizzazione Veterani del Vietnam Contro la Guerra.
Molti degli oppositori alla Guerra del Vietnam erano visti all'epoca, e sono visti tuttora, più come sostenitori dei vietnamiti che come contrari alla guerra; il più famoso di questi fu l'attrice Jane Fonda. Molti dei contestatori vennero accusati di "sputare sui soldati del Vietnam" dopo il loro ritorno; comunque, la validità di queste accuse è obiettabile.
Nel 1968, Lyndon Johnson iniziò la sua campagna di rielezione. Un membro del suo stesso partito, Eugene McCarthy, corse contro di lui per la candidatura, con una piattaforma contro la guerra. McCarthy non vinse le iniziali elezioni primarie nel New Hampshire, ma fece sorprendentemente bene contro il Presidente in carica. Il colpo che ne risultò per la campagna di Johnson, preso assieme ad altri fattori, portò il Presidente, in un discorso televisivo del 31 marzo, ad annunciare il suo ritiro dalla corsa elettorale. Sempre nello stesso discorso annunciò anche l'avvio dei colloqui di pace di Parigi con il Vietnam. Quindi, il 4 agosto 1969, il rappresentante statunitense Henry Kissinger e quello nordvietnamita Xuan Thuy iniziarono dei negoziati segreti di pace, nell'appartamento parigino dell'intermediario francese Jean Sainteny. I negoziati comunque fallirono.
Afferrando l'opportunità creata dall'abbandono di Johnson, Robert Kennedy entrò in scena concorrendo alla candidatura, anch'egli con una piattaforma pacifista. Il vice di Johnson, Hubert Humphrey, si candidò invece promettendo di continuare l'appoggio al governo del Vietnam del Sud.
Kennedy venne assassinato in quella stessa estate, ed Eugene McCarthy non fu in grado di vincere il supporto di cui Humphrey godeva, all'interno dell'elite del partito. Humphrey vinse la candidatura e corse contro Richard Nixon nell'elezione generale. Durante la campagna, si disse che Nixon avesse sostenuto di conoscere un piano segreto per porre fine alla guerra; questo fatto non avvenne mai. Si pensò che ciò fosse accaduto perché, a un certo punto, il suo avversario per la candidatura repubblicana, Gov. George Romney del Michigan, gli chiese: "Dov'è il tuo piano segreto?"
L'opposizione alla guerra del Vietnam in Australia si svolse su linee simili a quelle degli USA, in particolare con l'opposizione alla coscrizione. Mentre il disimpegno australiano iniziò nel 1970 sotto John Gorton, non fu fino all'elezione di Gough Whitlam, nel 1972, che l'arruolamento di leva ebbe fine.

Kennedy ucciso sulla Dallas Street
La guerra e i documenti storici: estratti dal Corriere della Sera
• 3 agosto 1964
ATTACCO NEL GOLFO DEL TONCHINO
Un grande incidente navale si è verificato oggi nelle acque del golfo del Tonchino, che bagnano le coste del Nord del Vietnam a occidente e quelle della Cina comunista a nord, e nelle quali è l'isola cinese di Hainan. Il cacciatorpediniere americano Maddox è stato attaccato da tre torpediniere di nazionalità sconosciuta con siluri e con armi di bordo. L'unità ha risposto all'attacco e, con l'aiuto dei caccia di una portaerei, ha messo in fuga gli aggressori. Una delle torpediniere è stata colpita e immobilizzata mentre le altre due hanno potuto proseguire la navigazione a velocità ridotta. Nessun danno a bordo del cacciatorpediniere americano (...) Le torpediniere, che hanno attaccato il Maddox non recavano contrassegni che consentissero di stabilire la loro nazionalità, ma è opinione generale che si sia trattato di unità del Vietnam del Nord (...)
Il comandante americano per il Pacifico, ammiraglio Gant Sharp, è stato avvertito dell'attacco mentre stava rientrando al suo quartier generale di Pearl Harbour da un'ispezione nel Sud Vietnam. "Questo incidente potrebbe portare un cambiamento dell'attuale situazione e potrebbe acuire l'attuale crisi nel Vietnam", ha dichiarato l'ammiraglio ai giornalisti scendendo dall'aereo. (...) Finora nessun commento è stato fatto dalla Casa Bianca a proposito del grave incidente. Si apprende d'altra parte che il governo del nord Vietnam ha protestato oggi per un'incursione di quattro cacciabombardieri americani contro un villaggio situato non lontano dal confine con il Laos. (...)
• 16 novembre 1969
WASHINGTON PARALIZZATA DAI MANIFESTANTI
di Franco Occhiuzzi
La capitale è rimasta paralizzata da un folla di pacifisti: 250 mila secondo la polizia, ma più di 300 mila secondo gli organizzatori di queste tre giornate di protesta contro la guerra del Vietnam. I manifestanti sono affluiti a Washington con ogni mezzo per partecipare alla marcia "contro contro la morte". Migliaia di persone con zaini pieni di cibo, sacchi a pelo e manifesti contro la guerra sono partiti durante la notte da New York e da decine di altre città americani diretti a Washington, la maggior parte dei manifestanti ha viaggiato a bordo noleggiati appositamente dal "Comitato per la moratoria della guerra in Vietnam" e da altre organizzazioni. (...) La marcia ha preso'avvio dal cimitero nazionale di Arlington. Ognuno dei partecipanti ha ritirato un cartello con il nome di uno dei 46 mila soldati americani caduti nel Vietnam. Altre marce sono state organizzate in città della costa del Pacifico (...). Ad Hollywood l'attore cinematografico Peter Fonda si è messo all'ingresso di un cinema invitando la gente a boicottare il film "Easy Rider" da lui interpretato in segno di protesta contro la guerra del Vietnam. Anche altri attori di Hollywood, fra i quali Paul Newman (...) hanno chiesto al pubblico di non recarsi a vedere i loro film durante il periodo di dimostrazioni contro la guerra in Vietnam.
• 24 gennaio 1973
LA PACE NEL VIETNAM
Il presidente Nixon ha annunciato questa sera alla nazione che a Parigi è stato siglato da Kissinger e dal negoziatore nordvietnamita Le Duc Tho un accordo per il Vietnam, e ha annunciato il cessate il fuoco comincerà alle ore 1 (italiane) di domenica 28 gennaio. La firma solenne dell'accordo avverrà sabato a Parigi. L'annuncio dell'accordo è stato dato contemporaneamente a Saigon e ad Hanoi. Il Presidente americano nella sua allocuzione, ha aggiunto che gli Stati Uniti hanno ottenuto quello che egli aveva promesso cioè una "pace con onore" (...). Il Presidente ha aggiunto che la soluzione rispetta anche gli obiettivi del presidente sudvietnamita Van Thieu e di tutti gli altri alleati, i quali hanno approvato. Tutti i soldati americani in Vietnam verranno ritirati entro 60 giorni dalla firma e tutti i prigionieri di guerra verranno liberati entro due mesi. Il Presidente ha concluso "Continueremo ad aiutare i sudvietnamiti e tutti gli altri popoli del Sudest asiatico". Scene di giubilo sono avvenute in tutti gli Usa. A Saigon il presidente Thieu ha detto che Hanoi è stata costretta a riconoscere che il Vietnam del Nord e il Vietnam del Sud sono due Paesi separati e a riconoscere al tempo stesso la sovranità del Vietnam del Sud.
• 30 marzo 1975
L'AMERICA LASCIA IL VIETNAM
di Ugo Stille
La vicenda del Vietnam, che per un decennio ha dominato e lacerato la vita americana, creando negli Stati Uniti una profonda crisi, al tempo stesso politica, psicologica e morale, si è chiusa oggi con un epilogo drammatico e rapido. Nel corso della notte, dopo una riunione di emergenza alla Casa Bianca del consiglio nazionale di sicurezza, il presidente Ford ha ordinato l'evacuazione immediata e totale degli ultimi americani (circa 900) rimasti a Saigon. La manovra di evacuazione, condotta con l'impiego di 80 elicotteri, sotto la protezione degli aerei della squadra del Pacifico, è durata meno di venti ore (...) Subito dopo la dichiarazione della Casa Bianca il segretario di Stato Kissinger ha tenuto una conferenza stampa durante la quale ha dichiarato che l'operazione di sgombero è stata preceduta da contatti con Hanoi e il governo rivoluzionario provvisorio del Sud Vietnam e anche l'URSS ha fornito "un certo aiuto". (...) Rimangono tuttavia ancora da chiarire le circostanze che hanno accelerato i tempi dell'epilogo, dando ad esso il carattere di un'improvvisa operazione di emergenza. (...)
Gli interrogativi ancora non risolti riguardano gli sviluppi che nelle ventiquattro ore hanno creato una "situazione di emergenza" e costretto Washington ad accelerare i tempi dell'evacuazione. L'impressione nella capitale è che l'emergenza è stata il prodotto di due sviluppi intrecciati: il primo è che Hanoi e i Vietcong hanno posto come condizione assoluta per l'inizio di negoziati armistiziali con Saigon il ritiro di tutti gli americani dal Sud Vietnam; il secondo è che si è avuto un crollo improvviso del dispositivo militare sudvietnamita.

Le immagini più toccanti della guerra del Vietnam.
Strutture Vietcong colpite dagli americani.
Marcia di protesta a Washington, primi anni 70.
Celebre istantanea firmata Nick Ut, premio Pulitzer 1972, ritrae la piccola vietnamita Kim Phuc in fuga da un bombardamento al napalm del suo villaggio, Trang Bang. Questa fotografia che è diventata un simbolo delle atrocità della guerra del Vietnam sconvolse gli Usa e il mondo: oggi quella bambina, Phan Thi Kim Puc, vive in America, è moglie e madre, e ha chiamato il figlio Huan, Speranza.
I Presidenti americani
Le truppe americane I presidenti Kennedy e Johnson
Caduti Viet Cong Dimostrazione contro la guerra in Vietnam
La guerra e i documenti storici: estratti dal Corriere della Sera
3 agosto 1964
ATTACCO NEL GOLFO DEL TONCHINO
Un grande incidente navale si è verificato oggi nelle acque del golfo del Tonchino, che bagnano le coste del Nord del Vietnam a occidente e quelle della Cina comunista a nord, e nelle quali è l'isola cinese di Hainan. Il cacciatorpediniere americano Maddox è stato attaccato da tre torpediniere di nazionalità sconosciuta con siluri e con armi di bordo. L'unità ha risposto all'attacco e, con l'aiuto dei caccia di una portaerei, ha messo in fuga gli aggressori. Una delle torpediniere è stata colpita e immobilizzata mentre le altre due hanno potuto proseguire la navigazione a velocità ridotta. Nessun danno a bordo del cacciatorpediniere americano (...) Le torpediniere, che hanno attaccato il Maddox non recavano contrassegni che consentissero di stabilire la loro nazionalità, ma è opinione generale che si sia trattato di unità del Vietnam del Nord (...)
Il comandante americano per il Pacifico, ammiraglio Gant Sharp, è stato avvertito dell'attacco mentre stava rientrando al suo quartier generale di Pearl Harbour da un'ispezione nel Sud Vietnam. "Questo incidente potrebbe portare un cambiamento dell'attuale situazione e potrebbe acuire l'attuale crisi nel Vietnam", ha dichiarato l'ammiraglio ai giornalisti scendendo dall'aereo. (...) Finora nessun commento è stato fatto dalla Casa Bianca a proposito del grave incidente. Si apprende d'altra parte che il governo del nord Vietnam ha protestato oggi per un'incursione di quattro cacciabombardieri americani contro un villaggio situato non lontano dal confine con il Laos. (...)
16 novembre 1969
WASHINGTON PARALIZZATA DAI MANIFESTANTI
di Franco Occhiuzzi
La capitale è rimasta paralizzata da un folla di pacifisti: 250 mila secondo la polizia, ma più di 300 mila secondo gli organizzatori di queste tre giornate di protesta contro la guerra del Vietnam. I manifestanti sono affluiti a Washington con ogni mezzo per partecipare alla marcia "contro contro la morte". Migliaia di persone con zaini pieni di cibo, sacchi a pelo e manifesti contro la guerra sono partiti durante la notte da New York e da decine di altre città americani diretti a Washington, la maggior parte dei manifestanti ha viaggiato a bordo noleggiati appositamente dal "Comitato per la moratoria della guerra in Vietnam" e da altre organizzazioni. (...) La marcia ha preso l'avvia dal cimitero nazionale di Arlington. Ognuno dei partecipanti ha ritirato un cartello con il nome di uno dei 46 mila soldati americani caduti nel Vietnam. Altre marce sono state organizzate in città della costa del Pacifico (...). Ad Hollywood l'attore cinematografico Peter Fonda si è messo all'ingresso di un cinema invitando la gente a boicottare il film "Easy Rider" da lui interpretato in segno di protesta contro la guerra del Vietnam. Anche altri attori di Hollywood, fra i quali Paul Newman (...) hanno chiesto al pubblico di non recarsi a vedere i loro film durante il periodo di dimostrazioni contro la guerra in Vietnam.
24 gennaio 1973
LA PACE NEL VIETNAM
Il presidente Nixon ha annunciato questa sera alla nazione che a Parigi è stato siglato da Kissinger e dal negoziatore nordvietnamita Le Duc Tho un accordo per il Vietnam, e ha annunciato il cessate il fuoco comincerà alle ore 1 (italiane) di domenica 28 gennaio. La firma solenne dell'accordo avverrà sabato a Parigi. L'annuncio dell'accordo è stato dato contemporaneamente a Saigon e ad Hanoi. Il Presidente americano nella sua allocuzione, ha aggiunto che gli Stati Uniti hanno ottenuto quello che egli aveva promesso cioè una "pace con onore" (...). Il Presidente ha aggiunto che la soluzione rispetta anche gli obiettivi del presidente sudvietnamita Van Thieu e di tutti gli altri alleati, i quali hanno approvato. Tutti i soldati americani in Vietnam verranno ritirati entro 60 giorni dalla firma e tutti i prigionieri di guerra verranno liberati entro due mesi. Il Presidente ha concluso "Continueremo ad aiutare i sudvietnamiti e tutti gli altri popoli del Sudest asiatico". Scene di giubilo sono avvenute in tutti gli Usa. A Saigon il presidente Thieu ha detto che Hanoi è stata costretta a riconoscere che il Vietnam del Nord e il Vietnam del Sud sono due Paesi separati e a riconoscere al tempo stesso la sovranità del Vietnam del Sud.
30 marzo 1975
L'AMERICA LASCIA IL VIETNAM
di Ugo Stille
La vicenda del Vietnam, che per un decennio ha dominato e lacerato la vita americana, creando negli Stati Uniti una profonda crisi, al tempo stesso politica, psicologica e morale, si è chiusa oggi con un epilogo drammatico e rapido. Nel corso della notte, dopo una riunione di emergenza alla Casa Bianca del consiglio nazionale di sicurezza, il presidente Ford ha ordinato l'evacuazione immediata e totale degli ultimi americani (circa 900) rimasti a Saigon. La manovra di evacuazione, condotta con l'impiego di 80 elicotteri, sotto la protezione degli aerei della squadra del Pacifico, è durata meno di venti ore (...) Subito dopo la dichiarazione della Casa Bianca il segretario di Stato Kissinger ha tenuto una conferenza stampa durante la quale ha dichiarato che l'operazione di sgombero è stata preceduta da contatti con Hanoi e il governo rivoluzionario provvisorio del Sud Vietnam e anche l'URSS ha fornito "un certo aiuto". (...) Rimangono tuttavia ancora da chiarire le circostanze che hanno accelerato i tempi dell'epilogo, dando ad esso il carattere di un'improvvisa operazione di emergenza. (...)
Gli interrogativi ancora non risolti riguardano gli sviluppi che nelle ventiquattro ore hanno creato una "situazione di emergenza" e costretto Washington ad accelerare i tempi dell'evacuazione. L'impressione nella capitale è che l'emergenza è stata il prodotto di due sviluppi intrecciati: il primo è che Hanoi e i Vietcong hanno posto come condizione assoluta per l'inizio di negoziati armistiziali con Saigon il ritiro di tutti gli americani dal Sud Vietnam; il secondo è che si è avuto un crollo improvviso del dispositivo militare sudvietnamita.
BEAT GENERATION
Il termine "Beat Generation" fu coniato da Jack Kerouac alla fine degli anni Quaranta. La parola "beat" è variamente connotata, è per esempio la prima parte della parola "beatitude": "Non siamo dei bohèmiens, se ne ricordi. Beat vuol dire beatitudine, non battuto" dice Kerouac, citato da Clellon Holmes nel suo Philosophy of the Beat Generation (Esquire, 1958), e «Beatitude» è il titolo di una rivista beat nata nel 1959. Ma "beaten" significa anche abbattuto, scoraggiato, alla deriva. "Beat" è anche battito, ritmo, come veniva riscoperto in quegli anni attraverso il jazz e la poesia recitata nei "readings".
I beat, o beatniks come verranno chiamati alla fine degli anni Cinquanta coniugando le parole "beat" e "sputnik", rinunciano al progetto di una vita quieta, dedita al lavoro produttivo e al consumo, rifiutano il lavoro fisso, gli orari, la fissa dimora, vivono da soli o in gruppo in qualche topaia metropolitana ma conquistano per se stessi uno spazio nuovo: l’arte di dire e di scrivere trova nella strada il luogo proprio e l’origine di ogni ispirazione, di ogni possibile bellezza.
La musica è il jazz, che rompe con l’armonia delle sale da concerto; il sesso è vissuto e proposto come essenziale e sacro, l’uso dell’alcool e della droga serve ad aprire la coscienza e il buddismo zen pare essere l’unica religione tollerabile perché rispettosa dell’individuo, della sua differenza e non omologabilità alla massa.
JACK KEROUAC
Nato a Lowell (Massachusetts) nel 1922. Interrotti gli studi universitari, vagabondò per gli Stati Uniti facendo vari mestieri: marinaio, frenatore ferroviario, guardia forestale: sulle tracce degli scrittori che amava, Jack London, Hemingway, Th. Wolfe. Intorno al 1950 conobbe Ginsberg e Burroughs: praticò con loro, tra New York e San-Francisco, quello che poi divenne il modello di vita della beat-generation: nomadismo, rifiuto dell'opulenza nordamericana, ricerca di nuove dimensioni visionarie nella droga. Nel 1961, stanco di essere una figura pubblica, si ritirò in una capanna non lontana dalla costa della California. Conbbe inoltre Neal Cassidy, la cui influenza lasciò un’impronta incisiva su Kerouac: la sua totale mancanza di inibizione, il suo entusiasmo l’amore per l’avventura facevano sembrare Cassidy un idolo agli occhi di Kerouac.
I libri successivi hanno forte carattere autobiografico. I sotterranei (The subterraneans, 1958) è una allucinata cronaca poetica della vita dei beat di San-Francisco. I vagabondi del Dharma (The Dharma bums, 1958) documenta l'interesse di Kerouac per le filosofie orientali.
Nel ritiro isolato scelto nel 1961, seguendo il modello letterario di Thoureau di "Walden", compose uno dei suoi romanzi più intensi, dominato da un forte senso musicale della lingua: Big Sur (1962), bilancio di una sconfitta che si riscatta nella novità della scrittura.
Morì a Saint-Petersburg (Florida) nel 1969
LE OPERE
Il primo romanzo di Jack Kerouac “The Town and the City” scritto nel 1942 viene pubblicato nel 1950: il ritardo nella pubblicazione delle proprie opere è comune anche a Ginsberg e in generale a tutti gli scrittori e poeti beat, che vivono la loro ricerca poetica in completa simbiosi con la loro esperienza personale interessati più a nuove modalità di espressione piuttosto che alla fama e al riconoscimento letterario dei critici contemporanei, peraltro mai ricevuto.
Effettivamente il debutto dello scrittore sul panorama letterario rappresentò l’unico successo riscosso presso la critica dovuto ad una sostanziale adesione a livello stilistico e formale al gusto dell’epoca. Egli, ispirandosi alla narrativa di Thomas Wolfe, non brilla ancora dell‘originalità stilistica del Kerouac migliore in capolavori come Sulla strada, benché accenni la trattazione di tematiche tipiche della sua produzione.
La scrittura di Kerouac nella sua piena maturità rifiuta il ruolo del narratore onnisciente e ripiega su uno stile definito dai critici naive, infantile e “barbaro”. In realtà Kerouac si abbandona ad una scrittura permeata di energia fisica e del gusto per il ritmo jazz. Evita di soffermarsi sugli aspetti tecnici, lasciandosi andare completamente alla sua spontaneità inventiva in una sorta di “improvvisazione” creativa stimolata dagli effetti allucinogeni delle droghe, paragonabile alla stesura di uno standard jazz. Kerouac riporta sulla carta ciò che colpisce la sua mente opponendosi decisamente alla teoria dell’impersonalità di Eliot.La sua attenzione per la lingua quotidiana, gergale fortemente personale, lo slang chiamato anche “hip language”o”hip talk”costituisce una critica a quel linguaggio pedante e conservatore della letteratura precedente.
Infatti, l‘autore volge lo sguardo dalle avanguardie artistiche e musicali del periodo: da Charlie Parker, the “Bird” il sassofonista più famoso di quegli anni, trae il senso del ritmo che si manifesta in svolte di incredibile violenza e tensione narrativa per poi addolcirsi in accenti più meditativi e lenti, proprio come vuole la tradizione jazzistica. Alle atmosfere fumose dei locali jazz e alle intense performance dei musicisti neri Kerouac dedicherà intere pagine.
Altro punto di riferimento è Jackson Pollock, un pittore americano avanguardista, che per calarsi fisicamente all’interno dell’opera elimina il cavalletto e si affida al dripping, al rifiuto della revisione, alla gestualità. Allo stesso modo Kerouac si serve di una telescrivente al posto di una semplice macchina da scrivere, per evitare di sostituirne i fogli; inoltre egli usa la tecnica dello sketching, anche questa di derivazione pittorica, in cui rappresenta la realtà in tratti impressionistici in rapide annotazioni di grande potere evocativo soffermandosi ossessivamente sugli oggetti della vita quotidiana(anticipa così la pop-art di Warhol).
Lo scrittore non rinuncia a trarre spunto dalla grande letteratura inglese e americana ottocentesca. Infatti, ripercorre lo stile di Wordsworth, poeta romantico inglese, che prediligeva una trascrizione sulla pagina delle emozioni provocate da un evento quotidiano apparentemente banale. Da Yeats cita il modello della scrittura “in trance”, stimolata dal consumo di sostanze stupefacenti. Per quanto riguarda il linguaggio usato la prosa di Mark Twain ha una notevole influenza sulla capacità inventiva dell’autore beat, capace di creare neologismi dettati da libere associazioni sonore prima che linguistiche, di conferire maggiore dignità all’uso del dialetto, del linguaggio colloquiale e “popolare”, proprio come fecero un tempo i poeti laghisti inglesi dell’Ottocento.
Anche la letteratura del Novecento assume un ruolo importante: infatti pure Keroauc, come Joyce e la Woolf, si permette di eliminare i nessi grammaticali e sintattici per riportare sulla carta il flusso disordinato del pensiero, rompendo le barriere razionali che separano il conscio dall’inconscio. Un altro dato rilevante è rappresentato dall’assenza di ogni atteggiamento moralistico e didascalico: Kerouac riproduce la realtà così com’è, senza la pretesa di giudicare.
Lo scrittore si riallaccia nuovamente alla tradizione americana nella scelta dei contenuti, ponendo come nodo narrativo centrale un filone tipicamente americano il tema del viaggio, della conquista dello spazio e dell’urbanizzazione, dell’abbandono delle sicurezze della campagna, il tutto visto con gli occhi di un “recorder” d’immagini. Tema molto caro a Keroauc è il mondo afroamericano immerso nell’atmosfera jazz, che emana il fascino irresistibile di una vitalità senza limiti e la capacità di conservare la propria cultura a distanza di 3 secoli dalla deportazione dall’Africa. In realtà egli è interessato al “diverso”, che si incarna ora in un vagabondo ora in un nero, stimolando il suo slancio di immedesimazione con quella fetta di emarginati, così vicina alla sua sensibilità (non bisogna dimenticare che egli nasce in una famiglia di franco- canadesi).
L’emarginazione, la minoranza etnica ed infine l’immagine dell’escluso si ricollega con il suo rifiuto degli ideali borghesi, di una vita monotona e convenzionale: in tutti i suoi romanzi i protagonisti sono i tipici beatniks dalla vita segnata dall’alcool e dalle droghe, da relazioni amorose portate all’estremo, ad una fisicità che avrebbe scandalizzato i perbenisti dell’epoca.
Il suo secondo è più famoso romanzo, On the Road, è stato scritto tra il ’48 e il ’51 ma viene pubblicato solo nel ’57 in seguito ad un’incisiva operazione di editing da parte della Viking Press, riscuotendo un enorme successo presso il pubblico di lettori, ottenuto grazie alla sua capacità di cogliere le tensioni e le aspirazioni dei giovani dell’epoca degli anni sessanta in Europa ed in America.
Il protagonista del libro Sal Paradise è un giovane newyorkese con ambizioni letterarie che incontra Dean Moriarty, un ragazzo dell’ Ovest. Uscito dal riformatorio, Dea comincia a girovagare sfidando le regole della vita borghese, sempre alla ricerca di esperienze intense: lunghe conversazioni con gli amici che durano fino al mattino, uso di droghe, una vita sregolata priva di tabù sessuali, la frequentazione dei clubs jazz. Dean decide di partire per l’Ovest e Sal lo raggiunge a Denver. E’ il primo di una serie di lunghi viaggi: San-Francisco,Los-Angeles,Texas,Mexico. Sono esperienze che imprimono una dimensione nuova alla vita di Sal e gli rivelano la sua disposizione per ritmi più normali. La fuga continua di Dean, la sua impossibilità di evitare il nomadismo, hanno in sé una primigenia energia, gli conferiscono una statura eroica: al non può fare a meno di ammirarlo, anche quando, in preda alla febbre a Mexico-city viene abbandonato dall’amico che torna negli Stati Uniti.
Sulla Strada è il capolavoro di Kerouack, l’opera in cui riassume tutti temi più cari: la vita nomade ed avventurosa alla ricerca di colmare un vuoto interiore che è quello di un’intera generazione, il consumo di stupefacenti, la partecipazione emotiva all’esecuzione di un brano jazz.Il romanzo manca di un filo narrativo centrale e si presenta come una serie di episodi legati l’uno all’altro da tre elementi principali: il tema del viaggio simbolo della fuga dalla città e dal proprio passato, il narratore Sal Paradise che rappresenta Kerouac stesso, il gruppo d’amici che vaga inquieto senza meta.
Il libro è fortemente autobiografico: può essere considerato un’elaborazione creativa delle esperienze dell’autore nei suoi lunghi viaggi assieme all’amico Neal Cassidy che peraltro ha ispirato l’autore nel creare la figura carismatica di Dean.
Dal punto di vista stilistico Kerouac raggiunge l’apice della sua abilità utilizzando la tecnica dell’Hip Talk e dell’improvvisazione creativa ricreando con straordinaria abilità la musica jazz.
Visions of Cody, si distingue da subito per la sua novità letteraria. Protagonista del libro è ancora una volta Neal Cassady, il migliore amico di Kerouac, che appare con lo pseudonimo di Cody Pomeray e rappresenta la cultura degli “Hoboes”, dei vagabondi, caratteristica della storia americana. La sua è una cultura di uno stampo popolare, che presenta molte analogie con lo scrittore Jack London .A contatto con la personalità esplosiva del compagno d’avventure, la fantasia dell’artista si accende e vive i suoi momenti migliori, senza però trascurare quasi per compensare l’irregolare e trascinante energia di Cassady-Pomeray introduce nel libro tutta una serie di citazioni letterarie tra cui riferimenti alla Bibbia, a Melville, a Joyce al fine di rendere più credibile il vitalismo del protagonista.
A livello formale si cimenta in una straordinaria libertà sintattica che include, a volte, il ricorso a forme arcaiche e all’uso di un linguaggio in cui ogni improvvisazione è consentita.
Gli altri romanzi che precedono cronologicamente On the Road, pur essendo di notevole interesse, non raggiungono l’eccellenza. Doctor Sax avrebbe dovuto essere nelle intenzioni dello scrittore il seguito di Visions of Cody, anche se questa volta il protagonista è William Burroughs.Il romanzo costituisce comunque un’opera sperimentale, anche se utilizza delle strutture sintattiche arcaiche. La trama è incentrata sul rapporto tra un ragazzo ed un alchimista, il Dottor Sax. Malgrado la vasta conoscenza di libri e film dell’orrore Kerouac non riesce a rappresentare in modo convincente il tema del Male che stona peraltro con l’impiego del wit, dell’arguzia seicentesca dei poeti inglesi.
Legato al mondo dell’infanzia è il romanzo Visions of Gerard, scritto nel 1956, che fa rivivere le scene e le sensazioni dei primi quattro anni di vita di Ti Jean Duluoz (pseudonimo di Kerouac stesso).Il narratore è Gerard, il fratello di Kerouac morto a nove anni in seguito ad una lunghissima malattia. Kerouac parte dal discorso dell’infanzia per sviluppare il tema dell’esistenza, vista come un deserto di dolore in cui si può vivere la felicità solo da bambini; sebbene affronti un argomento di grande impatto emotivo, tuttavia il libro manca di pathos e di coinvolgimento emotivo.
Con Maggie Cassidy la “Recherche” keroucchiana come lui stesso la definisce passa dal mondo infantile a quello adolescenziale. Uno degli elementi più interessanti del libro è offerto dalla descrizione della vita di provincia contrapposta al caos della metropoli.
Il tema dominante del libro è dato dalla storia d’amore tra Duluoz e Maggie, e prelude a quella, che svilupperà con ben diversa intensità in The Subterraneans. Ancora una volta comunque l’operasi segnala per le sue qualità letterarie intrinseche più che per l’intreccio. Kerouac conosce l’arte di caricare il linguaggio quotidiano di grande intensità: qui poi, caso forse unico in tutta la sua vasta produzione, egli riesce a venare la sua prosa di una sottile ironia, che lo fa uscire indenne da un sentimentalismo sempre incombente. Con questo romanzo termina la serie di opere che precedono lo scoppio legato alla pubblicazione di On the Road. E’ tra questi romanzi, scritti tra il 1948 il 1957, che vanno ricercati molti tra i suoi esiti più convincenti. Infatti, il chiasso suscitato da On the Road provocherà da un lato una serie di pressioni di avidi editori, che costringeranno Kerouac a riprendere i temi già esplorati e diventati di moda, dall’altro una reazione di fuga nell’autore che lo allontanerà anche dai suoi amici (che poi erano anche i suoi critici) migliori. Inizia così il rapido declino umano e artistico di Kerouac, sia pure con qualche eccezione. La prima è quella di The Subterraneans. La storia d’amore tra la mulatta Mardou e il bianco Leo, segnata ancora una volta dal contrasto tra la stabilità (la famiglia) e lo spirito d’avventura, è sorretta da uno stile fiammeggiante e sontuoso dalla sintassi complessa (un periodo si dipana per tre pagine), che rimanda a Whitman. Sul piano sociologico il libro segna invece l’inizio di un conservatorismo sempre più accentuato che porterà Kerouac a rinnegare quegli aspetti di novità presenti nei suoi libri dal punto di vista del costume, che verranno invece raccolti dai giovani americani negli anni ’60. Le religioni orientali e la cronaca del mondo beat sono alla base di The Dharma Bums e Desolation Angels. Il primo impregnato di tensione metafisica narra le avventure di un gruppo di “bums”, di vagabondi beatnik. Questa volta i protagonisti sono impegnati in una ricerca disordinata, ma sincera, di una nuova verità che si identifica col Dharma, per i buddisti fine ultimo dell’Universo e della vita. Ispirata ai metodi della scuola giapponese Zen, la loro ricerca li condurrà tuttavia dalle bevute nei ritrovi del quartiere cinese di San Francisco alle scalate fra le montagne della California, dalle meditazioni notturne nei boschi o sulle spiagge solitarie. La narrazione è avvincente grazie alla prosa di Kerouac a tratti lirica e a tratti umoristica. Desolation Angels delinea con maggiore chiarezza i ritratti dei protagonisti della beat generation anticipando i temi di On the Road. Il libro è un documentario di un’epoca fatta di estasi e di inquietudini, è una meditazione sul nulla della dottrina buddista e sulla vita quotidiana basata sull’avventura. E’ interessante notare come il libro prenda spunto da un diario di Kerouac scritto nell’arco di tempo di nove settimane sulla cima del Desolation Peak lungo la catena delle Cascate, a nord-ovest di Washington, dove lo scrittore si era trasferito temporaneamente. L’ultimo vero momento di grandezza va ricercato in Big Sur. E’ la storia di una solitaria estate al mare in una località della costa californiana diventata luogo di pellegrinaggio della Giovane America. Costituisce un esempio di libera improvvisazione allo stile jazz.
Pic viene spesso considerato l’ultimo racconto di Kerouac poiché è stato pubblicato postumo nel 1971; in realtà la stesura risale agli anni della creazione di On the Road. E in effetti la novella che almeno ad una prima lettura, si rivela soprattutto come uno studio del dialetto parlato nella Carolina del Nord, presenta molte analogie con On the Road. Innanzitutto la presenza di una coppia di protagonisti, anche se in questo caso essa è formata da un ragazzo, Pic, e dal fratello adulto, Slim. Per di più anche in questo caso l’arrivo di un agente esterno (in On the Road è Dean Moriarty, mentre in Pic è Slim) provoca un viaggio o una serie di viaggi, la cultura dei neri d’america, la musica jazz. La storia tratta di un bambino di colore orfano, Pic, che vive con il nonno e gli zii nel North Carolina. Quando il nonno muore appare sulla scena il fratello maggiore di Pic, Slim scappato di casa parecchi anni prima che condurrà il piccolo Pic in un viaggio avventuroso per l’America.
ALLEN GINSBERG
Nato a Paterson [New Jersey] nel 1926 (morto il 5 aprile 1997), fu la voce profetica della beat-generation. La sua formazione fu segnata dall'infanzia: vissuta nella Paterson del poema di W.C. Williams. Con un padre poeta e insegnante. E soprattutto la madre, ebrea russa, comunista militante, segnata dalla follia. A New York incontrò Jack Kerouac che lo introdusse al jazz, mentre William Burroughs lo guidò nell'esperienza visionaria della droga. Nel 1949 un nuovo decisivo incontro: con il poeta Carl Solomon, nel New York State Psychiatric Institute, che lo confermò nella scelta sociale della marginalità come atto di protesta contro il "Moloch" del capitalismo nordamericano e di mistica comunione con i diseredati, i nuovi 'santi' del Nordamerica sotterraneo. Il viaggio in India e Giappone, l'approfondimento del pensiero buddhista e zen segnano il successivo itinerario di Ginsberg.
A Carl Solomon è dedicato Urlo (Howl, 1956), prima espressione e manifesto di una nuova poesia, tra le più dirette nuove e emozionanti del XX secolo. Costruita per essere detta, nutrita delle inedite immagini dell'universo urbano e tecnologico, essa si richiama a Whitman per il respiro modernamente epico, a Blake e ai surrealisti per la potenza visionaria e onirica.
Kaddish (1960), scritta per la morte della madre, è la narrazione poetica, modulata sui ritmi della preghiera ebraica ai defunti, del rapporto madre-figlio, divisi dalla follia e conciliati infine nella parola. Espresse l'impegno pubblico di profeta della pace e le influenze provenienti dal misticismo orientale nelle poesie raccolte in Sandwiches di realtà (Reality sandwiches, 1963) e in Notizie del pianeta (Planet news, 1968).
Frutto del viaggio in India è il Diario indiano (Indian journal, 1970). Alla disillusione degli anni '70 appartiene La caduta d'America (The fall of America, 1972). Seguì una fase di ripiegamento nella musica, con Primi blues, rags, ballate e songs con l'armonium (First blues rags ballads & armonium songs, 1975), e nella meditazione con Respiri mentali (Mind breaths, 1977). L'ultimo suo lavoro sono le "Poesie scelte 1947-1995" (1996).
LAWRENCE FERLINGHETTI
Lawrence Ferlinghetti nacque a Yonkers [New York] nel 1919. Negli anni '50 la sua casa editrice di San-Francisco, il City Lights Bookshop, fu il punto di riferimento culturale della cosiddetta 'San-Francisco renaissance' e della beat-generation. Epicentro del rinnovamento del rapporto tra poesia e pubblico che portò al recupero della parola poetica come messaggio orale e del poeta come protagonista.
Ferlinghetti come autore si è mostro in varie direzioni: drammi sperimentali, scenari per happening, un romanzo-monologo come Lei (Her, 1960) ecc. Ha raggiunto esiti di particolare concretezza espressiva con le poesie raccolte in Una Coney-Island della mente (A Coney Island of the mind, 1961), alcune delle quali scritte per essere recitate con accompagnamento di musica jazz. In Dov'è il Vietnam? (Where is Vietnam?, 1965) e in Tyrannus Nix (1969) satirico «inno populista» che ha per oggetto il presidente Richard Nixon, è l'impegno politico e la forza visionaria che sono costanti della poesia di Ferlinghetti. Ha poi scritto: Chi siamo oggi? (Who are we now?, 1976), Paesaggi di vivi e di morenti (Landscapes of living and dying, 1979).
JEAN-PAUL SARTRE
VITA E OPERE
Jean-Paul Sartre nacque a Parigi nel 1905, studiò filosofia e psicologia all’école Normale Supérieure, dove conobbe P. Nizan e R. Aron, i quali suscitarono il suo interesse per Husserl e Heidegger.
Nel 1929 egli conobbe Simone de Beauvoir, che fu la sua compagnia fino alla fine della sua vita. Dopo aver insegnato filosofia al liceo di Le Havre, usufruì di una borsa di studio presso l’Istituto francese di Berlino e intraprese lo studio della fenomenologia di Husserl; sotto l’influenza di essa, ma anche dell’esistenzialismo di Heidegger, scrisse i suoi primi scritti: L’immaginazione (1936), Abbozzo di una teoria delle emozioni (1939), L’immaginario (1940) e il romanzo filosofico più celebre, La nausea (1938) e la raccolta di racconti Il muro (1939).
Durante la seconda guerra mondiale egli fu prigioniero dei tedeschi, ma fu poi liberato e tornò a Parigi, dove pubblicò nel 1943 la sua opera filosofica più impegnativa, L’essere e il nulla, e la sua prima opera teatrale Le mosche. Terminata la guerra egli scrisse una serie di romanzi intitolati I cammini della libertà e, in collaborazione con Aron, Camus e Marleau-Ponty fece uscire la rivista “Les temps modernes”. Nel 1946 pubblicò L’esistenzialismo è un umanismo in risposta alle critiche effettuate dalla Chiesa e dai marxisti.
Negli anni cinquanta si impegnò attivamente in tutte le cause civili e politiche: nel 1953 si oppose alla guerra in Indocina, nel 1956 pronunciò una dura condanna contro i carri armati sovietici che soffocavano la rivolta ungherese scrivendo un articolo intitolato Il fantasma di Stalin. Nel 1964 ricevette il premio Nobel, che rifiutò, grazie ad un’opera autobiografia Le parole e alla Critica della ragion dialettica.
In seguito sostenne la lotta del Fronte di Liberazione algerino, entrò a far parte del Tribunale Russell sui crimini americani in Vietnam, nel 1968 appoggiò il movimento studentesco e i movimenti extraparlamentari e cinque anni dopo diventa direttore del giornale Libération. Sartre non poté più continuare la sua lotta intellettuale a causa di problemi di salute che lo resero quasi cieco. Egli morì a Parigi nel quartiere latino nel 1980.
ESISTENZA E LIBERTA’
Il fenomeno tipico del periodo posteriore alla seconda guerra mondiale è l’esistenzialismo di Sartre: il quale si è orientato negli ultimi tempi verso l’esigenza di un sapere aperto alla storia del marxismo.
Sartre ha cominciato la sua attività di scrittore con ricerche di psicologia e lo studio della fenomenologia che hanno per oggetto l’io, l’immaginazione e le emozioni. Il punto di partenza di queste ricerche era già la nozione dell’intenzionalità della coscienza, ma fin da principio Sartre si oppose ad Husserl per la sua interpretazione esistenzialistica di questa nozione. Il saggio su La trascendenza dell’io (1936), l’io non costituisce una sostanza chiusa in se stessa, ma una struttura relazionale costitutivamente aperta al mondo e agli altri.
Sul saggio sulla teoria delle emozioni la coscienza viene appunto intesa come “essere nel mondo” e l’atteggiamento emotivo viene interpretato come una maniera possibile di vivere i rapporti con la realtà, consistente in una modificazione magica del mondo, ossia una modificazione diretta a difendersi da ostacoli concreti.
Particolare importanza riveste l’analisi sartriana della funzione immaginativa, poiché egli tende a legare l’immaginario ad un concetto che diverrà fondamentale nella sua filosofia: quello della libertà. Infatti l’immaginazione è un modo attraverso cui la coscienza trascende la realtà alla luce di un possibile. Come tale essa esprime la capacità umana di negare liberamente il mondo, in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione.
Questi concetti ritornano in parte ne L’essere e il nulla. Come Heidegger, anche Sartre si interroga sulle strutture dell’essere. Procedendo fenomenologicamente, egli afferma che l’essere ci è dato in due maniere fondamentali: come essere in sé e come essere per sé. Il primo tipo di essere si identifica con tutto ciò che non è coscienza ma con cui la coscienza entra in rapporto, ossia, con le cose del mondo. Il secondo tipo di essere si identifica con la coscienza stessa, la quale ha la prerogativa di essere presente a se stessa e alle cose. Di conseguenza, l’in sé è il dato che la coscienza trova davanti a se medesima. Invece il per sé è la coscienza che, essendo presenza alle cose, ha la capacità di attribuire loro dei significati. Per questa doppia prerogativa di non essere il dato, ma di dare ad esso dei significati, Sartre chiama il per sé nulla, intendendo con questo termine non il contrario dell’essere, ma la coscienza stessa, che sorge come una potenza nullificatrice del puro dato e come fonte di significati rispetto all’in sé.
Affermare che l’uomo è coscienza equivale dunque a dire che l’uomo è libero, poiché nega la realtà alla luce di significati che in qualche modo la padroneggiano. La libertà, intesa come nullificazione coscienziale del mondo mediante dei significati, coincide dunque, per Sartre, con la struttura stessa dell’esistenza, che risulta condannata per costituzione ontologica ad essere libertà.
Per Sartre l’uomo è responsabile del mondo e di se stesso in quanto maniera d’essere. Tutto ciò che accade nel mondo risale alla libertà e alla responsabilità della scelta originaria, perciò nulla di ciò che accade all’uomo può essere detto inumano. Inoltre la libertà fa sì che l’individuo risulti in uno stato di endemico e permanente conflitto con gli altri. Infatti, nello stesso momento in cui pietrifico l’altro mediante i miei significati, la stessa operazione la compie il mio vicino. Nell’universo sartriano risulta quindi inevitabile lo scontro delle libertà e la guerra dei significati.
LA TEORIA DELL’“ASSURDO”
Nella condizione umana, per Sartre, vi è qualcosa di paradossale. Infatti, pur essendo libero di fronte al mondo, l’individuo non è libero di essere libero. Ma il fatto di essere al mondo, per l’uomo come per tutti gli altri enti, è qualcosa di assurdo, ossia che non ha spiegazioni al di là del fatto medesimo di esistere. Gli scopi o i fini nascono soltanto con l’uomo, che dà senso a ciò che è in sé non ha senso.
L’esperienza emotiva di tale assurdità di fondo dell’esistenza è la nausea, che Sartre descrive nel noto romanzo del 1938. Il romanzo ha la forma di un diario tenuto dal protagonista, Antoine Roquentin, un professore di storia giunto in una città di provincia. In lui si manifesta la mancanza del senso dell’esistenza che gli si rivela mediante un disgusto, una nausea. Questa nausea, che si presenta sottoforma di malessere e di angoscia, lo induce a spiare coloro che lo circondano. Spera di trovare la pace da questa nausea esistenziale rivedendo una donna amata, Anny, ma è un’illusione. Al momento di lasciare la città di provincia, il protagonista pensa forse di trovare la salvezza in un libro di pura immaginazione perché solo così potrà conferire un senso ad un’esistenza che non ne ha.
LA NAUSÉE
Est-ce que c’est ça, la liberté? Au-dessous de moi, les jardins descendent mollement vers la ville et, dans chaque jardin, s’élève une maison. Je vois la mer, lourde, immobile, je vois Bouville. Il fait beau.
Je suis libre : il ne me reste plus aucune raison de vivre, toutes celles que je essayées ont lâché et je ne peut plus en imaginer d’autres. Je suis encore assez jeune, j’ai encore assez de forces pour recommencer. Mais que faut-il recommencer ? Combien, au plus fort de mes terreurs, de mes nausées, j’avais compté sur Anny pour me sauver, je le comprends seulement maintenant. Mon passé est mort. M. de Rollebon est mort, Anny n’est revenue que pour m’ôter tout espoir. Je suis seul dans cette rue blanche que bordent les jardins. Seul et libre. Mais cette liberté ressemble un peu à la mort.
Aujourd’hui ma vie prend fin. Demain j’aurai quitté cette ville qui s’étend à mes pieds, où je suis longtemps vécu. Elle ne sera plus qu’un nom, trapu, bourgeois, bien français, un nom dans ma mémoire, moins riche que ceux de Florence ou de Bagdad. Il viendra une époque où je me demanderai : « Mais enfin, quand j’étais à Bouville, qu’est-ce que je pouvais donc faire, au long de la journée ? et de ce soleil, de cet après-midi, il ne restera rien, pas même un souvenir.
Toute ma vie est derrière moi. Je la vois tout entière, je vois sa forme et les lents mouvements qui m’ont mené jusqu’ici. Il y a peu de choses à en dire : c’est une partie predue, voilà tout. Voici trois ans que je suis entré à Bouville, solennellement. J’avais perdu la première manche. J’ai voulu jouer la seconde et j’ai perdu aussi : j’ai perdu la partie. Il n’y a que les salauds qui croient gagner.
LA NAUSEA
Sarebbe questa, la libertà ? sotto di me i giardini scendono mollemente verso la città, e, in ogni giardino, si eleva una casa. Vedo il mare, greve, immobile, vedo Bouville. E’ bel tempo.
Sono libero: non mi resta più alcuna ragione di vivere, tutte quelle che ho tentato hanno ceduto e non posso più immaginarne altre. Sono ancora abbastanza giovane, ho ancora abbastanza forza per ricominciare. Ma che cosa bisogna ricominciare? Soltanto ora comprendo quanto contassi su Anny per salvarmi, in mezzo ai miei più forti terrori, alle mie nausee. Il mio passato è morto. Il Signor di Rollebon è morto. Anny è tornata soltanto per togliermi ogni speranza. Sono solo in questa strada bianca fiancheggiata da giardini. Solo e libero. Ma questa libertà assomiglia un poco alla morte. Oggi la mia vita finisce. Domani avrò lasciato questa città che si stende ai miei piedi, e dove sono vissuto per tanto tempo. Non sarà più che un nome, tozzo, borghese, molto francese, un nome nella mia memoria, meno ricco di quello di Firenze o di Bagdad. Verrà un’epoca in cui mi domanderò:”Ma infine, quando ero a Bouville, che cosa facevo tutto il giorno?”. E di questo sole, in questo pomeriggio non resterà niente, nemmeno un ricordo.
Tutta la mia vita è dietro di me. La vedo tutt’ intera, vedo la sua forma i suoi lenti movimenti che m’hanno condotto fino a qui. C’è poco da dirne: è una partita perduta, ecco tutto. Sono tre anni che ho fatto il mio ingresso a Bouville, solennemente. Avevo perduto la prima mano. Ho voluto giocare la seconda ed ho perduto anche questa: ho perduto la partita. E nel tempo stesso ho appreso che si perde sempre. Ci sono solo i sporcaccioni che credono di vincere.
ALBERT CAMUS
VITA E OPERE
Albert Camus nacque nel 1913 a Mondonovi da una famiglia povera. Suo padre, un operaio agricolo di origine francese, fu ucciso nella prima guerra mondiale nel 1914. Dopo la morte del marito, la madre s’installò in un quartiere popolare d’Algeri dove lavorerà come operaia. Camus conobbe un’infanzia e una giovinezza povera e di stenti: tuttavia egli si distinse negli studi universitari dove il professore di filosofia Jean Grenier lo influenzerà molto e lo condurrà verso studi filosofici. Fu commerciante, commesso, impiegato, per due anni (1936-1937) attore nella compagnia di Radio Algeri.
I suoi interessi erano: il giornalismo, la letteratura e soprattutto il teatro. Scrisse e pubblicò ad Algeri i suoi primi saggi: L’Envers et l’Endroit (1938) e Noces (1939). Essendo un antifascista decise di aderire al partito comunista fin dal 1934 e che quindi partecipò in maniera attiva alla Resistenza in Francia. Il partito comunista gli permise di dirigere il Théâtre du Travail dove Camus tenterà di creare un teatro politico e popolare.
Egli fu anche un giornalista molto impegnato (engagé) soprattutto come redattore e direttore di Combat (1944-48) sorto in maniera clandestina. Questo giornale lo renderà molto celebre poiché si scaglierà contro la boma atomica su Hiroshima, contro la repressione delle sommosse in Madagascar e contro la repressione in Algeria. Negli stessi anni alcune fra le sue opere più celebri: i romanzi L’Étranger (1942) e La Peste (1947), i drammi Le Malentendu e Caligula (1944), il saggio sull’assurdo Le mythe de Sisyphe (1944), le nobilissime Lettres à un ami allemand (1945).
Dal 1948 sembrò allontanarsi dalla politica militante, cui ritornò però nel 1955-56 collaborando al giornale L’Express per i fatti in Algeria. In questo periodo egli si dedicò sempre di più alla letteratura e al teatro, scrivendo opere che suscitarono continue polemiche: L’Homme révolté (1951), i racconti La Chute (1956) e L’Exil et le Royaume (1957), le cronache Actuelles I, II, III (1950-1958).
La Chute è un racconto che Sartre e gli altri critici considerano l’opera più importante di Camus e che sembra essere stata concepita all’origine come un’opera di polemica contro Sartre, e un regolamento di conti con gli intellettuali di sinistra.
Nel 1957 riceverà il Premio Nobel della Letteratura l’insieme delle sue opere che: ”Mettono in luce, con una serietà penetrante, i problemi dei nostri giorni che si posano alla coscienza umana” (affermazione dell’Accademia). Camus morirà nel 1960 in un incidente stradale.
La sua filosofia, che fa tutto uno con la sua poetica di scrittore, parte sulle sue riflessioni sul destino dell’uomo, nel suo svolgimento assurdo e irrazionale in una realtà ineluttabile, in cui possono trovare posto, per la forza delle circostanze, il delitto quasi ingiustificabile o involontario. Da questa posizione egli giunge alla morale della rivolta, rifiuto di compromessi e di conformismi, che salvi, nella solidarietà umana, nel riscatto dei derelitti, i grandi ideali di libertà e di giustizia. La sua è una rivolta dunque non come distruzione, né come rifiuto di tutto, ma come costruzione di vita associata, come creazione libera ideale di bellezza.
La dottrina di Camus può mostrare contraddizioni e incoerenze; la realtà della sua arte convince per la purezza classica del suo stile, per la sofferta adesione al dramma della sua generazione, per il coraggioso messaggio di lotta, fiducia, che esprimono tutte le sue opere.
Altre opere sono: L’Été (1954), i drammi Révolte dans les Austuries (1936), L’État de siège (1948), Les Juste (1950), il romanzo postumo La mort heureuse (1971).
L’ÉTRANGER
Il protagonista del romanzo, Meursault, un impiegato che vive nella città di Algeri, non partecipa ai sentimenti che agitano gli altri uomini: egli resta del tutto indifferente, quindi è come se fosse “straniero” alla realtà. Nella prima parte della vicenda questo atteggiamento di estraneità è inconsapevole. Infatti al funerale della madre egli non dimostra il dolore che tutti si aspetterebbero da lui.
Nella seconda parte del libro egli diviene cosciente di questo atteggiamento di estraneità: l’assurdo dell’esistenza. Viene processato per aver ucciso un arabo senza motivo e la sua indifferenza incide in maniera aggravante sulla sua condanna. Durante il processo il protagonista riflette e si allontana dai principi che regolano la condotta dei giudici e dall’opinione pubblica che lo condanna a morte.
Alla fine del romanzo il protagonista rifiuta anche la consolazione della religione, ed approda ad una sorta di felicità nel sentire simile a sé il mondo, nella sua indifferenza.
L’estraneità del protagonista al reale dà luogo anche ad un originale impianto narrativo. Infatti la vicenda viene raccontata da Meursault stesso che non rivela le motivazioni dei suoi atti, sentimenti ed emozioni profonde. Avviene tutto ciò perché il protagonista non pensa e non sente nulla ma vive nella sua totale indifferenza alla realtà.
L’impianto muta nella seconda parte del romanzo. In conseguenza della sua consapevolezza di questo atteggiamento ed ora egli arriva a spiegare i suoi atti e i suoi sentimenti.
AUJOURD’HUI, maman est morte. Ou peut-être hier, je ne sias pas. J’ai reçu un tèlégramme de l’asile : »Mère décédée. Enterrement demain. Sentiments distingués.” Cela ne veut rien dire. C’était peut-être hier.
L’asile de vieillards est à Marengo, à quatre-vingts kilomètres d’Alger. Je prendrai l’autobus à deux heures et j’arriverai dans l’après-midi. Ainsi, je pourrai veiller et je rentrerai demain soir. J’ai demandé deux jours de congé à mon patron et il ne pouvait pas me les refuser avec une excuse pareille. Mais il n’avait pas l’air content. Je lui ai même dit : »Ce n’est pas de ma faute. » il n’a pas répondu. J’ai pensé alors que j’aurai pas dû lui dire cela. En somme, je n’avais pas à m’excuser. C’était plutôt à lui de me présenter ses condoléances. Mais il le fera sans doute ap0rès-demain, quand il me verra en deuil. Pour le moment, c’est un peu comme si maman n’était pas morte. Aprés l’enterrement, au contraire, ce sera une affaire classée et tout aura revêtu une allure plus officielle.
J’ai pris l’autobus à deux heures. Il faisait très chaud. J’ai mangé au restaurant, chez Céleste, comme d’habitude. Ils avaient tous beaucoup de peine pour moi et Céleste m’a dit : »On n’a qu’une mère. » quand je suis parti, ils m’ont accompagné à la porte. J’étais un peu étourdi parce qu’il a fallu que je monte chez Emmanuel pour lui emprunter une cravate noir et un brassard. Il a perdu son oncle, il y a quelques mois.
J’ai couru pour ne pas manquer le départ. Cette hâte, cette course, c’est à cause de tout cela sans doute, ajouté aux cahots, à l’odeur d’essence, à la réverbération de la route et du ciel, que je me suis assoupi. J’ai dormi pendant presque tout le trajet. Et quand je me suis réveillé, j’étais tassé contre un militaire qui m’a souri et qui m’a demandé si je venais de loin. J’ai dit « oui » pour n’avoir plus à parler.
LO STRANIERO
Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio:” Madre deceduta”. Funerali domani. Distinti saluti”. Questo non dice nulla: è stato forse ieri.
L’ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l’autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l’aria contenta. Gli ho persino detto:” Non è colpa mia”. Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo. Insomma, non avevo da scusarmi di nulla. Stava a lui, piuttosto, di farmi le condoglianze. Ma certo lo farà dopodomani, quando mi vedrà in lutto. Per adesso è un po’ come se la mamma non fosse morta; dopo il funerale, invece, sarà una faccenda esaurita e tutto avrà preso un andamento più ufficiale.
Ho preso l’autobus delle due: faceva molto caldo. Prima ho mangiato in trattoria, da Celeste,l come al solito. Avevano tutti molta compassione per me e Celeste mi ha detto:”Di mamme ce n’è una sola”. Quando ho fatto per andarmene, mi hanno accompagnato valla porta. Ero un po’ intontito perché ero anche andato da Emmanuele a farmi prestare una cravatta nera e una benda per il braccio. Lui ha perso suo zio qualche mese fa.
Ho dovuto correre per non perdere l’autobus. La gran fretta, la corsa, certo è per questo, oltre alle scosse, all’odor di benzina, al riverbero della strada e del cielo, che presto mi sono assopito. Ho detto “Sì” per non dover più parlare.
HERMANN HESSE
Hermann Hesse nacque nel 1877 a Calw, nel Wurttemberg in una famiglia dalla forte tradizione pietista. Entrambi i genitori furono missionari in India come pure il nonno, celebre linguista e studioso di culture orientali. La spiritualità indiana e la rigida educazione pietista influenzarono profondamente lo scrittore a tal punto che in molti suoi romanzi sono ravvisabili punti di contatto
con la cultura orientale e il buddhismo connaturati alla ricerca individuale dell’armonia dello spirito.
Tuttavia il clima familiare severo non era aperto ad una concezione dell’arte che contemplasse la presenza della dimensione morale ed emotiva nella produzione artistica. Una poesia o una melodia, come racconta lo stesso Hesse, suscitavano nei genitori solo un apprezzamento estetico, non rappresentavano dunque una fonte di valori elevati. Il rifiuto di una visione spirituale dell’arte fu tuta altro che marginale nella vita artistica ed intima di Hesse come pure le travagliate vicende della sua adolescenza. Nel 1881 si trasferì assieme alla famiglia a Basilea. Venne iscritto alla scuola per figli di missionari. Non è uno studente brillante, tuttavia dopo aver frequentato di malavoglia il ginnasio, riesce a superare l’esame per entrare al seminario pietista di Maulbronn. La soffocante disciplina lo spinge a scappare dal collegio, ma vi sarà ricondotto più tardi con tutte le conseguenze disastrose sulla sua salute psichica: soffre di crisi depressive che lo porteranno al tentato suicidio. Viene così internato in un manicomio a Stetten.In seguito riprenderà gli studi senza però terminarli e nel 1894 su consiglio paterno entrerà come apprendista in una fabbrica di orologi a Calw.In questo periodo scopre la biblioteca del nonno paterno: legge Goethe, Schiller, Dostoevskij ed Ibsen per poi interessarsi a Novalis e ai poeti romantici tedeschi. Il frutto di questa passione si riverserà nella stesura della sua prima opera letteraria, una raccolta di poesie dal titolo “Romantische Lieder”.
Nel 1899 si trasferisce a Basilea e lavora presso una libreria e un antiquario, frequentando circoli intellettuali influenzati dalla figura dello storico Burkhardt.Qualche anno più tardi intraprende il primo viaggio in Italia.
Nel 1904 sposa la pianista Maria Bernoulli e si stabilisce a Gaienhofen sul lago di Costanza.
Non sarà un matrimonio felice tanto che una decina d’anni più tardi scrive il romanzo Gertrud.
Ben presto si risveglia in lui un’insofferenza per la vita sedentaria di Gaienhofen. Così Hesse decide di partire per l’India alla ricerca di se stesso. Il viaggio in Oriente tuttavia non risolve la sua crisi interore.
La prima guerra mondiale rappresenta un momento di svolta nella poesia di Hesse. Egli si impegna attivamente nel servizio d’assistenza ai prigionieri di guerra e lancia numerosi appelli all’umanità e alla regione contro l’odio e la violenza. Significativo è l’articolo pubblicato nel 1914 col titolo “O Freunde, nicht diese Tone!” (Amici, non questi accenti!), in cui Hesse si fa interprete del pacifismo che verrà inteso come disimpegno. Nel 1915 esce Knulp che conclude una prima fase romantica ed estetizzante della sua produzione. In questo periodo Hesse affronta nuovamente la depressione a causa delle crisi morale causata dalla guerra e da delle tragiche vicende personali (la morte del padre, la malattia del figlio Martin e i disturbi mentali della moglie). Decide quindi di curare il suo crollo nervoso attraverso la psicanalisi. Hesse non solo si sottopone alla terapia del dottor J.B.Lang, un allievo di Jung, ma studia i conceti basilari di questa scienza che influenzerà le opere successive.
Infatti in Demian, scritto tra il 1916-17 si può ben notare come l’autore sia riuscito a applicare la teoria freudiana della dicotomia tra bene e male all’esperienza spirituale del giovane protagonista.
Nel 1919 mentre la moglie è ricoverata in una clinica per malattie mentali Hesse si trasferisce in Ticino a Montagnola. Periodo ticinese stimola nuovamente la sua creatività. Scrive Klingsors letzer Sommer del 1920 seguito nel 1922 da Siddharta. Nel 1923 ottiene il divorzio e l’anno seguente sposa la cantante Ruth Wenger e dalla quale si separerà nel 1927. nello stesso anno esce il Lupo della steppa e dopo tre anni, Narciso e Boccadoro.
Il terzo matrimonio con la studiosa di storia dell’arte durerà fino alla morte dello scrittore. Qui i coniugi ospitano numerosi intellettuali tra cui Thomas Mann e Bertolt Brecht. Uscirà in svizzera nel 1943 il Gioco delle perle di vetro.solo nel 1946 il libro potrà essere pubblicato in Germania. Nello steso anno riceverà il premio nobel.
Muore il 9 agosto del 1962 nella sua casa dopo un lungo isolamento.
Siddharta
Voll war er von Überdruß, voll von Elend, voll von Tod, nichts mehr gab es in der Welt, das ihn locken, das ihn freuen, das ihn trösten könnte.
Sehnlich wünschte er, nichts mehr von sich zu wissen, Ruhe zu haben, tot zu sein. Käme doch ein Blitz und erschlüge ihn!Gäbe es doch einen Wein, ein Gift, das ihm Betäung brächte, Vergessen und Schlaf, und kein Erwachen mehr!(…)
Siddharta gelangte an den großen Fluß im Walde, an denselben Fluß, Über welchen ihn einst, als er noch ein junger Mann war, und von der Stadt des Gotama kam, ein Fährmann geführt hatte.An diesem Flusse machte er halt, blieb zögernd beim Ufer stehen.(…)
Über das Flußufer hing ein Baum gebeug, ein Kokosbaum, an dessen Stamm lehnte sich Siddharta mit der Schulter, legte den Arm um den Stamm und blickte in das grüne Wasser hinab, das unter ihm zog und zog, blickte hinab und fand sich ganz und gar von dem Wunsche erfUllt, sich loszulassen und in diesem Wasser unterzugehen.Eine schauerliche Leere spiegelte ihm aus dem Wasser entgehen, welcher die furchtbare Leere in seiner Seele Antwort gab. Ja,er war am Ende. Nichts mehr gab es für ihn, als sich auszulöschen, als das mißlungene Gebilde seines Lebens zu zerschlagen, es wegzuwerfen.(…)
Er sank, mit geschlossenen Augen, dem Tod entgehen. Da zuckte aus entlegenen Bezirken seiner Seele,aus Vergangenheiten seines ermüdeten Lebens her ein Klang.Es war ein Wort, eine Silbe, die er ohne Gedanken mit lallender Stimme vor sich hinsprach, das alte Anfangswort und Schlußwort aller brahmanischen Gebete, das heilige “Om”, das soviel bedeutet wie “das Vollkommene” oder die “Vollendung”. Und im Augenblick, da der Klang “Om” Siddhartas Ohr berührte, erwachte sein entschlummerter Geist plötzlich, und erkannte die Torheit seines Tuns.
Siddharta erschrak tief. So also stand es um ihn, so verloren war er, so verwirrt und von allem Wissen verlassen, daß dieser Wunsch, dieser Kinderwunsch in ihm hatte groß werden können: Ruhe zu finden, indem er seinene Leib auslöschte! Was alle Qual dieser letzten Zeiten, alle Ernüchterung, alle Verzweifung nicht bewirkt hatte, das bewirkte dieser Augenblick, da das Om in sein Bewußtsein drang: daß er sich in seinem Elend und in seinem Irrsal erkannte.”Om!” sprach er vor sich hin:”Om!” Und wußte um Brahman, wußte um die Unzerstörbarkeit des Lebens, wußte um alles Gottliche wieder, das er vergessen hatte.
Doch war dies nur ein Augenblick,ein Blitz. Am Fuß des Kokobaumes sank Siddharta nieder,legte sein Haupt auf die Wurzel des Baumes und sank in tiefen Schlaf.
Tief war sein Schlaf und frei von Träumen, seit langer Zeit er einen solchen Schlaf nicht mehr gekannt. Als er nach manchen Stunden erwachte, war ihm, als seien zehn Jahre vergangen, er hörte das leise Strömen des Wassers, wußte nicht, wo er sei und wer ihn hierher gebracht habe, schlug die Augen auf, sah mit Verwunderung Baume und Himmel Über sich, und erinnerte sich, wo er wä re und wie er hierher gekommen sei. Doch bedurfte es hierzu einer langen Weile,und das Vergangene erschien ihm wie von einem Schleier überzogen,unendlich fern,unendlich weit weg gelegen, unendlich gleichgültig.(…)
Er wußte nur, daß er sein früheres Leben verlassen habe, daß er voll Ekel und Elend sogar sein Leben habe wegwerfen wollen, daß er aber an einem Flusse, unter einem Kokosbaume, zu sich gekommen sei, das heilige Wort Om auf den Lippen, dann entschlummert sei, und erwacht als ein neuer Mensch in dieWelt blicke.
SIDDHARTA
E pieno egli era adesso di sazietà,di miseria,di morte,non c’era più nulla nel mondo che lo potesse attirare, rallegrare,consolare.
Ardentemente bramava non saper più nulla di sé, aver pace, esser morto! Oh! sol che venisse un fulmine ad atterrarlo! Sol che ci fosse un vino, un veleno, capace di portargli lo stordimento, l’oblio e il sonno, anche se non avesse dovuto più esserci risveglio! (…)
Siddharta giunse al gran fiume nel bosco,quello stesso fiume sul quale l’ aveva traghettato un giorno un barcaiolo quando egli era ancora giovane e veniva dalla città di Gotama. Presso questo fiume si fermò e rimase indeciso sulla riva.(…)
Sulla riva del fiume pendeva un albero inclinato, un albero di cocco; al suo tronco s’appoggiò Siddharta con la spalla, posò il braccio sulla corteccia e guardò in giù nell’ acqua verde, che scorreva senza posa ai suoi piedi,guardò giù e si sentì interamente pervaso dal desiderio di lasciarsi andare e sparire entro quell’acqua. Lo specchio dell’ acqua gli rifletteva incontro un vuoto raccapricciante che faceva riscontro al terribile vuoto dell’anima sua: sì, egli era giunto alla fine.
Altro non gli rimaneva che spegnersi,spezzare la mal riuscita figura della sua vita,gettarla via,ai piedi degli dei sprezzanti.(…)
Affondava, a occhi chiusi, incontro alla morte.
Ed ecco, da riposti ricettacoli della sua anima, dalle remote lontananze della sua vita affaticata, palpitò un suono. Era una parola , una sillaba, ch’egli pronunciava senza rendersene conto, con voce cantilenante, l’antica parola con cui hanno inizio e fine tutte le preghiere dei Brahmini, il sacro Om, che equivale a “perfetto”o alla “perfezione”. E nell’istante in cui il suono Om sfiorò l’orecchio di Siddharta , immediatamente si risvegliò il suo spirito assopito, e riconobbe la stoltezza del suo atto.
Siddharta inorridì profondamente. A questo punto, dunque, era giunto, così perduto egli era, così smarrito e deserto d’ogni conoscenza,che aveva potuto cercare la morte,che questo desiderio d’ ogni conoscenza, che aveva cercare la morte, che questo desiderio infantile aveva potuto crescere in lui: trovar la pace nella distruzione del proprio corpo! Ciò che non avevano potuto fare tutte le pene di questi ultimi tempi, tutti i disinganni, tutta la disperazione, lo ottenne quel movimento in cui l’Om penetrò nella sua coscienza: egli si riconobbe, nella propria miseria e nel proprio errore.
“Om!” diceva tra sè e sè: “Om!”. E seppe di Brama, seppe dell’ indistruttibilità della vita, seppe del Divino, seppe di nuovo tutto ciò che aveva dimenticato.
Ma fu solo un momento, un lampo, poi Siddharta ricadde ai piedi dell’ albero di cocco, abbattuto dalla fatica: continuando a mormorare Om, posò la testa sulle radici del tronco e cadde in un sonno profondissimo.
Profondo fu il suo sonno, e libero da sogni: da lungo tempo non aveva più conosciuto un sonno tale, Quando si risvegliò dopo parecchie ore, fu come se dieci anni fossero trascorsi: udì il lieve sussurrare dell’ acqua, e non sapeva dove fosse, nè chi l’avesse portato qui; schiuse gli occhi, guardò con meraviglia gli alberi e il cielo sulla propria testa, e si ricordò dove fosse, e come fosse venuto qui. Ma gli occorse per questo un certo tempo, e il passato gli apparve come avvolto in un velo, infinitamente lontano, infinitamente superato, infinitamente indifferente. Sapeva solo di aver abbandonato la propria vita di un tempo (nel primo riacquisto della memoria questa vita d’un tempo gli parve come una vecchia e remota incarnazione del suo Io attuale, anzi una stadio d’esistenza prenatale) , sapeva solo che, pieno di disgusto e di miseria, aveva perfino voluto far getto della vita, ma che lungo un fiume, sotto un albero di cocco, era ritornato in sé, con la sacra parola Om sulle labbra, poi s’era assopito e ora, risvegliato, guardava il mondo come un uomo nuovo.
PIER PAOLO PASOLINI
Nel 1922, l’anno in cui Mussolini va al potere, Pier Paolo Pasolini nasce, a Bologna, il 5 marzo. Il padre è ufficiale di fanteria, di antica famiglia ravennate, la madre è maestra elementare, di famiglia contadina originaria di Casarsa nel Friuli. Durante l’infanzia e l’adolescenza, a causa dei continui trasferimenti del padre (ufficiale di carriera), si sposta prima a Parma, quindi a Belluno, Conegliano, Cremona e Reggio Emilia. Fondamentali rimangono i soggiorni estivi a Casarsa, l’incontaminato, primitivo puro mondo campestre a cui sarà strettamente legato il suo esordio letterario e a cui emotivamente lo scrittore rimarrà legato per tutta la vita.
La volontà espressiva di Pasolini è da considerarsi multiforme. Egli non si limita ad usare i codici espressivi, ma vi accompagna sempre la riflessione e la teorizzazione. Questo per esaltare sia la parola che l’immagine, affiancando saggi sul cinema a quelli sulla lingua e la letteratura.
L’attività di poeta si concretizza a Casarsa, durante la seconda guerra mondiale. La produzione di quegli anni è legata al dialetto friulano; la sua però non è solo una scelta formale, ma più propriamente ideologica. Pisolini abbracciò alcune teorie linguistiche di origine marxista, secondo le quali la lingua orale si identifica con la realtà e il popolo, mentre la lingua scritta rappresenta meglio la borghesia. Questo spiega come molti dei suoi versi egli li abbia scritti in lingue minori, ne è un esempio la prima raccolta poetica di Pier Paolo Pasolini “Poesie a Casarsa”.
Dopo la fuga obbligata dal Friuli, grande fu la produzione di romanzi, poesie ma anche sceneggiatura. Importantissimi in questi anni sono i due romanzi “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, che preannunciano già il cinema di Pasolini.
IL CINEMA
Alle soglie degli anni 60 Pasolini sentiva che la lingua letteraria della tradizione era giunta all’esaurimento; per sfuggire alla crisi della parola minacciata dalla mediocrità di massa, cercò l’alternativa di un nuovo mezzo espressivo, non ancora contaminato di demagogia. La trovò nel cinema, che è aperto a più orizzonti ancora tutti da esplorare. Diceva lo stesso Pasolini: “il cinema non evoca la realtà come la poesia, non copia la realtà come la pittura, non mima la realtà come il teatro, il cinema riproduce la realtà di immagine e suoni, è semiologia naturale della realtà”. Il cinema diventa per Pasolini lingua scritta della realtà. Ed è proprio la rappresentazione della realtà il punto di incontro e di arrivo dei codici espressivi usati da Pasolini. Dalla poesia al cinema il suo l’intento è quello di eliminare dalla realtà gli ostacoli magici-simbolici, trasformandola in una sequenza incontaminata di banalità.
Per quanto riguarda il cinema, Pasolini inizia la sua carriera di regista nel 1960. Dal punto di vista del linguaggio e della tecnica cinematografica è completamente analfabeta.
Questo gli permette di affrontare in modo naturale e incondizionato, un sistema di comunicazione di massa molto più forte della letteratura, già travolto e malformato dalla società borghese privilegiata e omologatrice. Il suo cinema quindi, anche se tecnicamente sgrammaticato, può permettersi di distaccarsi dal contesto cinematografico di quegli anni specialmente da quello neorealista con cui spesso viene confuso.
Inoltre il cinema di Pasolini può porsi come denuncia sociale e soprattutto politica, contro lo strapotere della società del consumismo, che è attento al profitto di pochi e ignora la miseria di molti. Questa denuncia politica che era già dominante nella letteratura di Pasolini e che dal 1960 si ripropone fortemente nel cinema, sarà la causa di tantissimi processi ai danni dell’artista, processi per oscenità, vilipendio alla religione di stato e tanti altri.
Il film “Teorema” del 1968 è incentrato proprio sul mondo interiore che è in ognuno di noi e le strade che la vita ci porta a condurre alla ricerca della nostra identità completa. Il sacrificio è l’unico mezzo con cui l’uomo può giungere al deserto della propria anima, sacrificio che consiste nello staccarsi dalla figura di uomo che la società impone e che impedisce di giungere alla meta.
Coloro che invece restano legati alla concretezza della vita non giungono a nulla se non alla sofferenza. Questo film fu pesantemente criticato da tutte le forze politiche, che non ne compresero il senso, soffermandosi solo sulle scelte formali e narrative di Pasolini, soprattutto per quanto riguarda la tematica sessuale. In realtà Pasolini voleva dimostrare il vuoto e l’impotenza della borghesia posta a confronto con se stessa, anche dal punto di vista umano e psicologico.
Il successo di Pasolini come regista italiano per il film “Medea” del 1969 sarà fonte stessa di critiche nei suoi confronti: colui che denunciava l'omologazione della società a causa della perdita di valori a favore dell'interesse per il profitto, diveniva un prodotto stesso della società consumistica, lasciandosi strumentalizzare dai sistemi di comunicazione di massa come il cinema.
Pasolini non accolse tali critiche rispondendo che al contrario era lui alla ricerca della strumentalizzazione dei sistemi di comunicazione di massa a favore del suo pensiero. Ciò che Pasolini vuole far emergere dalla storia di Medea è il contrasto tra civiltà differenti contrasto che sfocia nella tragedia di Medea e Giasone, che seppur innamorati non riescono a comprendersi.
Nel giugno del 1968 Pasolini scrisse una delle sue poesie più discusse, più famose ma anche paradossalmente meno capite: "Il PCI ai giovani". Il dibattito sulle lotte studentesche in corso in tutto il mondo arrivava anche in Italia; Pasolini scrisse alcuni versi che gli attirarono pesanti critiche da parte del movimento studentesco e, in generale, dei partiti della sinistra. Questi i versi maggiormente "incriminati":
... Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti!
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.
[...]
Hanno vent'anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d'accordo contro l'istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all'altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è cosi avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. ...
IL TEATRO COME ATTUALITA’
Il Sessantotto può essere definito sul piano teatrale come il risultato della ricerca di un nuovo pubblico come destinatario, e di un rinnovato rapporto con questo stesso. Luca Ronconi mette in scena l'Orlando Furioso, il teatro italiano ritorna alle radici e ridiventa un teatro di piazza, teatrini sperimentali fioriscono in periferia di Milano e di Torino, Streheler inaugura le prime rappresentazioni al Piccolo Teatro di Milano, e Dario Fo propone un nuovo tipo di teatro più qualitativo ma nello stesso tempo libero e fruibile da tutti.
Il suo gruppo di attori La Nuova Scena, divulga nei propri spettacoli una dialettica precisa, non cerca di strappare gli applausi del pubblico attraverso una spettacolare scenografia o il pathos dell'interpretazione, ma attraverso un dialogo, abbastanza provocatorio, aperto, e senza mediazioni tra la Compagnia ed il pubblico. Lo spettacolo stesso il più delle volte non avviene all'interno di un teatro tradizionale, ma in zone cittadine pubbliche, come circoli politici, giardini pubblici, palestre e stadi di calcio addirittura chiese. Quasi sempre gli spettatori non pagano un biglietto di entrata, è cioè un tipo di teatro aperto a tutte le classi sociali, anche quelle più povere e gli spettacoli sono sovvenzionati da volontari e dai Soci del Circolo dell'ARCI.
Un teatro interamente aperto al pubblico che ritrova le proprie origini nell'essere recepito dall'utente senza mediazioni esterne. L’opera più in importante di Fo è Mistero Buffo in cui si tenta la rivisitazione di un teatro di epoca pre-capitalistica, quello popolare medioevale che sarebbe stato a detta dello stesso Fo, " il giornale parlato e drammatizzato del popolo” e che potrebbe così permettere al teatro italiano di recuperare la propria identità attraverso un processo regressivo, grazie proprio ad un ritorno alle fonti vitali. Secondo Fo, ancora prima dell'avvento dei mass-media, che hanno dato il colpo di grazia alla repressione culturale già operata dalla borghesia mercificando infine ogni forma di spettacolo, il popolo avrebbe avuto una sua autonomia espressiva, primaria ed organizzativa soprattutto attraverso forme teatrali a cui si aggiungeva anche una propria langua.
Nella prima stesura di Mistero Buffo, che è poi quella qui trattata, Fo punta soprattutto a far rivivere la cultura delle classi subalterne, da sempre messa in disparte e quasi cancellata. È proprio su questo concetto che nel 1969 incominciava Mistero Buffo. Fo, nel suo spettacolo, alternando citazioni erudite a battute e riferimenti satirici rivolti all'attualità, sostiene che si tratta di un pezzo di origine popolare che ha tutte le caratteristiche di una ballata che poteva anche essere recitata nelle piazze.
Nel Medioevo, dice Fo, esistevano due culture ben distinte: quella aristocratica che veniva elaborata nelle abbazie e che era legata alla tradizione bizantina, e quella popolare legata al lavoro che si esprime nei canti, nelle danze, e dove si ritrova anche l'elemento favoloso delle leggende popolari come animali parlanti o i fuochi fatui. In questa cultura medioevale rivivono tutti i ritmi del lavoro manuale: dagli strambotti ai cordari, alle pavane risalgono tutti ai gesti richiesti di un lavoro che sia, gondoliere o pescatore, cucitrice o cameriera, e che poi sono diventati ritmi di canto. Dentro questa cultura antica ruota Mistero Buffo, che a sua volta è mosso dalla figura dell'attore-giullare che di volta in volta diventa pescatore, gondoliere, medico e, trasportato ai nostri giorni, casalinga, ferroviere, casellante, contadino, ecc.
E’ proprio attorno alla figura del giullare che si salda l'espressione teatrale del popolo.
LA LETTERATURA
Sul piano strettamente letterario i movimenti del sessantotto non hanno una diretta influenza univoca. Una parte dell’avanguardia letteraria in Italia avverte la militanza politica come contrapposta all’attività di scrittura, privilegiando ora l’una ora l’altra. In ogni caso è possibile rintracciare nella letteratura opere che in vario modo si richiamano a quel momento oppure che devono al sessantotto una larga diffusione presso il pubblico in virtù di una comunanza di valori.
CINEMA COME PRATICA SOCIALE
Nel periodo del Sessantotto la cinematografia risulta profondamente influenzata nelle tematiche e nel contempo si pone anche come testimone degli avvenimenti e delle situazioni. Un cinema di descrizione e denuncia sociale, in particolar modo in Italia, nasce ben prima del Sessantotto.
L’ESPERIENZA DI UGO GREGORETTI
La figura di Ugo Gregoretti è poco classificabile all’interno di un percorso cinematografico, ma molto nota all’interno del panorama culturale italiano. Pur essendo soltanto uno dei tanti campi nel quale Gregoretti si cimentò, il suo cinema si contraddistingue per la “pratica sociale”, prodotto di un’esperienza che lo avvicinò alla società del Sessantotto. I nuovi angeli (1962), è un’indagine sui giovani italiani negli anni Sessanta, sul costume dell’epoca, sulle credenze e usanze che caratterizzano gli anni del boom economico. Con Omicron (1963) punta l’obiettivo su una fabbrica, e unendo fantascienza e denuncia sociale inizia a osservare una società che non è più quella del benessere, ingenua e spensierata, ma in cui si fanno strada le rivendicazioni sociali, anticipando molto le agitazioni operaie del ’68-’69.
Occupandosi poi degli avvenimenti che si susseguirono e della conseguente politicizzazione del cinema, cercò di trovare attraverso l’analisi dei documenti militanti del 1968, le caratteristiche essenziali di questa forma di cinema. Apollon, una fabbrica occupata(1968) e Contratto(1969) segnarono la svolta per il regista. A ridosso delle agitazioni sessantottine costituiscono la risposta concreta e utile di Gregoretti al problema del collegamento alla classe operaia. Questi “documentari” girati nelle fabbriche e in giro per l’Italia, a fianco degli operai, porteranno Gregoretti a essere il leader del blocco del festival di Venezia nel 1968, e del cinema militante.
IL MONDO A RITMO DI ROCK'N'ROLL
Il periodo sessantottino, in ambito musicale, durò poco più di un decennio, tra il 1964 e il 1977. E’ impossibile non scorgere in esso i segni di un radicale cambiamento nel costume e nel pensiero di milioni di persone, non solo in Italia ma in tutto l'Occidente. Fu come una lunga scossa elettrica, che - viaggiando sulle onde sonore della musica rock - raggiunse gli studenti di allora e li unì in un impeto di rivolta contro l'ordine costituito, sia in Italia che in America, con affinità e differenze.
LE RADICI DELLA CONTESTAZIONE: ROCK’N’ROLL E BEAT
Un salto indietro. Il rock'n'roll, diversamente da tutti gli altri movimenti, ha una precisa data di nascita: 12 aprile 1954. Quel giorno, infatti, Bill Haley e il suo gruppo (The Comets) registrano una canzone, strutturata come un blues ma eseguita più velocemente. Titolo: "Rock around the clock". E' il big bang; favorito dal suo inserimento nella colonna sonora del film "Il seme della violenza" (1955), il brano fa il giro del mondo e si guadagna fama imperitura. Sulla scia del successo di Bill Haley emergono - veloci come funghi dopo un temporale - gruppi e solisti che scriveranno pagine fondamentali nella storia della musica leggera: Little Richards, Bo Diddley, Chuck Berry, Gene Vincent, Jerry Lee Lewis e altri ancora.
IL PREOCCUPANTE PRESLEY
Cominciano, per le famiglie americane, giorni movimentati: padri e madri di tutti gli States devono far fronte alle turbolenze dei loro figli adolescenti, le cui inevitabili tempeste ormonali subiscono - ad opera della frenesia del rock'n'roll - una considerevole amplificazione. Le tradizionali feste di fine anno scolastico diventano sempre più "divertenti", e le preoccupazioni dei genitori crescono insieme al divertimento. I contrasti familiari sono all'ordine del giorno: non è facile mettere d'accordo un papà infastidito dal tambureggiare dei signori di cui sopra e un figlio che glieli propina da mattina a sera. Il peggio si teme quando Elvis Presley fa la sua comparsa all'"Ed Sullivan show", trasmissione televisiva seguitissima negli Stati Uniti. Quella sera, attraverso le telecamere della Nbc, la trasgressione entra nelle case di mezza America: Elvis non lesina provocanti roteate di bacino, guadagnandosi l'appellativo di "the Pelvis" e scatenando un uragano nei desideri sessuali di chi ha un'età compresa tra i quindici e i vent'anni.
Il messaggio viaggia diretto come un treno, sulle note di "Heartbreak hotel", e si traduce in un esplicito invito a lasciarsi andare. Si tratta, però, di un fuoco di paglia; nonostante l'indiscusso carisma di Elvis - vero e proprio "leader" dei giovani - bisognerà attendere ancora qualche anno per assistere all'esplosione di quella contestazione che, intrecciando elementi politici e sociali, stravolgerà la quotidianità delle famiglie, al di là e al di qua dell'Atlantico.
ITALIA: CAMBIO DELLA GUARDIA
Mentre gli Stati Uniti sono intenti ad arginare quel fiume in piena che va sotto il nome di Rock'n'roll, in Italia si pensa soprattutto a uscire dalla profonda crisi economica ereditata dalla Seconda Guerra Mondiale. Alfieri della canzone sono Claudio Villa, Nunzio Gallo, Gino Latilla, Achille Togliani; tutti devoti sudditi della regina Nilla Pizzi. La musica leggera fa sognare, e non passa per la testa di alcuno - cantante, discografico e tantomeno ascoltatore - l'idea di seguire l'esempio che viene dagli States. Ma l'ondata americana è irresistibile, e in qualche anno riesce a percorrere l'oceano per arrivare a bagnare le coste del Bel Paese. Elvis fa proseliti tra le nuove leve: Little Tony, Bobby Solo e - meno sfacciatamente - Adriano Celentano rappresentano la versione "all'amatriciana" del Re del Rock. Ma quando costoro cominciano a scalare le hit parade italiane, in America Elvis consegna virtualmente lo scettro nelle mani di un tale Robert Zimmermann, che conoscerà fama mondiale col nome di Bob Dylan.
IL MENESTRELLO DELLA PACE
E' il 1962, e l'ex sovrano Presley affianca alla produzione discografica quella cinematografica, recitando in filmettini i quali riscuotono un discreto successo. Il vento, però, sta cambiando: meglio, "The times they are changin'", come canta in quegli anni il menestrello Dylan, il quale, per attirare a sé milioni di giovani, si serve di una chitarra e di un'armonica, trasferendo nelle parole quella forza devastante che pochi anni prima albergava nei ritmi indiavolati e nelle schitarrate al fulmicotone dei vari Chuck Berry e Bo Diddley. Corre l'anno 1962, come abbiamo detto, e nei negozi di dischi compare "The freeweelin'", secondo lavoro di un artista nato nel '41 a Duluth, Minnesota, e formatosi culturalmente a New York, nei club del Greenwich Village frequentati da beatnik quali Jack Kerouack, Gregory Corso, William Burroughs, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti. Dylan unisce la tradizione dei folk singer (suo nume tutelare rimarrà sempre il più noto tra essi, Woody Guthrie) alla protesta sociale degli scrittori beat. Si fa, quindi, cantore di una realtà che sfiora la Terza Guerra Mondiale a causa delle frizioni tra Usa e Urss sulla questione dei missili nucleari sovietici installati a Cuba. Nasce così una canzone che diverrà l'inno pacifista per antonomasia: "Blowin' in the wind". Il vento pacifista soffia come fosse un ciclone: due anni più tardi, nella calda e sempre assolata California, si assiste alla prima contestazione studentesca della storia.
IL MEGAFONO DI UNA GENERAZIONE
All'università di Berkeley, in quel di San Francisco, uno studente di origini italiane - Mario Savio - tiene a battesimo il "movimento degli studenti". E' il 14 settembre 1964, data significativa, poiché segna anche - nell'opinione di molti - la nascita del rock. A differenza di suo papà rock'n'roll, interprete di un cambiamento circoscritto all'ambito musicale e sociale, il rock è sfacciatamente politico. Non solo la crisi cubana e la rivolta studentesca possono considerarsi il motore della protesta. Ad esse vanno aggiunti la lotta per i diritti civili dei neri e di altre minoranze, il rifiuto della guerra del Vietnam (cominciata due anni prima) e, non ultimo, il colossale choc provocato dall'assassinio del presidente Kennedy a Dallas (22 novembre 1963). L'America è come bruscamente svegliata da un sogno bellissimo, quello di una "nuova frontiera" di pace e serenità. I giovani, nella loro ingenuità, fiutano un futuro di incertezze, e cercano nella protesta collettiva una via che porti ad un mondo migliore. Il rock diventa quindi il megafono di una generazione idealista e confusa, che si identificherà totalmente nelle parole e nella musica di artisti quali Crosby, Stills, Nash & Young, Jim Morrison, Jimi Hendrix, Janis Joplin, "eroi maledetti" ma anche splendidi interpreti di canzoni che hanno fatto la storia della musica leggera.
IL MOVIMENTO HIPPIE
I primi fermenti rivoluzionari si espressero attraverso il movimento hippie. Sull'onda del conflitto armato che vede impegnati in Vietnam migliaia di giovani americani tra i diciannove e i venticinque anni, chi tra loro non è partito per quella giungla sente il dovere di manifestargli solidarietà con slogan "Fate l'amore, non fate la guerra". Gli hippie sono la quintessenza del pacifismo: sognano un mondo senza più guerre, di persone libere di fare ciò che desiderano senza restrizioni. Essi, quindi, inaugurano le pratiche della libertà totale seguendo l'insegnamento delle mistiche orientali, favorendo l'espansione della coscienza, l'utopia. Un forte aiuto viene loro dal consumo di droga: hashish, marijuana e lsd gareggiano con gli alimenti di prima necessità, al punto da favorire la nascita di una musica concepita proprio per accompagnare stati di alterazione da stupefacente. E' quella che viene chiamata "musica psichedelica": una sequenza di suoni cantilenanti e ripetitivi, intervallati da improvvise accelerazioni, che guidano l'ascoltatore in un cosiddetto "trip", ossia un viaggio alla ricerca dell'emozione forte. I limiti della morale comune si abbassano notevolmente: si organizzano meeting erotici, chiamati Love-in, si vive sempre di più insieme, stravolgendo il concetto canonico di famiglia e inaugurando quel mito del collettivo che si affermerà come vedremo - con una forza dirompente anche nella vecchia Europa.
QUELL'ANNO FATIDICO
Il rifiuto della società che gli hippie chiamano consumistica, e il ritiro in una vita agreste e semplice, in un socialismo primitivo dove non esiste proprietà privata, fanno da sfondo alla deflagrazione del rock. Non importa che le venature musicali siano jazzistiche, o pop, o folk: quel che conta è appoggiare senza riserve la filosofia rivoluzionaria che promana dalla baia di San Francisco, luogo di nascita degli hippie (molti di loro, infatti, fanno parte di quel movimento studentesco di cui abbiamo parlato in precedenza).
Due, in particolar modo, sono i soggetti musicali che, accanto al sempre presente Dylan, fanno da menestrelli della rivoluzione: Grateful dead e i Jefferson Airplane. I primi, genuino prodotto da comunità hippie, non abbandoneranno mai l'idea di musica come veicolo onirico: la chitarra di Jerry Garcia, loro leader, passerà alla storia come la miglior compagna di "trip" dopo quella di Hendrix. Differente sarà la sorte dei Jefferson airplane: partiti dalle stesse sponde dei Grateful, approderanno poi ad un rock politico quando, nel 1970, daranno alla luce l'album "Volunteers", apertamente ostile a quella guerra in Vietnam che non intende concludersi. Ma rimaniamo agli anni in questione, in particolare al 1967: un anno fatidico, per la storia del rock. E' quello della "summer love" proclamata dal movimento hippie e, al contempo, dell'uscita del disco che cambierà il modo di fare musica pop: "Sgt. Pepper's lonely hearts club band", dei favolosi Beatles. I quattro di Liverpool, sino ad ora trascurati dal nostro racconto, formavano - insieme ai rivali Rolling Stones - un "movimento trasversale", che univa i giovani di tutto il mondo indipendentemente dall'appartenenza ad un gruppo specifico.
Anche in Italia dove gli anni precedenti il '68 videro l'affermarsi di personaggi quali Gianni Morandi, Gino Paoli o Mina - i "FAB FOUR" riscuotono un buon successo, anche se non paragonabile all'isteria collettiva che colpisce migliaia di giovani britannici e americani. La loro musica, d'altronde, è semplice e orecchiabile; le loro canzoni sono come un dolce casereccio ma buonissimo: pochi accordi ne costituiscono gli ingredienti, eppure la combinazione è fenomenale.
I BEATLES IN ORBITA
"Yesterday", "Michelle" e almeno altri venti brani detengono il primato di più eseguiti nel mondo. Il '67, dicevamo, è per i Beatles un anno fondamentale. Reduci da un'esperienza di qualche settimana in India nella comunità capeggiata dal santone Marahishi Mahesh, i cui insegnamenti erano tenuti in grande considerazione da George Harrison, una volta rientrati in studio di registrazione scaricano sulle bobine una musica nuova, nella quale parole e note si fondono alla perfezione in un prodotto che - perfettamente in sintonia con la cultura hippie - si adatta a meraviglia alla logica di mercato, vendendo milioni di copie su tutto il pianeta. Per la prima volta nella storia del rock un disco reca pubblicati i testi delle canzoni, e che testi: si parla di viaggi lisergici (Lucy in the sky with diamonds), di miti collettivi e del valore dell'amicizia (With a little help from my friends), di sogni pacifisti (A day in the life). Praticamente la summa del pensiero hippie, però divulgata dal gruppo rock più famoso sulla faccia della terra.
In quel momento, la maggioranza dei giovani del pianeta si sente parte della grande famiglia dei "figli dei fiori".
Mentre gli Usa, e in parte l'Inghilterra, devono vedersela con un movimento giovanile determinato a realizzare l'utopia della società ideale, nel nostro Paese si pensa ancora ad ascoltare musica per puro divertimento. L'impatto con il ciclone Beatles sortisce l'effetto di un temporale estivo.
Ai tre concerti che il gruppo tiene in Italia nel 1965 - complici i prezzi troppo elevati, corrispondenti a circa 50 euro attuali - partecipano poco più di trentamila persone. Il loro ultimo concerto (29 agosto 1966, Shea stadium di San Francisco) fu visto da 65.000 ragazzi. La ragione di questo fenomeno è molto semplice: pochi, in Italia, conoscevano l'inglese, e non avevano molta voglia di cantare canzoni delle quali non comprendevano il significato. Ecco perché privilegiati furono i cantanti nostrani: tra i vari Nico Fidenco, Jimmy Fontana, Celentano e Bobby Solo, il vero re del mercato discografico è Gianni Morandi. Faccia da bravo ragazzo, dimostra meno dell'età che ha ed è sicuramente più innocuo dei suoi "smidollati" colleghi d'oltreoceano.
E IN ITALIA ANCHEGGIA CELENTANO
Ma Gianni Morandi non è il solo, in Italia, a suscitare quel sentimento; la maggior parte dei cantanti degli anni '60 ha l'aspetto del ragazzo della porta accanto. Il massimo della trasgressione è compiuto da Adriano Celentano, che in un Festival di Sanremo attacca "24.000 baci" dando le spalle al pubblico e ancheggiando furiosamente. Ma qualcosa sta cambiando. Gli echi di Bob Dylan, Kerouack e Ginsberg pian piano arrivano a bagnare le coste del Bel Paese e a influenzare alcuni gruppi che non perderanno tempo nel definirsi "Beat". Sono i Dik Dik, L’Equipe 84, I Nomadi, I Giganti, autori di testi più impegnati e rivolti al vento di novità che arriva dagli States. I genitori, già restii nel comprendere la passione dei propri figli per i Celentano, i Don Backy o i Bobby Solo, si trovano letteralmente spaesati di fronte a ragazzi che all'ora del desco, tra uno spaghetto e l'altro, discutono di pacifismo, di mondi migliori e di crisi dei valori di una società che sembra invecchiata di colpo.
I più audaci sostengono convinti che "...Dio è morto, nei bordi delle strade, nelle auto prese a rate, nei miti dell'estate". Le madri si fanno il segno della croce, e a nulla servono le parole dei loro pargoli, pronti a spiegare che si tratta di una canzone dei Nomadi scritta da Francesco Guccini, il quale a sua volta l'ha ripresa dalla poesia di Ginsberg "L'urlo".
La protesta sociale, pian piano, raggiunge l'intensità che la caratterizza negli Usa. Teatro delle canzoni del beat italiano non è l'università, né i circoli letterari (come accadeva a New York, nel Greenwich Village), bensì una discoteca che farà epoca: il Piper Club, a Roma. Aperto nel 1965, il locale di via Tagliamento fa da alcova per il beat tricolore: vi suonano tutti i calibri dell'epoca, e su quel palcoscenico nasceranno due stelle, Caterina Caselli e Patty Pravo. La prima favorirà di molto l'ingresso della musica anglofona in Italia, grazie alle interpretazioni - rigorosamente tradotte - dei brani di Otis Redding, di Cat Stevens (altro grande eroe hippie americano), dei Rolling Stones, la seconda, invece, introdurrà a pieno titolo la parola "scandalo" nel vocabolario musicale, cantando temi scabrosi come l'omosessualità e il ménage à trois. I giovani italiani sono in fermento: sentono che è giunta l'ora di farsi sentire, proponendo un messaggio che abbia una sostanza. La canzone, quindi, si appropria di contenuti anche politici, soprattutto da parte dei cantautori, alcuni dei quali scriveranno veri e propri "manifesti" di quella contestazione sessantottesca che ormai è pronta a deflagrare.
IL SESSANTOTTO
Gli scontri generazionali che cominciano ad imperversare in tutto il mondo nel 1968 sono strettamente legati al mondo della musica: infatti nulla più della canzone, nella sua brevità, è in grado di fotografare un sentimento e di fissarlo - grazie alla musica - nella memoria di chi ascolta. Inoltre, la canzone è il pane quotidiano dei giovani, cioè di coloro che, in questo momento, hanno tutte le intenzioni di cambiare il mondo. Basta quindi una chitarra, due accordi e parole pesanti come un macigno per scaldare - talvolta eccessivamente - gli animi dei ventenni.
Quella rivoluzione musicale compiuta, come abbiamo visto, dai beatnik italici diviene esplicitamente politica. Esemplare, per capire la metamorfosi, l'analisi di due testi: "Ciao amore ciao", di Luigi Tenco e "Valle Giulia" di Paolo Pietrangeli. Il primo, presentato al Festival di Sanremo nel 1967, in un passo recita: "...saltare cent'anni in un giorno solo / dai carri nei campi agli aerei nei cieli / e non capirci niente / e aver voglia di tornare da te". Questo, invece, un frammento da "Valle Giulia" (1968): "...il primo marzo, sì, me lo rammento / saremo stati in millecinquecento / e caricava la polizia / ma gli studenti la cacciavan via / No alla scuola dei padroni / via il governo, dimissioni"
LA TRAGEDIA DI TENCO
Tenco, interpretando i sentimenti del bracciante meridionale che cerca lavoro al nord, trascinato dal miracolo economico, tenta invano di coniugare la protesta sociale con il Festival musicale più popolare del Paese. La canzone non piace, viene esclusa dalla serata finale e Tenco, sconvolto da un misto di indignazione e depressione, si toglie la vita con un colpo di pistola. Non è sbagliato definirlo un protomartire della "rivoluzione prossima ventura" che, invece, regalerà gloria e fama a Paolo Pietrangeli e ad altri suoi colleghi. Il suicidio di Luigi Tenco, infatti, porta nel mondo della canzone la inquietudine dei tempi: il boom economico - e i connessi sogni degli italiani - cominciano a vacillare. Ma la classe dirigente dell'Italia di allora, inseguendo indefessa un progetto di grandi riforme politiche, economiche e sociali, ignora che stanno per verificarsi due veri e propri cataclismi: la Contestazione e la crisi economica. Se le prime avvisaglie di protesta del 1967 sono attutite da una società che fatica a staccarsi da modelli rassicuranti (si pensi che il Festival in questione fu vinto da Iva Zanicchi in coppia con Claudio Villa), il giorno di "Valle Giulia" non può rimanere nell'ombra, e dà il la ai dieci anni più bui del dopoguerra italiano.
NON C'E' PACE NEGLI STATES
Gli Stati uniti, diversamente dall'Italia, sono alle prese con una guerra che sta falcidiando una generazione. La gioventù americana è divisa in due grandi blocchi: c'è chi decide di rischiare la vita in Vietnam e chi - renitente alla leva - preferisce rimanere in patria a protestare per l'ingrata sorte che è toccata al suo coetaneo militare. Il movimento pacifista, quindi, occupa il centro del proscenio politico statunitense. Il gran bisogno di pace è anche dettato dalla confusione nella quale il paese è precipitato dopo gli omicidi di Bob Kennedy e Martin Luther King, guide spirituali per tutti coloro che sognavano un mondo meno crudele.
Tuttavia, nonostante Nixon proceda al graduale ritiro delle truppe americane dal Vietnam, le proteste pacifiste sono all'ordine del giorno. E' il momento in cui il rock, più che mai, si fa politico: la chitarra elettrica si trasforma in un mitra, e scarica gragnuole di note che mirano alla destabilizzazione dell'ordine costituito.
L'ESPLOSIVO "RE LUCERTOLA"
Tra le “nuove leve” due soggetti riscossero un enorme successo: Jim Morrison e Jimi Hendrix. Figlio di un militare di carriera che nel fatidico '68 guadagnò i galloni di ammiraglio, appartenente a quella middle class tanto vituperata dai giovani, Morrison offre di sé una doppia lettura: c'è chi lo vede come la "coscienza critica" di quella classe sociale, una sorta di "redentore dall'interno" dei peccati da essa commessi, e chi lo considera il classico figlio di papà che - mai a secco di dollari in tasca - può permettersi di "giocare alla contestazione". In realtà, il "Re lucertola" (soprannome nato dall'abitudine di indossare, pressoché sempre, pantaloni di pelle nera) era consapevole del suo essere artista, dell'essere un poeta i cui versi erano sorretti dalla musica dei suoi tre amici, con i quali aveva fondato il gruppo dei Doors. Il nome è un esplicito omaggio allo scrittore Aldous Huxley e alle sue "porte della percezione". E la percezione di un mondo nuovo fu il traguardo che si ponevano le canzoni di Jim nelle quali, però, l'imperativo non era la ricerca di una pace universale, bensì il superamento dei vecchi tabù. L'esordio dei Doors su un palcoscenico è a dir poco tempestoso: nel bel mezzo di "The End", canzone simbolo tra quelle del gruppo, il nostro si produce in un recitativo, scandito dal ripetitivo incedere dell'organo elettronico, che poi esplode in versi inquietanti anche ai nostri giorni. Si capisce, sin dalle prime battute, che la carriera di Morrison non ripercorrerà le orme battute da altri suoi colleghi i quali, pur cavalcando la tigre, sapranno - a un certo punto - mettere la testa a partito e godersi le tonnellate di dollari che riposano nei forzieri delle loro banche di fiducia. La vita del "Re lucertola", invece, sarà costellata di eccessi: alcool, droga, esperienze di satanismo, denunce per atti osceni in luogo pubblico. Un eroe maledetto in piena regola, ma con una cultura alle spalle comunque ben definita. Legge Nietzsche, e ne incarna perfettamente l'ideale di "uomo che non è più artista ma diviene opera d'arte". Più di tutti gli altri, infatti, Morrison vive la vita che scrive nelle sue canzoni. Il suo motto è: "meglio bruciare in una volta sola che spegnersi lentamente". La sua candela si spegne nel 1971, a Parigi, a ventisette anni. Le sue spoglie, tumulate al Père Lachaise, sono ancora oggi le più venerate di quel cimitero.
IL SUONO DI HENDRIX: UNICO
Veniamo a Jimi Hendrix. Quello che ha fatto Morrison con le parole, Jimi fa con la musica. In particolare con la sua chitarra elettrica, quella Fender Stratocaster che, nell'immaginario di ogni chitarrista rock, è un'icona da venerare ogni giorno. In effetti, Hendrix inventa un nuovo modo di suonare: autodidatta, unisce un innato talento tecnico alla capacità di saper andare oltre i limiti sino ad allora consentiti dalla tecnologia. Hendrix lavora come un jazzista: ricerca un suono che sia il suo, tale da permettere all'ascoltatore di riconoscerlo sin dalle prime battute. E vi riesce, al punto da creare suoni che, molti anni più tardi, sono stati immagazzinati e riprodotti in quelle scatolette a pedale che i musicisti di oggi adoperano per imprimere un effetto particolare alla propria chitarra.
A tale genialità, come per Morrison, corrisponde tanta sregolatezza. Anche Hendrix, infatti, non lesinerà alla sua vita eccessi e sregolatezze, e anche lui morirà anzitempo, in una camera d'albergo londinese, nel 1970, soffocato dal suo vomito in seguito ad un overdose. L'anno prima, Hendrix era stato il grande protagonista del festival di Woodstock, mega raduno al quale parteciparono 500.000 ragazzi. Teatro di quel concerto di tre giorni - 15, 16, 17 agosto - è la fattoria di Max Yasgur. Durante quelle settantadue ore di musica e amore, si alternano sul palco i più grandi nomi del rock di allora: The Band (il gruppo che accompagnava Dylan), gli Who, Crosby, Stills & Nash, Santana, Joe Cocker. Ma il simbolo del concerto più famoso della storia del rock è Jimi Hendrix: all'alba dell'ultimo giorno, chiudendo la rassegna, Jimi estrae dalla sua chitarra la versione più malinconica - e al contempo dissacratoria - di "Star Spangled Banner", l'inno degli Stati Uniti. La sua tirando le corde e dando fondo a tutta la drammaticità del suono, che si trasforma quasi in un lungo lamento. Ad ascoltarlo c'è, forse, un decimo degli spettatori complessivi che hanno affollato Woodstock in quei giorni. Tutto intorno è una landa desolata, resa fangosa dal temporale che si è abbattuto nella zona qualche ora prima. Una fotografia che è diventata un simbolo, quella della fine dei sogni e dell'inizio della realtà: la realtà di un'America difficile e controversa.
SVILUPPO E FINE DELLA CONTESTAZIONE
CANTAUTORI IMPEGNATI
Dal 1969 al 1976, l'attenzione dei cantautori è catalizzata dallo scenario politico, in particolar modo dall'avanzata della sinistra e in particolare del Pci, che arriva a sfiorare, proprio nel '76, una storica vittoria elettorale. Lo slogan dei giovani di quegli anni è "uniti contro la Dc", vista come il partito di dinosauri, di burocrati e di burattinai. Nonostante l'entusiasmo del Paese nella difesa della libertà contro il terrorismo nero (caratterizzato dall'uso delle bombe, come quella che nel 1969 a Piazza Fontana tolse la vita a 12 persone) e le minacce di golpe, la vittoria del referendum sul divorzio nel 1974, il Partito Comunista non riuscirà mai a sorpassare la Democrazia Cristiana, sorretta - nel 1976 - da una maggioranza silenziosa analoga a quella che, otto anni prima, permise a Charles De Gaulle di rimanere all'Eliseo contro tutte le previsioni. La canzone, per tutto questo periodo, respira quest'aria, se ne nutre. I giovani, in quegli anni, abbandonano l'ambito istituzionale della musica leggera e si riversano negli spazi aperti ai giovani dalla Sinistra. In questo ambiente nasce la nuova canzone, definita "impegnata" poiché tratta problemi del quotidiano, di condizione operaia, di libertà dell'individuo. Voci di allora sono Francesco Guccini, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Edoardo Bennato, ma anche - su toni più leggeri e meno politici – Lucio Dalla, Paolo Conte, Fabrizio De Andre’. Nel '72, la Contestazione fa il suo ingresso in Hit Parade, con la canzone "Piazza del popolo" di Claudio Baglioni, storia d'amore vissuta in una manifestazione studentesca dispersa dalla polizia. Una delle poche canzoni a sfondo politico di Baglioni, reo di cantare l'amore e quindi di estraniarsi dal contesto di allora, molto più degno d'attenzione, secondo i più. Salvo poi, nell'intimità della propria cameretta, tuffarsi nell'ascolto del Claudio nazionale e di quel Lucio Battisti che davvero può considerarsi l'interprete della colonna sonora degli anni '70.
BATTISTI, AMORE E DISIMPEGNO
Affiancato dal paroliere più efficace della storia della canzone italiana - quel Giulio Rapetti più conosciuto sotto il nome di Mogol - Battisti canterà meglio di chiunque altro le emozioni d'amore di quella generazione, che almeno da questo punto di vista non si differenzia dalle precedenti. Se avesse fatto un provino discografico, presentandosi come uno sconosciuto, le case discografiche lo avrebbero cacciato via con quella sua voce stridula, rauca e persino sfiatata, ma lui era Battisti, e non si lascerà mai gestire dai discografici e dai produttori, lui si gestisce da solo e canta a suo modo, fresco e personale, divertendosi anche. Veniva dalla provincia, ma paradossalmente fu proprio lui a "sprovincializzare" la canzone. Da vent'anni la musica e la canzone italiana era proprio provinciale, isolata dal resto del mondo, era melliflua, aveva altri accenti, testi spesso cretini, e titoli paesani. Battisti capisce al volo la situazione, e mescola con furberia gli elementi del rock col ritmo, tratta il vocale del rhythm and blues negro, e non commette gli errori dei precedenti cantautori intellettuali che esprimono malesseri, vita soffocata, angoscia. Poi capisce, che invece di essere inadatta, la sua voce è invece la componente essenziale delle sue canzoni, è la voce di ogni giovane "infuriato col mondo", di tutte le classe sociali. Esprime con semplicità sentimenti delicati, il suo pessimismo è cauto, fa gridi di gioia, si lancia in frasi cantabili e orecchiabili, poi se non incontra delle combinazioni, recita. Va fuori da tutte le regole delle vecchie articolazioni melodiche, e quindi non risulta né falso né affettato, è il ragazzo che vive a Milano a Roma o a Canicattì, che fa l'operaio alla Fiat o studia fisica alla Sapienza. Tutti i giovani si riconosceranno in quella voce, che era poi la loro, ed esplose il successo! Ma il rifiuto di toccare temi politici lo porterà ad essere etichettato a vita come "il cantante della destra". In quest'opera, contributo fondamentale è dato anche da quei ragazzi che, non volendo partecipare all'euforia collettiva del tempo, ascoltano Battisti al posto di Guccini. Ciò, tuttavia, non costerà in termini economici al nostro, che in quegli anni vende più di tutti, al punto da decidere, nel 1982, un definitivo ritiro dalle scene per dedicarsi alla propria vita privata, sfornando un disco ogni tanto. Amor di precisione obbliga a dire che, terminato burrascosamente - alla fine degli anni '70 - il sodalizio con Mogol, Battisti si produrrà in dischi estremamente impegnati, ai limiti dell'ermetismo, che non gli porteranno quei consensi che si era giustamente guadagnato sul campo in precedenza.
LA RABBIA DEL 1977
Sarà stato l'effetto del mancato sorpasso elettorale, sarà stato l'eccessivo clima di tensione vissuto durante i primi anni del decennio, fatto sta che la Sinistra si sfalda. La Contestazione, però non accenna a diminuire, anzi, per certi versi si acuisce. Il 1977 vede nascere, infatti, una generazione di contestatori che non digerisce la sconfitta di quelli del sessantotto. Eppure, questi loro predecessori hanno ottenuto notevoli vittorie. Tra le tante, segnaliamo quella che più riguarda il campo musicale: la nascita delle radio libere. La radiofonia, e quindi la trasmissione musicale, fino al '76 sta nelle mani della Rai. Ma il 10 marzo del 1975, nell'etere accade qualcosa di nuovo: cominciano le trasmissioni di Radio Milano Internazionale, fondata da tre ventenni. E' un vero segnale di libertà: da quelle frequenze, infatti, sgorga tutta quella musica che non riusciva a trovare spazio sulle frequenze Rai. In particolare, Radio Milano e le altre che, a ruota libera, seguiranno la sua strada, rappresenteranno il vero megafono di quella musica che si svilupperà intorno alla protesta del '77. Una protesta violenta, estrema. I giovani sfilano in corteo con le tre dita alzate a mimare il simbolo della P38, inseparabile compagna di quegli anni: chiedono "tutto e subito", come faceva Jim Morrison. Ma se Jim, poi, vi rinunciò per una vita da artista dannato, i nostri non hanno alcuna intenzione di mollare. Il 17 febbraio arrivano a contestare anche un capo storico della sinistra proletaria di quegli anni: Luciano Lama, segretario della Cgil. Questi, durante un comizio a Roma, viene bombardato da bulloni e altri oggetti, lanciati da esponenti delle frange estreme del movimento di allora. Lo sbandamento, tra i giovani, è forte. Francesco Guccini, che pochi anni prima cantava del trionfo della giustizia proletaria ("La locomotiva"), sembra lontano anni luce. Si diffonde un sentimento di delusione mista a rabbia. I cantautori rifiutano la violenza espressa dai giovani di allora: Claudio Lolli, forse il miglior interprete del 1977, canta "disoccupate le strade dai sogni", svergognando chi sognava "l'immaginazione al potere" (slogan tra i più in voga durante il '68). La musica cerca altre vie: c'è la sperimentazione degli Area e della PFM, la provocazione gay di Ivan Cattaneo e Renato Zero, la voglia di fare solo musica con Ivan Graziani. L'impegno che caratterizzava, nei primi anni '70, De Gregori, Venditti, Bennato, sembra scomparso. Se prima era un must, per il cantautore, essere considerato colto - tanto che fioccavano tra di loro gli iscritti all'università e i laureati (Guccini in Magistero, Bennato in Architettura, Vecchioni in Lettere) - adesso si ritorna al cantautore come semplice poeta, o al massimo come sperimentatore. Il tempo dei sogni, insomma, sembra davvero finito.
L'ORA DELL'ULTIMO VALZER
La deflagrazione finale si ebbe nel 1978, con il sequestro Moro. I cinquantacinque giorni di prigionia dell'allora Presidente del Consiglio segnarono il periodo più difficile, per l'Italia, di tutto il dopoguerra. Le Brigate Rosse, con il loro "attacco al cuore dello Stato", cercavano di impedire la normalizzazione del Pci, che doveva avvenire con l'ingresso del partito al governo. Il Paese, dinanzi al più grande pericolo di sovversione mai corso prima, si compatta , politicamente e socialmente. La protesta, insomma, è andata oltre ogni limite, e coloro che negli anni precedenti l'hanno incarnata al meglio - i cantautori - non possono ora condividere la follia di chi ha compiuto quel gesto. La musica, quindi, ritorna lentamente nel suo alveo, faticando però a riconquistare quella qualità che l'aveva contraddistinta durante la prima Contestazione. I primi anni Ottanta saranno caratterizzati da un vuoto musicale italiano che spianerà la strada all'invasione del pop inglese e americano. Forse l'unico che partorì in quegli anni un capolavoro assoluto è De Gregori, con la bellissima "Donna cannone". Ma le note inglesi e a stelle e strisce ci invaderanno. E a proposito di America, là, nel '78, c'è ancora qualcosa per cui vale la pena di combattere: quell'anno, infatti, si verifica l'incidente nucleare di Three Miles Island, che porta alla ribalta il problema legato a quella nuova forma di energia.
In segno di protesta, un gruppo di cantanti americani organizza un concerto a New York, conosciuto con il nome di "No Nukes". Vero mattatore della serata è Bruce Springsteen, nuovo idolo rock americano, considerato - non a torto - l'erede dello scettro di Elvis e di Dylan. Springsteen canta la vita di provincia già nel '75, quando da noi imperversa la protesta studentesca e operaia. Egli sa che in America, invece, l'unica voglia è di raggiungere quel sogno americano che coincide con la realizzazione di una vita migliore sul piano personale. E il pubblico lo incensa, catturato anche dalle sue performance live di quattro ore. La protesta per il nucleare, però, è l'ultimo focolaio di vita della generazione dei "capelloni" americani. E quando alla fine del '78 Martin Scorsese gira il film "The Last Waltz", cronaca dell'ultimo concerto di The Band, il gruppo di Dylan, si capisce che quel tempo è definitivamente tramontato. Sul palco, in quella occasione, sfilano Neil Diamond, Eric Clapton, un Ringo Starr brizzolato che suscita una valanga di ricordi legati a quei favolosi quattro i quali, a colpi di chitarra, cominciarono a cambiare il mondo. E legati a tutti coloro che -nel bene e nel male - li seguirono.
JAZZ
Il jazz (termine di origine incerta) è un genere di musica caratterizzato dalla improvvisazione, da una grande espressività, e anche da un certo virtuosismo strumentale, che nacque tra la fine dell'800 e gli inizi del '900 nel Sud degli Stati Uniti, a New Orleans, dall'incontro delle tradizioni musicali, specialmente ritmiche, portate dagli schiavi dell'Africa occidentale, con le varie forme della musica europea. Percussionismo africano, ragtime pianistico di derivazione euro-americana, canto blues dei neri, spiritual delle chiese protestanti, canti e richiami di lavoro, musica europea per banda militare, perfino echi dell'opera lirica, sono i più importanti elementi che hanno contribuito a questa fortuita e geniale sintesi artistica. Per questo è inesatto e impreciso chiamarlo solo musica afro-americana: non lo distinguerebbe dalle tante altre musiche afro-americane.
Caratteristica peculiare della musica jazz è senza dubbio l'improvvisazione la quale, partendo dalla semplice variazione sul tema iniziale, ha assunto via via sempre maggiore importanza.
Le radici del jazz affondano nella cultura africana, negli schiavi neri, si diceva, deportati negli Stati Uniti. Queste persone, lavorando, cantavano qualcosa che, più tardi, i loro stessi nipoti avrebbero battezzato Blues. Il blues - che evidentemente con il jazz è imparentato - è anch'esso uno stato dell'anima. L'armonia (l'insieme degli accordi alla base della melodia) del blues è assolutamente caratteristica, peculiare, che non ha simile: da essa provengono il jazz e il corrispettivo religioso del blues, lo spiritual (o gospel).
La musica jazz degli albori era basata su combinazioni di elementi musicali africani, articolata cioè su una scala pentatonica, con caratteristiche blue notes, armonie derivate dalla musica colta europea, ed un notevole uso del ritmo sincopato, o con maggior precisione di poliritmi; la differenza tra musica colta e jazz si poi è notevolmente sfumata tanto che non è raro assistere a performance classiche di musicisti jazz e performance jazz di musicisti classici.
La prima e vera esplosione del jazz avvenne a New Orleans, città della Louisiana e grande porto fluviale sul delta del Mississippi, nei primi anni del 1900.
Lo stile musicale che si sviluppò in questa città nasceva dall'incontro tra culture differenti: immigrati inglesi, spagnoli, francesi venivano a contatto con gli schiavi africani e con i creoli, già inseriti nella cultura francese. Non a caso, il suono originario di New Orleans ha diversi punti in comune con gli stili delle marce militari europee. Tutti questi popoli hanno saputo quindi rielaborare quel grande coacervo di culture musicali creando della nuova musica, merito anche della grande capacità che i neri d' America avevano sviluppato nel corso delle oppressioni e schiavitù vissute purtroppo durante i secoli precedenti e operate dall'"uomo bianco" in loro sfavore. Ma la musica jazz, nata quindi, nel nordamerica ha avuto - con il passare del tempo - sempre più estimatori anche nel Vecchio Continente, dove è assai diffusa.
La musica Jazz si può considerare come un nuovo varco verso altri mondi musicali:un genere che, partendo da un substrato che comprendeva le forme popolari del blues (si può dire che tutta la musica moderna discende dalla poetica spassosa del blues primitivo, che è tutt'altro che un cimento infantile), degli spiritual e della musica bandistica e incorporando via via altre forme di musica nera (ad esempio il ragtime degli anni 1920) arrivò ad utilizzare una base di standard usati come punto di partenza per modificarne di continuo ogni modulo armonico, melodico, e ritmico.
In molti lavori sul jazz compaiono fatti che si possono qualificare come politici, ma spesso vengano analizzati seguendo un diverso punto di vista. La politica non è quasi mai il perno centrale del discorso. Storia politica, della cultura e del jazz vanno mescolate se si vuole dipingere un quadro vivo delle inferenze della politica nel jazz e viceversa. Rapporto con il potere o le istituzioni; scambi che arrivano da economia, filosofia, arte, sociologia, cultura. Non si può analizzare il jazz senza tenere presenti gli influssi delle ideologie novecentesche. Sulla politica è poi passata la bufera del Sessantotto e la parola si è caricata di un intero bagaglio di nuovi significati. Gli studenti della seconda metà degli anni Sessanta non condividevano i valori dominanti della società capitalistica, rifiutavano l'individualismo, il potere totalizzante della tecnologia, le catene del consumismo. Questo periodo di decisa rottura con le istituzioni fu caratterizzato dalla radicalità delle forme di lotta e dalla ideologizzazione del conflitto. Dagli Stati Uniti all'Europa occidentale, alla Cecoslovacchia comunista, il movimento giovanile era caratterizzato da una omogeneità culturale: c'era un comune nucleo di principi ispiratori che andavano dall'egualitarismo, al libertarismo. Dalla lotta contro ogni discriminazione razziale e sociale, al rifiuto delle élites di potere ne derivò una concezione della politica come "Partecipazione integrale" e "rifiuto della delega". Una politica che andava strappata dalle mani dei professionisti e dei burocrati mestieranti e riportata al cittadino che ne subiva le conseguenze.
Politica come rovesciamento. La sovversione dei valori ha interessato anche l'universo artistico che si è visto soppiantare in radicalità di espressione dal movimento studentesco, ha avvertito il suo anacronismo, il rilassamento e l'adeguamento ideologico negli schemi rigidi del bipolarismo di fine anni Sessanta. I giovani, a differenza di intellettuali e artisti "ingessati" ideologicamente, sono stati capaci di cogliere i fermenti terzomondisti, la critica francofortese alla società di massa, di creare nuovi modi di far politica, liberare dalle convenzioni certi tipi di rapporti sociali (femminismo, movimento degli omosessuali).
Lo stesso jazz di quel periodo, il free, era un movimento artistico che da una parte assumeva gli ideali e le lotte del movimento studentesco o di quello per i diritti civili in America; dall'altra parte all'interno della stessa musica era una ribellione e un rovesciamento dei valori consolidati. Le contraddizioni sociali trovavano un preciso riferimento nel mondo della musica e diventavano contraddizioni musicali. Tutto è politico o può diventarlo, era uno degli slogans di allora. Contemporanea è la tesi sul rovesciamento del rapporto intellettuali-politica, da critica del potere a contestazione politica degli intellettuali. Questo anche per l'influsso della rivoluzione culturale cinese che propone una ribellione permanente contro la staticità del sistema (anche socialista) e una riflessione sulla figura del "funzionario" asservito alla cultura dominante e funzionale alla riproduzione di un potere sempre uguale nei suoi errori. L'intellettuale viene rifiutato, in quanto residuo della società borghese.
JACKSON POLLOCK
Dopo la seconda guerra mondiale il centro della vita artistica internazionale si sposta da Parigi a New York, che vede la prorompente ascesa dell’arte americana. Uno dei maggiori rappresentanti di questo filone d’oltreoceano è Jackson Pollock, (1912-1956) pittore dalla forte energia
La sua maggiore produzione artistica, contraddistinta da una ricerca creativa febbrile e tormentata, si colloca negli ultimi anni della sua vita.
La sua poetica sarà influenzata da un lato dal Surrealismo di Gorky, in cui il segno rappresenta la proiezione sulla tela dell’interiorità dell’artista, dall’altro dagli studi Jung sull’inconscio.
Leggendo le opere del celebre pscicanalista scopre lo stretto legame tra arte ed inconscio, inteso più che come “recipiente” di ricordi smarriti come fonte infinita di forze vitali, di stimoli all’azione che solo la creazione aristica può esprimere. Da qui il concetto antitetico alla visione puritana dell’America d’allora, votata alla crescita economica e al raggiungimento di un benessere vacuo, di “fare per esistere”: non si esiste per fare, per produrre ma è necessario innanzitutto creare l’esistenza.
Prima dell’azione non c’è nulla, non esistono né l’oggetto né il soggetto, rispettivamente la realtà esterna e il mondo interiore che l’artista solitamente rappresenta, ma solo uno spazio in cui agire e un tempo in cui durare.
La sua concezione artistica lo conduce a mettere in discussione i fondamenti del fare artistico: egli elabora il dripping, una tecnica in cui lascia a cadere sulla tela gocce e spruzzi di colore per mostrare come il caso sia parte della vita umana, che può essere sconfitto non dalla ragione ma dalla capacità di vivere la casualità seguendo i battiti del proprio ritmo interiore.
L’action painting (la pittura dell’azione) racchiude in sé questa riflessione filosofica sull’individuo assumendone però un significato molto più ampio, profondamente legato alla cultura dell’epoca. Essa rappresenta un modo di dipingere che stravolge le convenzioni tradizionali nell’approccio con la tela: Pollock elimina il cavalletto e lavora sulla tela appoggiata sul pavimento girando attorno ad essa, come se volesse calarcisivi dentro fisicamente.
L’ action-painting è reazione violenta dell’artista-intellettuale contro l’artista-tecnico, il designer che si è piegato alle esigenze dell’industria e del mercato. L’ arte di Pollock e l’arte americana in generale sono state definite da Argan, eminente studioso, come “il momento del malessere in una società del benessere”.
Tuttavia Pollock non concepisce la pittura come mezzo per esprimere un messaggio di protesta e di indignazione ma è la sua stessa opera d’arte, la sua creazione spontanea e non progettata, non ragionata a scuotere le coscienze.
Pollock vive il momento dell’ispirazione artistica come un raptus che lo spinge ad utilizzare gli strumenti del pittore in modo del tutto non convenzionale e a conferire dignità agli stessi materiali (vernici metalizzate, smalti, tinture)sfruttati dagli industriali per creare superflui e cangianti beni di consumo. Il pittore tratta queste materie coloranti come creature che assumono autonomia, una propria personalità che si esprime in un rigagnolo o in una chiazza increspata.
Bisogna sottolineare che nel metodo di Pollock in realtà a livello pratico il caso svolge solo un minimo ruolo: malgrado la sua teoria basata sul caso, nell’elaborazione del quadro è l’artista che decide i colori e le loro dosi e li distribuisce sulla tela. E’ pur vero che egli non progetta il quadro ma si lascia trasportare in una sorta di improvvisazione dal ritmo della pittura che lo guida in situazioni visive sempre diverse in cui l’identità fisica, psichica ed emotiva dell’artista si fonde con il quadro, uscendo per un attimo dall’alienante prospettiva della vita sociale.
L’effetto finale dell’opera è un piano spaziale indefinito in cui si aggrovigliano traiettorie ondulate, macchie di colore indistinte dallo straordinario potere evocativo in cui si può riconoscere la molteplice gamma di differenti ritmi sovrapposti l’uno all’altro.
I quadri di Pollock non comunicano un messaggio interpretabile poiché la pittura si colloca al di fuori dell’ordine sociale gerarchizzante e razionale, proprio come l’ordine sociale non ha alcun rapporto con l’arte: sono due mondi diversi che si avvalgono di linguaggi indipendenti.

I critici mettono spesso in relazione l’action painting con la musica jazz, altro grande contributo che l’America ha fornito alla cultura moderna: il gusto per il ritmo e per la varietà dei ritmi, la frenesia della composizione, l’improvvisazione dell’opera, lo sviluppo di temi diversi che si incontrano e si intrecciano costituiscono analogie lampanti che colpirono ed influenzarono i maggiori scrittori Beat contemporanei.

1

Esempio